Le riunioni del Gruppo A.C.S.S.S. sono sempre occasione di nuove riflessioni. Della giornata di sabato 12 giugno posso dire che gran parte del tempo è stata occupata dalla testimonianza di una madre che dettagliatamente ha condiviso la sua dolorosa storia vissuta nell’accompagnamento di un figlio colpito da una grave forma di disagio, conclusasi tragicamente. Cosa poter dire in casi tanto terribili in cui per anni, per decenni si ama una propria creatura afflitta da un “male incurabile” eppur tanto compresa della propria condizione da lasciare ricordi indistruttibili… eterni? Non possiamo e non vogliamo intervenire nè per considerare le cause, lo svolgersi, le circostanze che hanno dato luogo a tanta disperata afflizione, ma cerchiamo almeno di capire come gli studiosi affrontano le prime manifestazioni del disagio giovanile, in un’epoca in cui tanti ragazzi sembrano non “voler vivere”.
testi a cura di Ignazio Baldelli e Ugo Vignuzzi
Il termine italiano disagio è un composto del prefisso dis-, che ha valore negativo (come in molte altre parole del tipo di disamore, disgrazia, disgusto, disoccupato, disordine) e del sostantivo agio cioè comodità, entrato nella nostra lingua nel Medioevo dal francese.
Proprio secondo la formazione della parola, disagio ha in primo luogo il valore opposto a quello di agio, e quindi significa assenza, mancanza di comodità: se qualcuno è a disagio vuol dire che non è a proprio agio, cioè sta almeno scomodo. Più spesso, però, il termine si riferisce al complesso degli elementi di scomodità di una situazione, e per questo viene adoperato di preferenza al plurale: anche chi è abituato a sopportare o a soffrire i disagi di una vita non troppo comoda può lamentarsi di un lavoro in una sede disagiata, magari perché costretto a subire di frequente i disagi del pendolarismo. Come si vede, disagio può indicare non soltanto la scomodità in senso concreto, ma più in generale la sensazione di scomodità che una persona prova. Questa sensazione può essere determinata da fattori psicologici e soggettivi: ci si può sentire a disagio in un luogo perché non si conosce nessuno, ma anche perché ci sembra di non avere l’abito adatto. In alcuni casi sono invece gli altri a metterci a disagio, magari con discorsi che non ci sentiamo di condividere, che ci imbarazzano o ci danno addirittura fastidio. Così, spesso, sono le nuove generazioni, in un mondo che cambia sempre più rapidamente, a sentirsi a disagio di fronte ai comportamenti e alle regole della società degli adulti, che a loro paiono incomprensibili. Il disagio giovanile è tipico di ogni cambio generazionale, ed è reso ancor più vistoso dai mutamenti epocali che caratterizzano questa fine di millennio. La privazione degli agi, da un punto di vista sociale, e in particolare nelle condizioni di benessere di paesi come il nostro, equivale alla povertà; e gli individui e le classi disagiate sono quelle economicamente più deboli e svantaggiate. Ma il disagio sociale, anche se spesso strettamente legato alle condizioni materiali, può nella realtà presentarsi sotto molti aspetti e avere radici complesse. Ciascuno di noi è chiamato a portare il proprio contributo per cercare di ridurlo, se non di eliminarlo. In questo senso l’esempio del volontariato è illuminante: non si tratta di fare occasionalmente la carità a un povero, ma di proporsi un impegno di vita che ci coinvolga in prima persona, all’insegna di quell’umana solidarietà che prescinde dalle differenze di classe, di razza, e di cultura. Ciò vuol dire attivarsi per improntare la vita di tutti i giorni non solo al rispetto, ma all’amore verso il prossimo, nella convinzione che occorre fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a noi, soprattutto quando siamo in una condizione di disagio.
http://www.educational.rai.it/lemma/testi/solidarieta/disagio.htm |
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