Peccato e perdono
di Paolo Farinella
Don Paolo Farinella, parroco di S. Torpete a Genova, oltre ad essere un attento osservatore dell’attualità politica ed ecclesiale è anche (e soprattutto) un fine biblista, che ha trascorso, tra l’altro, cinque intensi anni di ricerca a Gerusalemme, presso lo Studium Biblicum Franciscanum, approfondendo in particolare la conoscenza della lingue bibliche, ebraico, aramaico e greco ellenistico (da anni sta lavorando ad una grammatica greca di tutta la Bibbia). Il suo ultimo libro, Peccato e perdono. Un capovolgimento di prospettiva (Gabrielli Editori, 2015, pp. 111, € 12; il libro può essere acquistato anche presso Adista, scrivendo ad abbonamenti@adista.it; telefonando allo 066868692; o attraverso il nostro sito internet, www.adista.it), se può forse stupire un po’ chi è abituato a leggere gli strali di Farinella contro l’establishment politico ed ecclesiastico, rappresenta in realtà una perfetta sintesi tra l’impegno dello studioso e del polemista, dell’esperto di Sacra Scrittura e del critico rigoroso della strutture farisaiche del potere contemporaneo. Nel libro, pubblicato nella nuova collana di Gabrielli editore “Esh” (cioè il fuoco nella Parola, testi di piccolo formato, che intendono ri-semantizzare parole e temi dell’esperienza religiosa), Farinella riflette sul rivoluzionario significato che nel messaggio di Gesù ha assunto la parola “perdono”.
Lo fa, come in altri suoi lavori, utilizzando gli strumenti dell’esegeta per demistificare i luoghi comuni della religione, restituendo alla fede la sua autenticità, radicalità e fedeltà al testo sacro. In questo caso, Farinella si concentra sui concetti di peccato e perdono, partendo subito dal nodo del “peccato originale”. Il biblista sostiene che questa nozione si regge su una esegesi errata di alcuni passi biblici, che paradossalmente porta a ritenere che ci debba essere per necessità il peccato di Adam ed Eva e poi, solo successivamente, la venuta e la redenzione di Gesù, mandato dal Padre a chiamare l’umanità smarrita e a restaurare il danno compiuto dai progenitori. Però, eccepisce Farinella, se il peccato di Adam era necessario teologicamente alla redenzione, non ci sarebbe colpa o responsabilità nella scelta dei nostri due progenitori. La necessità teologica esclude quindi tassativamente la libertà, cioè la possibilità di scelta. Adam ed Eva, come anche Giuda, avrebbero solo realizzato ciò che era già scritto. Una visione piuttosto limitativa della fede e del progetto di redenzione che porta Farinella a rifiutare un tipo di interpretazione legata solamente alle logiche di un riduzionismo razionalistico e letterale delle Scritture.
Meglio allora, rifacendosi a Dietrich Bonhoeffer ed a Etty Hillesum, pensare il peccato originale come la presunzione di poter conoscere il bene e il male in assoluta autonomia, senza nessun dialogo o rapporto con Dio. L’interpretazione tradizionale della Chiesa può quindi essere superata in forza di una lettura più attenta delle Scritture e della prassi di Gesù. Del resto, il concetto tradizionale di peccato ci riporta alla religione ed alla mentalità arcaica, contrattualistica, mercantile. Proprio quella che Gesù intendeva superare con la sua testimonianza e la sua predicazione. Farinella analizza inoltre a livello linguistico i significati che ha assunto la parola “peccato” nell’ebraico biblico e nel greco dei Vangeli, liberando il vocabolo da quelle riduzioni moralistiche tipiche della tradizione e della teologia cattolica. Il peccato diventa nell’ottica proposta dall’autore non tanto trasgressione a una serie di regole, quanto, piuttosto, la rottura della relazione con Dio e con gli altri.
Anche il senso che diamo al concetto di “conversione” deve – secondo Farinella – cambiare: il biblista ricorda che il verbo greco che rende la parola “conversione” è metanoèo, un termine che contiene la noûs, cioè il pensiero/la mentalità. Gesù, insomma, non chiede di modificare il comportamento, ma di «modificare i criteri di pensiero per mettere in movimento un processo di relazione». Per questo, una “bontà” astratta ed intimistica, che non sia generazione e nascita dell’altro e nell’altro, resta sterile, cioè incapace di generare nuova vita. Analogamente, l’ascesi individualista nel contesto cristiano non ha senso, perché la vittoria sul peccato e sul male non si ottiene se non nel cammino, nella relazione, nel confronto con gli altri. Allo stesso modo pregare non significa riunirsi per gratificare se stessi, ma farsi carico della fragilità, propria ed altrui, affinché lo Spirito di Dio sappia, a modo suo, illuminarci. Pregare implica quindi una condizione di assoluta contemporaneità e presenza nella storia, non certo una astratta ascesi: significa farsi compagno di viaggio di tutti, a partire dai lontani.
All’interno della ekklesìa cristiana, spiega poi Farinella a partire dall’analisi del capitolo 18 del Vangelo di Matteo, il perdono costituisce l’elemento fondativo del senso stesso dell’essere comunità; quasi un metodo permanente dell’essere cristiani.
Perdonare è guarire, suggerisce Farinella, operare cioè un «taglio netto tra ciò che precede e ciò che segue, tra passato e futuro», «togliere gli ostacoli che si frappongono alla pienezza dell’esistenza, perché solo in un’umanità degna di questo nome ognuno può incontrare gli altri e l’Altro». E non è possibile perdonare se non si ribalta la logica dominante e non si mette al centro del percorso comunitario i “piccoli”, ossia le esistenze che non hanno alcun valore agli occhi della società. Sono proprio i “piccoli” e i “peccatori”, divenuti «l’unità di misura della comunità nata dal Vangelo», a fondare veramente l’ekklesìa, dove il perdono e l’apertura all’altro divengono il «programma del nostro cammino verso il compimento del Regno». (V.G.)
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