Edda Cattani

Dio è amore infinito

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DIO E’ AMORE  INFINITO

 

Credo in me, un piccolo nulla cui il Padre ha regalato un cuore. Innestato nel suo.Se ogni mattina, a ogni risveglio, sapessi ascoltare la sua voce che mi sussurra: «Io ti amo, io ti amo, io ti amo», allora diventerei come un bambino preso in braccio, che anche se è sollevato da terra, anche se si trova in una posizione instabile, si abbandona felice e senza timore fra le braccia dei suoi genitori. E questa è la fede!  Ermes Ronchi(Il cuore semplice della fede)

 

Una telefonata, la ricerca disperata di conoscere qualcuno che ascolti e capisca lo smarrimento, il brancolare nel buio alla ricerca di una parola di conforto che confermi che quel figlio non è morto, che c’è ancora ed anzi è più vivo di prima e ci si deve solo mettere in ascolto per renderlo felice. Sono tante le persone che si affacciano timidamente alla nostra porta perché conoscono la nostra vicenda… Dio sa come vorremmo raggiungerle tutte per portare in pienezza la nostra testimonianza che, attraverso gli anni, si è arricchita di sempre nuove conoscenze e di tangibili interventi dei nostri Cari che ci seguono e ci indicano il percorso da seguire.

Difficile è trovare da soli questo percorso; ci sono i convegni, ma costano e, a volte, sono lontani dalla nostra dimora. Ecco allora nascere tanti piccoli gruppi di volonterosi che si ritrovano, ogni settimana, ogni mese in un luogo  ove scambiare le proprie esperienze, le proprie preoccupazioni, i pensieri, le incertezze. Presenta difficoltà anche trovare il luogo adatto; tutti noi si vorrebbe l’aiuto di un sacerdote, magari illuminato, diciamo più aperto e disposto ad ascoltarci. Non sempre capita, come è successo a me di individuare una persona che, messa a conoscenza della nostra straordinaria esperienza, si è inginocchiata e con umiltà, ha ringraziato il Signore per aver conosciuto, in modo così tangibile, la Sua Grazia.

Come dicevo sono tante piuttosto le lagnanze, le lacerazioni che si incontrano, in alcune località in cui i ministri della chiesa non ci aiutano e puntano il dito ad indicarci che non sappiamo accettare la volontà di Dio ed anzi parliamo con esseri che sono più vicino al demonio, o, peggio ancora che noi, con la nostra ricerca, disturbiamo i Nostri Amati e li costringiamo ad un percorso in cui non c’è evoluzione, anzi c’è tormento e assenza di Luce. Ma come?!? …se i nostri Ragazzi facessero parte di questo contesto non chiederebbero la comunicazione con noi e noi stessi non sentiremmo le loro parole di amore e di speranza!

Quanti delusi, in rivolta contro Dio hanno ritrovato la Fede vera, non quella della messa la domenica e dell’attività in parrocchia, ma piuttosto del contatto diretto con quel Dio che i nostri Cari, ora, come dice S.Paolo, vedono “faccia a faccia”. Abbiamo, attraverso gli anni, acquistato anche l’umiltà nel sentirci derisi e non compresi, quasi fossimo reietti, lebbrosi dai quali guardarci. Ma i Figli stessi ci indicano come comportarci: “… Papà, mamma… abbi coraggio! Fate tutto zitti, zitti…” Quanta tenerezza, quante attenzioni… mi chiedo, a volte, se la nostra sia piuttosto una grande ricompensa che ci è stata data, piuttosto che una perdita. Ma quello che può convincere i più scettici è la testimonianza attraverso i comportamenti, i fatti di tutti i giorni che denotano il nostro atteggiamento di disponibilità, di compassione, di amore generoso verso il prossimo, di partecipazione autentica nel senso di sapere “patire insieme” agli altri.

 

Parlavo della telefonata che mi ha raggiunto qualche sera fa, al termine della quale, dopo che si era parlato di passaggio, di un mondo di completezza in cui potremo raggiungere i nostri figlioli, mi sono sentita dire: “Ma allora… Dio è amore!” Certo, Dio è amore e bastano, a convincerci di questo, alcune parti del primo documento ufficiale del pontificato del grande Papa che ha sostituito degnamente il precedente Giovanni Paolo II°.

“Deus Caritas Est”: Dio è amore. E’ la prima enciclica  di Papa Benedetto XVI a raccogliere le nostre riflessioni e a interessare la nostra fede. Questo documento  contiene infatti un’appassionata presentazione dell’amore, che ci coinvolge e ci fa sentire simili quando affermiamo la difesa spirituale della nostra identità. Anche noi, Mamme del Movimento della Speranza, sentiamo profondamente il nostro essere oggetto di questo amore divino, quando con la stessa passione affermiamo la nostra comunione e la nostra comunicazione con i nostri Figli per l’amore che Dio ci ha dato come dono in seguito al nostro grido disperato di aiuto.

Nell’enciclica assieme alla valorizzazione della preghiera, vi sono alcune righe di grande fascino sulla situazione di noi credenti nel mondo odierno: «I cristiani infatti continuano a credere, malgrado tutte le incomprensioni e confusioni del mondo circostante, nella “bontà di Dio” e nel “suo amore per gli uomini”. Essi, pur immersi come gli altri uomini nella drammatica complessità delle vicende della storia, rimangono saldi nella certezza che Dio è Padre e ci ama, anche se il suo silenzio rimane incomprensibile per noi».

Ancora una volta si parla di “silenzio di Dio” da cui nascono tutti i nostri perché: “ Perché Signore, perché la morte, perché è toccato proprio a me…?” Ma Dio, contrariamente a quanto si dice non è silenzioso, Dio parla alla nostra mente e al nostro cuore anche se noi, persi nella nostra disperazione, lo rifiutiamo e non ascoltiamo il Suo richiamo. Abbiamo più volte parlato di segni dei tempi e di carismi, dati a gente semplice ed umile che non aveva chiesto nulla; ed è Dio stesso a cercare queste povere creature e a dare Loro risposta a tanti essenziali interrogativi.

Il nostro cammino deve essere perciò, conoscere, condividere e partecipare: ce lo chiedono i nostri Figli che da una realtà d’amore ci danno segnali di grande speranza che diviene meravigliosa certezza. Era la sera dell’ultimo anniversario della dipartita di Andrea ed io, ormai molto stanca, ritornavo a tarda sera alla mia abitazione. Poche le macchine per strada e tutto buio intorno. Pregavo sottovoce: “Figlio mio, oggi non ho avuto il tempo di pensarti, di parlarti, di sentire la tua presenza accanto a me…” Improvvisamente mi sono trovata davanti all’abbazia di Praglia che si stagliava luminosa, con tutte le sue luci, inspiegabilmente accese, contro il colle ove dimora. Un’immagine stupenda e di grande fascino che parla attraverso i secoli della storia e della fede degli uomini… e dalla radio dove fino a qualche tempo prima, trasmettevano un dibattito politico mi hanno raggiunto all’istante le dolci e meste note della canzone di Freddy Mercuri, “I’ll survive! … Io sopravviverò… la stessa che lui ascoltava quella terribile sera del trapasso.

Sì, i nostri Figli sopravvivono e ci aspettano. Ce lo confermano ad ogni istante e ci chiedono impegno, dedizione, partecipazione finché un giorno li raggiungeremo per condividere il meraviglioso loro cammino… e sarà gioia senza fine!

 

 

 

 

 

 

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Noi e la Chiesa

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La manifestazione dei Figli di Luce 

Prof. Filippo Liverziani

www.convivium-roma.it

Filippo Liverziani filosofo della religione, ha insegnato nella Pontificia Università Gregoriana e nella Pontificia Facoltà Teologica «Marianum». Parapsicologo di frontiera, ha condotto molte centinaia di sperimentazioni di medianità. Ha fondato in Roma il Convivio, centro dì studi e comunità dì ricerca, che promuove Seminari della Speranza in varie città d’Italia.

dal quaderno17

Chi pratica la medianità in maniera non volgare e spicciola, ma spirituale, religiosa, è
persona di sensibilità etica abbastanza viva. Nella mente e nel cuore di questo soggetto
sensibile viene a porsi abbastanza presto il problema se le comunicazioni siano lecite o
meno.
Decenni di studio e vari anni di esperienze dirette, metodiche, portate avanti con tutto
il possibile rigore, mi hanno convinto che noi possiamo veramente comunicare con delle
anime disincarnate.
Questo per quel che riguarda la possibilità materiale. Per quel che, poi, riguarda la
liceità, le repliche ottenute via via dalle entità stesse mi inducono a una risposta un po’
articolata: non si può, invero, concludere che le comunicazioni siano tutte lecite
indiscriminatamente in qualsiasi circostanza, o che siano tutte illecite e sconsigliabili in
blocco.

Ci sono momenti in cui le anime non vanno “disturbate”: soprattutto quando sono

impegnate in un cammino di elevazione spirituale che richiede una totale applicazione e

concentrazione di energie e, a tal fine, anche un certo oblio temporaneo della vita passata

sulla terra. L’anima si deve distaccare dalle antiche passioni, deve lasciar cadere da sé le

scorie dei risentimenti. Giova, allora, in quegli stadi di purificazione, che tanti ricordi

rimangano sospesi: “Avevo nemici. Ma chi erano? E chi se lo ricorda! Ero attaccato a

tante cose. Ma, precisamente, a che?” Questo temporaneo oblio (sottolineo: temporaneo)

rappresenta una tale scorciatoia, costituisce un tale aiuto all’ascesi dell’anima che, se non

fosse così largamente praticato (come risulta alle nostre ricerche medianiche),

bisognerebbe davvero inventarlo!

Ci sono altri momenti in cui un’anima viene a comunicare col pieno “permesso di

Dio”, com’ella stessa lo chiama. La nascita del Movimento della Speranza è legata alle

manifestazioni di quelli che vengono chiamati i “figli di luce” o “ragazzi di luce” o

“giovani di luce”, trattandosi il più spesso di anime trapassate in età assai giovane. Le

loro manifestazioni medianiche rappresentano un fenomeno esteso e profondamente

significativo di questi ultimi quindici anni.

In un altro mio saggio ho chiamato questi ragazzi i “nuovi angeli”. “Angelo” deriva

dal greco ánghelos che vuol dire “messaggero”. I figli di luce vengono ad annunziare ai

genitori, e per tramite loro a tutti gli uomini e donne viventi nella condizione incarnata su

questa terra, che esiste un aldilà, dove la vita continua dopo la morte fisica.

Un tale annuncio è di grande conforto per chi ha perduto, in apparenza almeno,

persone che gli erano carissime, la cui privazione gli ha reso l’esistenza quotidiana vuota

e triste.

In luogo di “consolazione” preferisco dire “conforto”. Poiché non si tratta più di un

mero fatto consolatorio di natura intima, personale e privata. Qui ci sono esperienze reali,

constatabili anche in maniera più oggettiva, e sono esperienze che indubbiamente danno

“forza” alla tesi della sopravvivenza.

I fatti non si limitano a suggerire con forza la sopravvivenza. La manifestazione dei

figli di luce ha per noi un valore ancora più alto: attraverso di essa si fa strada un

messaggio religioso. Questi “nuovi angeli” ci portano divine “parole di vita eterna”. E,

poiché Dio si esprime, più che con parole, con potenza, la manifestazione dei nuovi

angeli è ricca e potente di segni.

Qual è la sostanza di questo messaggio? Esso ci dice che il vero aldilà è Dio stesso:

l’altra dimensione è lo stesso Dio trascendente e creatore, che si incarna nella sua

creazione per redimerla e compierla, per renderla perfetta.

Il divino messaggio, di cui sono potenti latori i nuovi angeli, ci ribadisce che noi,

creature di Dio, non siamo creati a metà e poi abbandonati. È un messaggio che

conferma la prospettiva cristiana: Dio ci ama senza limiti e ci destina alla sopravvivenza,

non solo, ma alla vita eterna.

L’aldilà è la dimensione religiosa per eccellenza, dove ciascuno è destinato a

purificarsi da ogni scoria di male e di imperfezione per non appartenere più a se stesso,

ma a Dio. E Dio, dal canto suo, se è vero che si prende tutto l’uomo, è anche vero che gli

rende tutto al cento per uno.

Una volta che ha purificato l’uomo, Dio lo restituisce ai suoi affetti e a tutto quel che

gli è caro. Gli restituisce le persone care, da cui non ci saranno più separazioni. Gli rende

care tutte le persone, quelle sconosciute come quelle mal conosciute, odiate, o anche solo

fraintese, che un diaframma di imperfezioni umane gli impediva di apprezzare nel valore

infinito che hanno presso Dio e di amarle come Dio le ama.

Tutto questo è reso possibile dal fatto che Dio, creando ogni cosa con infinito amore,

donandosi ad ogni realtà, incarnandosi in ogni realtà, consacra questo stesso mondo.

Le anime dimenticano la terra per un certo periodo, al fine di poter decollare nel cielo

dello spirito. All’ultimo, però, la loro istanza di perfezione vuole che esse siano

reintegrate nella loro umanità piena, in tutta la loro creatività, in tutto quel che hanno

appreso e realizzato.

Dopo la morte fisica le anime sono morte a loro stesse in tutto, anche spiritualmente,

nel distacco da ogni cosa realizzato anche attraverso l’oblio. Ma ora alla morte segue la

resurrezione, cioè la reintegrazione piena di tutti quei fattori che ormai non possono più

rappresentare alcun pericolo per l’attuazione spirituale, ma possono solo completarla.

Resurrezione vuole anche dire che le anime dei defunti verranno, alla fine, a

ricongiungersi agli uomini che ancora vivranno su questa terra. Resurrezione vuol dire la

discesa finale della Gerusalemme celeste, che agli uomini della terra apporterà i frutti di

santità accumulati nel cielo mentre ne assumerà i progressi, le conquiste, le attuazioni

della civiltà, delle scienze, delle arti, dell’umanesimo, perché tutte concorrano a

completare il regno di Dio.

Alla fine ci incontreremo di nuovo tutti. Corre, al presente, il tempo di grazia della

riscoperta dell’altra dimensione. È il tempo, questo, in cui lo stesso aldilà invita e motiva

tanti di noi a portare avanti una serie di comunicazioni medianiche. È una necessità di

studio. Ed è, prima ancora, la necessità di prendere coscienza che “esiste l’aldilà”, come

suona il titolo di un libro di testimonianza: volume che ha ottenuto singolare fortuna, e

non a caso.

In una tale prospettiva non c’è alcun dubbio sulla liceità di un certo tipo di

comunicazioni medianiche, purché attuate in un ceno spirito, con una metodologia

corretta e, s’intende, nella giusta misura.

Tanti uomini chiusi in un’angusta visione materialistica scopriranno che, nei fenomeni

paranormali, la stessa materia obbedisce allo spirito. Scopriranno la realtà dello spirito, la

sua sussistenza autonoma. Il formarsi, nella loro mente, di una concezione diversa del

mondo dei fenomeni potrà agevolare a tanti la scoperta di quel che ci può essere oltre.

I credenti trarranno conferma della loro visione spiritualistica. Gli stessi cristiani sì

sentiranno confermati nella loro fede. Scopriranno che, sostanzialmente, il vero aldilà è

quello che il loro credo già adombrava.

Noi cristiani ci troviamo in una posizione molto favorita. La nostra fede ci predispone

a comprendere le nuove esperienze nel modo giusto; e le esperienze medianiche ottenute

valide vengono recepite.

La spinta a questo cambiamento di posizione è venuta dal basso: da quell’opinione

pubblica dove trova la sua espressione anche il sentimento della gran massa dei laici

della Chiesa cattolica.

E la prima iniziativa da chi mai è venuta, se non dai pochi? Se l’ispirazione che

muoveva quei pochi era buona, certamente veniva da Dio. E ben pochi sono stati anche i

pastori di anime che hanno riconosciuto l’ispirazione divina di quei nuovi germi di futuro

che andavano maturando, di quelle idee nuove che andavano prendendo forma, di quei

nuovi movimenti storici che stentavano i loro primi passi.

Sono convinto che, analogamente, noi della Speranza siamo dei pionieri, degli anticipatori.

Lo siamo quali membri del genere umano e parimenti lo siamo quali membri della

Chiesa. Dobbiamo accettare la nostra solitudine, facendo leva solo sul conforto che ci

viene da Dio e dai suoi angeli, oltre che dalla solidarietà che ci lega l’uno all’altro. Ci

dobbiamo assumere Le nostre responsabilità di laici anche di fronte al clero.

Dobbiamo ricordare, a questo punto, che, in virtù del battesimo, tutti i cristiani sono

sacerdoti. Quello dei diaconi, dei preti, dei vescovi è solo un sacerdozio in un senso più

stretto e pieno. Un sacerdozio “ministeriale” specializzato è, certo, assai funzionale alla

vita della Chiesa. Questa, nel suo insieme, ha certamente bisogno di uomini investiti

della missione di guidarla, di insegnarne la dottrina, di amministrarne i sacramenti.

Questi sacerdoti per eccellenza costituiscono un punto di riferimento particolare, che

però non è mal esclusivo, poiché, ripeto, la Chiesa stessa ci insegna che sacerdoti siamo

tutti in quanto cristiani.

Come laico investito del sacerdozio universale dei cristiani, ciascuno di noi è abilitato

a rappresentare la Chiesa e ad agire nel nome di essa. Così, almeno in qualche misura, è

abilitato a surrogare il sacerdote in senso stretto ove questi sia assente o mal funzionante.

In varie circostanze i laici hanno non solo battezzato, ma raccolto le confessioni

(soprattutto dei morenti in battaglia). Oggi di frequente distribuiscono l’ostia consacrata

agli altri fedeli, dove il sacerdote non arrivi.

Tutti sanno, poi, che nel matrimonio i ministri del sacramento sono gli sposi, non il

prete. Pur sempre in nome della comunità ecclesiale, il sacerdote si limita a prendere atto

che il sacramento, nella sua parte ufficiale e pubblica, ha avuto luogo.

I laici sono molto importanti nella Chiesa. Láos vuol dire, in greco, “popolo”. Ora, la

Rivelazione è verità donata da Dio al suo popolo. È il popolo stesso che ha recepito e

maturato quell’ispirazione divina, non il clero come casta a sé. Kléros, in greco, significa

“la parte”. Il popolo, láos, include il clero nel suo seno, e il clero recepisce e matura le

divine ispirazioni in una col popolo. I vescovi passeranno, poi, a definire meglio, a

meglio interpretare quel che Dio ha rivelato a tutti. Vescovi e preti non rappresentano

affatto una élite aristocratica, né sono per nulla il canale privilegiato di una verità

esoterica data ai pochi e trasmessa segretamente tra quei pochi a loro uso e consumo.

Con ogni reverenza e con tutto l’apprezzamento possibile per il clero e per la sua

missione altissima, bisogna che i laici prendano coscienza del fatto che ciascuno di essi

partecipa al sacerdozio, alla profezia e alla regalità del Cristo. I laici non sono dei preti

mancati, né dei cristiani dimezzati.

Di fatto, questa moltitudine di sacerdoti, profeti e re è stata posta e mantenuta sotto

una tutela eccessiva. Il clero non gli ha accordato mai tutta questa grande fiducia. Di

fatto, e proprio agli effetti pratici, il clero non ha mai considerato il laicato alla luce della

sua piena dignità teologica.

Noi confidiamo che l’autorità legittima della nostra Chiesa vorrà alfine riconoscere la

positività, almeno sostanziale, delle nostre ricerche e del nostro atteggiamento di fronte

all’altra dimensione. Ma intanto bisogna che noi ci assumiamo tutte le responsabilità che

ci competono.

L’autorità della Chiesa non ci smentisce, assume un atteggiamento di prudente

riserva. Dobbiamo riconoscere che è molto saggio fare così quando le idee non si sono

ancora ben chiarite, quando i frutti sono ancora in fase di maturazione e un giudizio

prematuro potrebbe dimostrarsi avventato.

Intanto, però, sta di fatto che noi siamo lasciati senza un numero adeguato di sacerdoti.

In tali circostanze il laico deve ricordare di essere anch’egli sacerdote della Chiesa

in qualche modo e deve sapere assumere questo ruolo per se stesso e per gli altri.

Riconoscere a se medesimo un ruolo sacerdotale significa pure, nei giusti limiti,

decidere da sé, proprio come membro attivo della Chiesa, come soggetto che può parlare

e agire in nome della Chiesa stessa.

Tra i sacramenti c’è quello della “riconciliazione”, o “penitenza”, come viene

chiamato più tradizionalmente. Ha conosciuto le forme più varie attraverso i secoli.

Sono da confessare i peccati: ma, poi, i peccati quali sono? La scelta che noi, in piena

coscienza, abbiamo compiuto e manteniamo ci impedisce di considerare in modo

negativo le comunicazioni medianiche, in quanto tali. Parlo del fatto in sé, come pura

ricerca, motivata che sia da ragioni esistenziali o anche scientifiche; non parlo delle

imprudenze, non degli abusi, che ci possono essere e vanno evitati.

Da sempre la Chiesa si attribuisce la competenza di determinare il lecito e l’illecito.

Lo fa attraverso i suoi pastori di anime. Questi, però, non sono in grado di anticipare le

decisioni che i loro successori assumeranno in futuro, sulla base di valutazioni che

possono cambiare col tempo e dar luogo a valutazioni meglio approfondite e perciò

diverse.

Ecco, allora, che tanti fedeli dovranno chiedersi, con tutta umiltà, se certe innovazioni

non anticipino cose che la gerarchia oggi contesta ma domani approverà pienamente.

Dovranno, ancora, chiedersi se non spetti a loro stessi decidere quelle innovazioni in

piena autonomia. È quel che, appunto, farebbero proprio in quanto membri della Chiesa,

investiti in qualche modo anch’essi di una funzione sacerdotale, oltre che profetica.

La presenza attiva dei sacerdoti nella Chiesa è e rimane elemento di importanza

fondamentale. San Francesco d’Assisi, che non era un prete, e che molti vedono in una

falsa luce di religioso del tutto libero da condizionamenti clericali, inizia il proprio

testamento con queste parole: “Il Signore diede a me, frate Francesco, la grazia di

cominciare a fare penitenza… E il Signore mi diede tale fede nelle chiese sue… E poi il

Signore mi diede, e mi dà ancora, tanta fede nei sacerdoti, che vivono secondo le norme

della santa Chiesa romana secondo il loro Ordine, che, anche se mi dovessero

perseguitare, io vorrei ricorrere a loro. E se avessi tanta saggezza quanta ne aveva

Salomone e trovassi sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle chiese in cui essi

dimorano non vorrei predicare contro la loro volontà. E questi e gli altri tutti voglio

temere, amare e onorare come miei padroni; e non voglio in loro considerare il peccato,

perché vedo il Figlio di Dio in loro, e sono miei padroni. Faccio così, perché nulla vedo

con gli occhi del corpo in questo mondo dell’altissimo Figlio di Dio, se non il santissimo

corpo e sangue suo, che fanno scendere dall’altare e amministrano soli agli altri”.

È il momento di concludere questo discorso, che mi sono permesso di rivolgere ai

miei correligionari, con ogni considerazione anche per gli altri e in modo particolare per i

cristiani di confessione diversa. Dirò allora: noi non siamo protestanti, ma cattolici; e, in

quanto cattolici, abbiamo un vivo senso dell’importanza fondamentale del clero per

l’esistenza stessa di questa Chiesa visibile e militante sulla terra.

Noi amiamo i nostri sacerdoti, abbiamo un grande bisogno di loro e ce li teniamo ben

stretti. Ne abbiamo alcuni, che ci sono vicini con affetto e carità, non solo, ma con vera

comprensione. E vorremmo averne molti di più.

Ma anche ci rendiamo conto che ci troviamo a operare in un campo assai delicato, da

autentici pionieri. Ci assumiamo, pertanto, le nostre responsabilità autonome, anche

proprio di membri della Chiesa.

Così noi crediamo che, se siamo nel giusto, Dio è con noi e la stessa Chiesa di Dio

finirà per accordarci il riconoscimento più aperto e pieno. Ci affidiamo intanto al

Signore, che misteriosamente guida gli eventi umani per il meglio, fino alla piena

attuazione del bene assoluto e totale.

(continua)

 

 


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Al di là dei sogni

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“… ma io lo sogno…”

Possiamo comunicare con i nostri Cari, attraverso il sogno?

 

Franco era un bel bambino, con due grandi occhi bruni, sorridente e sereno. I miei zii l’avevano accolto con tanto amore e su di lui avevano fatto mille progetti. Poi, un giorno terribile, subentrò una circostanza nella felice famigliola e nella vita di Franco che fu inibito nelle principali funzionalità. I genitori, pur nella sventura, ebbero cura di seguire il loro figliolo e, grazie a questo amore, egli poté condurre una esistenza al limite della normalità. Ma, com’era prevedibile, non ebbe la durata di una vita media ed un giorno Franco se ne andò; andò via in silenzio com’era vissuto, ormai distrutto nel corpo, quasi cieco, povera creatura martoriata da mille dolori. La madre, quella santa donna di mia zia, gli stette vicino, determinata fino all’ultimo, per raccoglierne gli ultimi istanti finché lo vide sorridere verso la porta… i nonni defunti erano venuti a ricevere il loro nipotino.

         Franco mancò quasi contemporaneamente al mio Andrea e, con la zia, abbiamo sovente scambiato lacrime ed espressioni. Lei ascoltava quanto le dicevo e leggeva, attraverso “l’Aurora”, quanto raccontavo e commossa mi chiedeva: “… ma tu gli parli? E cosa ti dice? Sta bene? E’ felice?”. Sono queste le domande di sempre che tutti i genitori “orfani” rivolgono; ma alle mie risposte lei replicava: “Io non lo sento, ma lo sogno sempre!”. Sono convinta e credo a questo, come sono certa che Franco abbia trovato una via privilegiata per contattare la sua mamma che l’ha accudito ed amato con disperata fermezza. Mi chiedo allora cosa ci possa essere al di là di questo fenomeno così enigmatico che gli studiosi del settore definiscono “sogno veridico” asserendo che, fra tutte le vie primarie di possibile contatto con coloro che ci hanno lasciato, la via più naturale passa attraverso il sogno.

        

         Ricordo di avere letto, qualche tempo fa, che nell’ora della giornata in cui le tensioni si attenuano e giungiamo al riposo, la coscienza riesce a percepire le vere immagini o messaggi che giungono dall’altra dimensione. E’ come se, fra noi e loro, ci fosse una rete di maglie; queste si allentano proprio nel momento del contatto per farci percepire quanto i nostri Cari vogliono dirci. Ovviamente stiamo parlando sempre di “sogni veridici” o meglio paranormali  cioè corrispondenti a fatti reali. E’ in questo campo che si verificano le premonizioni, sia nel bene che nel male, che anticipano il futuro e che possono essere attribuibili a facoltà di colui che sogna, ma anche a presumibili entità spirituali.

         Si tratta, pertanto, di circostanze straordinarie ed enigmatiche perché trascendono la nostra realtà corporea e psichica proponendoci una situazione impalpabile e labile, sfuggente e da ripercorrere a ritroso con opportune riflessioni e agganci. Il sogno si presenta denso di significato che acquista per noi una valenza determinante per farci considerare che qualcosa o qualcuno ci ha raggiunto e ci presenta prove certe della sua esistenza.

         Spesso alcuni affermano di non sognare e di non avere esperienze in tal senso ma in verità questo non è possibile, perché lo stato di sonno, con le cosiddette fasi di REM e NON-REM, appartiene a tutti; in caso contrario piomberemmo nel patologico. Quando mancò Andrea, ci trovammo sommersi da un’infinità di segni a cui non sapevamo dare spiegazione: io non connettevo e vivevo in una condizione di astenia totale finchè dopo qualche giorno, mio marito che afferma di non sognare si svegliò all’improvviso per raccontarmi quanto gli era successo. Mi disse di avere visto Andrea con una grossa borsa da viaggio, in partenza per una stazione indefinibile; il ragazzo non si decideva a salire sul treno, ma Mentore, pure in un grande stato di angoscia, lo prese per mano e lo condusse verso la carrozza. Mi disse di aver visto il treno che si allontanava pian piano e di averlo seguito a lungo, con lo sguardo; egli era certo che Andrea, dopo i tanti tentativi fatti, intorno a noi, per darci prova della sua esistenza, dovesse a quel punto allontanarsi e che abbia voluto farsi accompagnare dal suo papà, nel suo estremo viaggio, per essere da lui rassicurato, come aveva fatto nelle fasi più importanti della sua esistenza sulla terra.

         Qualche giorno dopo vennero gli amici di Andrea a casa nostra e si fermarono nella sua stanza, come sempre, per sentire un po’ di musica; io e Mentore ci eravamo appartati in malinconica riflessione sui tempi andati e sulla nostra famiglia ormai distrutta. All’improvviso fummo raggiunti da un suono forte e dolce ad un tempo che Mentore definì di “una tromba d’argento” che persisteva, con tono uguale senza volere cessare. I vicini di casa uscirono per vedere se qualche auto non avesse l’allarme innescato, ma fuori non vi erano macchine in questa condizione. I ragazzi con molta semplicità si affacciarono alla finestra dicendo: “questo zé Andrea che fa casìn” , mentre una vecchierella nella casa accanto confessava allarmata: “Madona, ghe zé i spiriti!”. Noi ci trovammo inebetiti a sorridere, comprendendo il messaggio finché Mentore disse: “Ora basta Andrea, abbiamo capito che sei tu!”. A quel punto il suono cessò. Qualche notte dopo sognai Andrea che ben distintamente mi disse: “Sono io mamma, quell’angelo che suona la tromba.”

        

La mia amica Cettina

              Ora vorrei raccontare un sogno accaduto ad altri, ma che mi ha coinvolto direttamente. Nei primi congressi a cui ho partecipato ho conosciuto una cara persona, la mamma di Giovanni, che mi è diventata amica al punto che Andrea definisce Giovanni “mio fratello”. E’ stata lei stessa, che ritroverò a Cattolica proveniente da Taormina, a raccontarmi quanto segue:

“Ho conosciuto, andando in cimitero, la mamma e la zia di Danilo, un ragazzo mancato dopo i nostri figli. Un giorno la zia mi disse di avere sognato di trovarsi in cimitero e di avere visto accanto a sé un bel giovane che le sorrideva e che le aveva detto ‘Sono Andrea, il fratello di Giovanni!’. Io le feci presente che a Taormina non c’era il fratello di Giovanni, che si chiama con un altro nome ed abita a Torino. Ci incamminammo verso casa e giunti lì, la zia di Danilo entrò e le feci vedere l’altarino dove tengo le foto del mio Giovanni e, accanto a lui, c’é quella di Andrea che tu mi desti al nostro primo incontro. A quel punto la zia trasalì e mi disse: “…ma questo è il giovane che ho visto in cimitero!” E’ chiaro che Andrea ha voluto dire anche ad altri, attraverso un sogno, che lui e Giovanni sono vicini come fratelli.”

            Tanti sono gli episodi che potrei raccontare, di cui tanti di noi sono in possesso, ma ci sarà modo di approfondire l’interessante tematica del sogno paranormale in un incontro congressuale futuro. Non vi è dubbio, però, che fra le varie “tecniche” che abbiamo a disposizione per riprendere i contatti con i nostri Cari, in un dialogo che supera la morte fisica, vi sia anche una via naturale, spontanea quale quella del sogno.

         Anche le scritture bibliche parlano, più volte, di sogni attraverso i quali Dio ha dato conto della sua presenza e dei suoi disegni: pensiamo a Giacobbe che proprio in sogno ebbe la visione della scala che poggiava sulla terra e la cima giungeva fino al cielo, mentre angeli andavano e venivano attraverso essa (Genesi 28,12). I padri della Chiesa interpretarono questo sogno come un’anticipazione dell’incarnazione del Verbo che avrebbe mediato fra cielo e terra. Gesù poi  confermò il sogno del Patriarca: “vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo” (Giovanni 1,51). Altri hanno voluto interpretare l’immagine della Provvidenza di Dio attraverso gli angeli.

 

Dalle nostre amiche di FB 

Questa è Vanessa

 Io sono Loredana Valente.. nonché la zia dell’angelo di Vanessa Di Roma.. Figlia di mia sorella Anna Maria Valente…Vanessa era una figlia per me…!! La sogno spesso..ma questa notte è successo una cosa bellissima..!! Io tutte le notti.. o per insonnia o non so che sia.. mi sveglio e vedo l’orario dalla radiosveglia..!! Potevano essere circa le ore 4.. e.. vedo sui numeri della radiosveglia un e.. poi altri tre numeri… poco dopo .. mi sveglio e vedo 2 e altre numeri(dei minuti).. poco dopo mi sveglio e vedo 3 … ed un numero (dei minuti).. alla fine mi sveglio e vedo la mia radiosveglia con i 4 … Che cosa bellissima..!!! Peccato che non ho fatto le foto… non ho pensato a farle..!! Pensavo fosse una vista mia ottica???? Cosa vuol dire?? Il mio angelo era con me?? E’ stato bellissimo…!!!

Edda CattaniAl di là dei sogni
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2 Novembre: una ricorrenza

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2 NOVEMBRE: GIORNO DEI DEFUNTI

(dalla bacheca di P.Alberto Maggi)

Il messaggio dei vangeli è che attraverso la morte la persona continua la sua esistenza in una diversa dimensione, in una continua crescita e trasformazione di se stessa verso la piena realizzazione, come recita il Prefazio per la messa dei defunti: “La vita non viene tolta, ma trasformata”.

È la vita stessa che continua, non un’essenza spirituale dell’individuo (l’anima). La vita, trasformata e arricchita dal patrimonio di bene che l’individuo reca con sé, entra nella pienezza della condizione divina, come scrive l’autore dell’Apocalisse: “Beati fin d’ora i morti che muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito, riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono” (Ap 14,13).

Unendo paradossalmente due termini contrastanti quali la morte e la beatitudine, l’autore afferma che la morte fisica non ha l’ultima parola sulla vita del credente. La morte non è una sconfitta o un annientamento e neanche l’ingresso in uno stato di attesa, ma un passaggio a una dimensione di pienezza definitiva. Per questo la risurrezione non è una seconda vita né una nuova vita, ma la piena realizzazione di questa unica vita che l’uomo ha.

Eterno riposo?

I defunti non stanno al cimitero, il luogo dei “resti mortali”, ma continuano la loro esistenza nella pienezza di Dio, è questo il significato di “Riposeranno dalle loro fatiche”.

Il riposo al quale allude l’autore non indica la cessazione delle attività, ma la condizione divina, come il Creatore che “compì l’opera che aveva fatta, e si riposò il settimo giorno” (Gen 2,2). Con la morte l’individuo riposa dalle opere compiute nella sua esistenza terrena, ma viene chiamato a collaborare all’azione creatrice di Dio comunicando vita agli uomini: “Chi è entrato infatti nel suo riposo, riposa anch’egli dalle sue opere, come Dio dalle proprie” (Eb 4,10).

La morte non conduce a un eterno riposo inteso nel senso di un divino ozio per tutta l’eternità, ma all’attiva e vivificante collaborazione con l’azione del Creatore. In quest’azione creatrice l’amore che il defunto aveva verso i suoi cari non viene affievolito, ma arricchito dalla stessa potenza d’amore del Padre. La morte non allenta i rapporti umani ma li potenzia.

L’unica cosa che l’uomo porta con sé nella nuova dimensione di vita sono le opere compiute nella sua esistenza terrena. Le opere con le quali l’uomo ha trasmesso vita agli altri, sono la sua ricchezza, quel che hanno resola vita eterna già in questa esistenza, innescando nell’individuo un processo di trasformazione che non viene fermato dalla morte, ma potenziato.

La morte non è niente.

Sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto. Io sono sempre io e tu sei sempre tu.

Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora.

Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare; parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.

Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste.

Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme.

Prega, sorridi, pensami! Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima: pronun-cialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza.

La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto: è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza.

Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista?

Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo.

Rassicurati, va tutto bene.

Ritroverai il mio cuore, ne ritroverai la tenerezza purificata.

Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami: il tuo sorriso è la mia pace.

Henry Scott Holland (1847-1917). Canonico della cattedrale di St. Paul (Londra).


Edda Cattani2 Novembre: una ricorrenza
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Ognissanti e Defunti: preghiera di Francesco

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Ognissanti e Defunti

(la preghiera di Papa Francesco)     

 

 

Ci prepariamo a celebrare due importanti ricorrenze: la solennità di Tutti i Santi e la Commemorazione dei defunti. «Sono giorni di speranza», ha detto papa Francesco lo scorso anno nell’omelia della messa celebrata al cimitero monumentale del Verano, a Roma, dove tornerà anche quest’anno. E ha spiegato che «nel giorno dei Santi e prima del giorno dei Morti è necessario pensare un po’ alla speranza che ci accompagna nella vita. I primi cristiani dipingevano la speranza con un’ancora, come se la vita fosse l’ancora gettata nella riva del Cielo e tutti noi incamminati verso quella riva, aggrappati alla corda dell’ancora. Questa è una bella immagine della speranza: avere il cuore ancorato là dove sono i nostri antenati, dove sonoi Santi, dove è Gesù, dove è Dio».

Ad accomunare le due ricorrenze, per Francesco, è «la speranza che non delude». Ma dove e come hanno avuto origine? Va detto, innanzitutto, che solo la prima (Ognissanti) è una festa di precetto, che prevede cioè l’obbligo per i fedeli di partecipare alla messa. Vi si celebrano l’onore e la gloria di tutti i Santi in ossequio al credo cristiano della “Comunione dei Santi” che Paolo VI, nel “Credo del popolo di Dio”, definiva «la comunione di tutti i fedeli di Cristo, di coloro che sono pellegrini su questa terra, dei defunti che compiono la loro purificazione e dei beati in cielo: tutti insieme formano una sola Chiesa; noi crediamo che in questa comunione l’amore misericordioso di Dio e dei suoi santi ascolta costantemente le nostre preghiere».

La festa dei martiri la festa dei santi

Le origini della celebrazione risalgono al IV secolo (le prime tracce portano ad Antiochia, in Siria) quando la Chiesa celebrava la memoria dei martiri della fede il 13 maggio. A cambiare la data di quella che, nel 615, Bonifacio VI aveva ufficializzato come Festa di tutti i Martiri, fu Gregorio III che scelse il 1° novembre (secondo alcuni per “cristianizzare” la festa pagana del Capodanno celtico che cadeva proprio nei primi giorni di novembre). In seguito, su richiesta di Gregorio IV, il re dei Franchi Luigi il Pio decretò festa di precetto quel giorno che, da Festa di tutti i Martiri, diventò la Festa di Ognissanti. è grazie a questo nome che oggi, comunemente, vi si festeggia anche l’onomastico di tutte le persone il cui nome non compare nel calendario cristiano (adespoti). Dal 1° giugno 1949 il giorno di Ognissanti è stato inserito tra quelli considerati festivi.

Fiori, dolci e visite al cimitero
Anche le origini della festa dei defunti risalgono all’antichità, più precisamente all’inizio del Decimo secolo. In quel periodo nel convento di Cluny, in Francia, viveva l’abate benedettino Odilone, canonizzato da Clemente VI nel 1345 (la sua memoria liturgica ricorre il 1° gennaio). Il monaco era talmente devoto alle anime del Purgatorio da dedicare loro messe, preghiere e penitenze. Secondo la tradizione un giorno, tornando dalla Terra Santa, uno dei suoi confratelli gli raccontò una storia che lo colpì moltissimo: dopo avere fatto naufragio, il monaco era approdato sulle coste della Sicilia dove aveva incontrato un eremita che gli aveva riferito di avere sentito provenire da una grotta i lamenti delle anime del Purgatorio e le urla dei demoni che gridavano proprio contro Odilone. Sentita questa storia, l’abate ordinò ai suoi monaci di far suonare le campane dell’abbazia con rintocchi funebri dopo la celebrazione dei vespri del 1° novembre, quelli dei Santi, per commemorare i Morti.

Il giorno dopo, dunque il 2 novembre, l’eucaristia sarebbe stata offerta per la pace di tutti i defunti. In seguito il rito fu esteso a tutta la Chiesa cattolica. Ancora oggi è consuetudine, in quello che viene comunemente chiamato il “giorno dei morti”, recarsi al cimitero e portare fiori sulle tombe dei propri cari. In molte località italiane, per celebrare la giornata, si usa anche preparare dei dolci, i cosiddetti “dolci dei morti”.

di Tiziana Lupi

Edda CattaniOgnissanti e Defunti: preghiera di Francesco
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Santi e Morti: tra storia e riti

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FESTIVITA’ DI OGNISSANTI – E – COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI.

E’ la festa cattolica di tutti i santi con la quale si sogliono onorare non solo i santi, iscritti nel Martirologio romano e nel calendario delle singole Chiese, ma tutti i trapassati che godono la gloria del Paradiso.

Di origine antica, la festività di Ognissanti, dapprima dedicata ai soli martiri, era celebrata, nelle varie Chiese, subito dopo la Pasqua; fu spostata, poi dopo la Pentecoste.

Il 13 maggio 609, con decorrenza 610, il Papa Bonifacio IV dedicò il Pantheon in onore

della Madre di Dio e di tutti i martiri e ogni anno se ne celebrava l’anniversario con grande solennità e largo concorso di pellegrini.

Da queste feste sembra derivare quella di Tutti i Santi, fissata al primo di novembre dell’anno 835 dal Papa Gregorio IV.

Più tardi, nel 998, Odilo abate di Cluny aggiungeva la celebrazione, nel giorno seguente, della festa di tutte le anime a soddisfare l ‘aspirazione generale per un giorno di commemorazione dei morti.

 

Nell’antico e colorito, ma realistico, mondo contadino esiste un proverbio legato al primo giorno del mese di novembre: Ognissanti, manicotti e guanti, la comparazione è chiara: comincia la stagione fredda.

 

 1 e 2 Novembre – Ognissanti e il giorno dei morti

Poesie di Vincenzo Cardarelli

Santi del mio paese

 

Ce ne sono di chiese e di chiesuole,
al mio paese, quante se ne vuole!
E santi che dai loro tabernacoli
son sempre fuori a compiere miracoli.
Santi alla buona, santi famigliari,
non stanno inoperosi sugli altari.
E chi ha cara la subbia, chi la pialla,
chi guarda il focolare e chi la stalla,
chi col maltempo, di prima mattina,
comanda ai venti, alla pioggia, alla brina,
chi, fra cotanti e così vari stati,
ha cura dei mariti disgraziati.
Io non so se di me qualcuno ha cura,
che nacqui all’ombra delle antiche mura.
Vien San Martino che piove e c’è il sole,
vedi le vecchie che fanno all’amore.
Rustico è San Martin, prospero, antico,
e dell’invidia natural nemico.
Caccia di dosso il malocchio al bambino,
dà salute e abbondanza San Martino.
Sol che lo nomini porta fortuna
e fa che abbiamo sempre buona luna.
Volgasi a lui , chi vuol vita beata,
in ogni istante della sua giornata.
Vien Sant’Antonio, ammazzano il maiale.
Col solicello è entrato carnevale.
L’uomo è nel sacco, il sorcio al pignattino,
corron gli asini il palio e brilla il vino.
Viene, dopo il gran porcaro,
San Giuseppe frittellaro,
San Pancrazio suppliziato,
San Giovanni Decollato.
E San Marco a venire non si sforza,
che fece nascer le ciliege a forza.
E San Francesco, giullare di Dio,
è pure un santo del paese mio.
Ce ne sono di santi al mio paese
per cui si fanno feste, onori e spese!
Hanno tutti un lumino e ognuno ha un giorno
di gloria, con il popolino intorno

 

Il giorno dei morti fu ufficialmente collocato alla data del 2 Novembre nel X sec. d.c. circa, praticamente fondendosi con il 1 Novembre, già festa di ognissanti dall’anno 853, per sovrapporsi alle più antiche celebrazioni di quei giorni.

Tra il popolo comunque, le vecchie abitudini furono adattate alla nuova festa e al suo mutato significato, mantenendo la credenza che in quei giorni i defunti potevano tornare tra i viventi, vagando per la terra o recandosi dai parenti ancora in vita.

In tutta italia si possono ancora oggi ritrovare gesti e pratiche tradizionali per la celebrazione di queste feste.

Riti popolari per i defunti – Cibo tradizionale

 

In quasi tutte le regioni possiamo trovare pratiche e abitudini legate a questa ricorrenza. Una delle più diffuse era l’approntare un banchetto, o anche un solo un piatto con delle vivande, dedicato ai morti.

 

Qualche esempio caratteristico.

 

In Abruzzo si decoravano le zucche, e i ragazzi di paese andavano a bussare di casa in casa domandando offerte per le anime dei morti, solitamente frutta di stagione, frutta secca e dolci. Questa tradizione è ancora viva in alcune località abruzzesi.

Diffusa è anche l’usanza della questua fatta da schiere di ragazzi o di contadini e artigiani che vanno di casa in casa cantando un’appropriata canzone.

A Pettorano sul Gizio (Abruzzo) essa suona così:


Ogge è lla feste de tutte li sande:
Facete bbene a st’aneme penande

Se vvu bbene de core me le facete,
nell’altre monne le retruverete.

 

In Calabria, nelle comunità italo-albanesi, ci si avviava praticamente in corteo verso i cimiteri: dopo benedizioni e preghiere per entrare in contatto con i defunti, si approntavano banchetti direttamente sulle tombe, invitando anche i visitatori a partecipare.

 

In Emilia Romagna nei tempi passati, i poveri andavano di casa in casa a chiedere la carita’ di murt, ricevendo cibo dalle persone da cui bussavano.

In Friuli – a quanto informa l’Osterimann – i contadini lasciano un lume acceso, un secchio d’acqua e un po’ di pane sul desco. E’ il motivo che ispira la già ricordata poesia del Pascoli La tovaglia, dove la sensazione della presenza dei morti nella casa, nel silenzio della notte, è resa in maniera oltremodo commovente e suggestiva:


Entrano, ansimano muti:
ognuno è tanto mai stanco!
e si fermano seduti
la notte, intorno a quel bianco.

Stanno li sino a domani
col capo tra le mani,
senza che nulla si senta
sotto la lampada spenta.

Sempre in Friuli, come del resto nelle vallate delle Alpi lombarde, si crede che i morti vadano in pellegrinaggio a certi santuari, a certe chiese lontane dall’abitato, e chi vi entrasse in quella notte le vedrebbe affollate da una moltitudine di gente che non vive più e che scomparirà al canto del gallo o al levar della bella stella.

A queste credenze s’ispira uno dei più significativi racconti di Caterina Percoto, la ben nota scrittrice friulana, che tanti motivi trasse dal folklore della sua terra.

Questa presenza dei morti, avvertita con un’intensità che raggiunge la potenza di una visione, è però sempre associata, nella mentalità popolare, all’azione benefica e alla speranza nella beatitudine eterna.

In Lombardia abbiamo invece gli oss de mord, o oss de mort, fatti con pasta e mandorle toste, cotti al forno, di forma bislunga, con vago sapore di cannella in particolare:

A Bormio, la notte del 2 novembre si era soliti mettere sul davanzale una zucca riempita di vino e, in alcune case, si imbandisce la cena.

Ma anche nel Vigevanasco (Vigevano) e in Lomellina si suole mettere in cucina un secchio (l’acqua fresca, una zucca di vino, piena, e sotto il camino il fuoco acceso e le sedie attorno al focolare

A Comacchio c’e’ invece il punghen cmàciàis, il Topino Comacchiese, dolce a forma di topo preparato in casa

  

In Piemonte, si soleva per cena lasciare un posto in più a tavola, riservato ai defunti che sarebbero tornati in visita.

In Val d’Ossola sembra esserci una particolarità in tal senso: dopo la cena, tutte le famiglie si recavano insieme al cimitero, lasciando le case vuote in modo che i morti potessero andare lì a ristorarsi in pace. Il ritorno alle case era poi annunciato dal suono delle campane, perchè i defunti potessero ritirarsi senza fastidio.

In Puglia la sera precedente il due novembre, si usa ancora imbandire la tavola per la cena, con tutti gli accessori, pane acqua e vino, apposta per i morti, che si crede tornino a visitare i parenti, approfittando del banchetto e fermandosi almeno sino a natale o alla befana.

Sempre in Puglia, ad Orsara in particolare, la festa veniva (e viene ancora chiamata) Fuuc acost e coinvolge tutto il paese. Si decorano le zucche chiamate Cocce priatorje, si accendono falò di rami di ginestre agli incroci e nelle piazze e si cucina sulle loro braci; anche qui comunque gli avanzi vengono riservati ai morti, lasciandoli disposti agli angoli delle strade.

Diffusa è anche l’usanza della questua fatta da schiere di ragazzi o di contadini e artigiani che vanno di casa in casa cantando un’appropriata canzone.

Questa costumanza in Puglia si chiama senz’altro cercare l’aneme de muerte e si apre con questa specie di breve serenata rivolta alla massaia:


Chemmare Tizie te venghe a cantà
L’aneme de le muerte mò m’a da dà.
Ah ueullà ali uellì
Mittete la cammise e vien ad aprì.


La persona a cui è rivolta la canzone di questua si alza, fa entrare in casa la brigata ed offre vino, castagne, taralli ed altro.

 

In Sardegna  dopo la visita al cimitero e la messa, si tornava a casa a cenare, con la famiglia riunita. A fine pasto però non si sparecchiava, lasciando tutto intatto per gli eventuali defunti e spiriti che avrebbero potuto visitare la casa durante la notte. Prima della cena, i bambini andavano in giro per il paese a bussare alle porte, dicendo: <<Morti, morti…>> e ricevendo in cambio dolcetti, frutta secca e in rari casi, denaro.

  

In Sicilia c’e’ l’usanza di preparare doni e dolci per i bambini, ai quali viene detto che sono regali portati dai parenti trapassati. I genitori infatti raccontano ai figli che se durante l’anno sono stati buoni e hanno recitato le preghiere per le anime dei defunti, i morti porteranno loro dei doni.

Dolci Tradizionali

In Sicilia troviamo la mani, un pane ad anello modellato a forma di unico braccio che unisce due mani, e il pane dei morti, un pane di forma antropomorfa che originariamente si suppone fosse un’offerta alimentare alle anime dei parenti morti

 

Le strenne.

In Sicilia, le anime dei morti, il 2 novembre, recano i doni ai bimbi, doni che vengono appunto chiamati cose dei morti.

 Per ottenerli, i bimbi recitano questa preghiera:



Armi santi, armi santi (= anime sante)
Io sugnu unu e vuatri siti tanti: (
= io sono uno e Voi siete tante)
Mentri sugnu ‘ntra stu munnu di guai
Cosi di morti mittiminni assai

cose dei morti, cioè regali, mettetemene assai; s’intende nella scarpetta o nel cestello che i bimbi lasciano la sera appesa alla finestra o a capo del letto.
E i morti scendono a schiere bianche e spettrali, entrano in chiesa, assistono alla prima messa, poi si dirigono alle loro case a ritrovare i loro cari. L’ingenua fantasia del popolo li vede.

A Palermo una antica tradizione, legata alla festa dei morti, voleva che i genitori regalavano ai bambini dolci e giocattoli, dicendo loro che erano stati portati in dono dalle anime dei parenti defunti. Di solito per i maschietti si usava donare armi giocattolo, alle bimbe: bambole, passeggini, assi da stiro, fornelli. I più facoltosi regalavano tricicli e biciclette fiammanti. Al mattino si trovava il regalo nascosto in un punto insolito della casa, nella notte tra l’1 e il 2 novembre. La sera prima si nascondeva la grattugia perché si pensava che i defunti, a chi si fosse comportato male, sarebbero andati  a grattare i piedi! 

  La festa ha un origine e un significato che si collegano al banchetto funebre, di cui si ha ancora un ricordo nel consulu siciliano , il pranzo che i vicini di casa offrivano ai parenti, dopo che il defunto era stato tumulato.

  Celebri tra questi dolci sono quelli a forma umana, quali i pupi ri zuccaru detta Pupaccena: una statuetta cava fatta di zucchero indurita e dipinta con colori leggeri con figure tradizionali (Paladini, ballerini ed altri personaggi del mondo infantile) o di pasta di miele o i biscotti detti ossa ri muortu o “u pupu cu l’ovu”.

 

Tipici sono la tradizionale muffulietta, un tipo particolare di pane (spugnoso e morbido) con poca mollica che si conza (si prepara) con OLIO, ACCIUGA, ORIGANO, SALE E PEPE con la variante del POMODORO fresco.  I frutti di martorana, fatti con pasta di mandorle e poi dipinti, sono spesso vere opere d’arte per la straordinaria somiglianza a quelli veri: nespole, castagne, pesche, fichidindia, arance e tanti altri che riempiono, associati al misto (u ruci mmiscu): il dolce misto fatto da rimasugli di biscotti impastati una seconda volta, bianco per la velatura di zucchero e marrone per la presenza di cacao; U CANNISTRU, con frutta secca, fichi secchi e datteri e che riempie la base , la martorana e i biscotti, ‘a MURTIDDA e il tutto sormontato dalla Pupaccena. Per renderlo più scintillante bastava aggiungere dei cioccolattini con carta stagnola e filamenti di carta di diversi colori. a Palermo si svolge La Fiera dei Morti: bancarelle offrono ai vari visitatori nonché ai genitori l’opportunità di potere acquistare giocattoli, vestiario, dolciumi di ogni genere per preparare il tradizionale Cannistru.

In Cianciana (Sicilia) escono dal Convento di S. Antonio de’ Riformati; attraversano la piazza e arrivano al Calvario: quivi, fatta una loro preghiera al Crocefisso, scendono per la via del Carmelo.

E’ nel passaggio appunto che lasciano i loro regali ai fanciulli buoni.
Nel viaggio seguono questo ordine: vanno prima coloro che morirono di morte naturale, poi i giustiziati, poi i disgraziati, cioè i morti per disgrazia loro incolta, i morti
di subito, cioè repentinamente, e via di questo passo.

In Casteltermini (Sicilia) il viaggio è ogni sette anni, e i morti lo fanno attorno al paese, lungo le vie che devono percorrere le processioni solenni

  

LE FAVE

 

Cibo di rito per la ricorrenza dei morti sono le fave.

Secondo gli antichi – dice il Pitrè – le fave contenevano le anime dei loro trapassati: erano sacre ai morti. Presso i Romani avevano il primo posto nei conviti funebri.

Anche quest’uso fu dalla pietà cristiana portato sopra un piano più alto e riempito di un nuovo significato: poiché le fave, o anche i ceci lessi, in capaci bigonci venivano posti agli angoli delle strade e ciascuno vi poteva attingere a volontà. S’intende che più vi attingevano i poveri. Ancora oggi in Capitanata (Puglia) molte famiglie cuociono in grosse caldaie notevoli quantità di ceci o di grano, che condiscono col succo degli acini di melograno, e ne offrono dei piatti ai poveri in suffragio delle anime dei defunti. Ora le fave dei morti sono, di regola, sostituite con dolci di egual nome, e di foggia più o meno simile.

 

In Veneto le zucche venivano svuotate, dipinte e trasformate in lanterne, chiamate lumere: la candela all’interno rappresentava cristianamente l’idea della resurrezione.

 

 

 

 Per i contenuti di questa pagina ringraziamo i siti ed i libri:

(Estratto da: Paolo Toschi, Invito al folklore italiano, Studium, Roma)

Da http://www.palermoweb.com/

www.correrenelverde.it

 da cui abbiamo preso molte notizie.

 Vedi anche:

http://www.grifasi-sicilia.com/festedeimorti.html

 

 

Edda CattaniSanti e Morti: tra storia e riti
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Alda Merini : Ognissanti

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Festa di Ognissanti:

la scomparsa di una grande donna

LA SEMPLICITA’-VENTO

La semplicità è mettersi nudi davanti agli altri.
E noi abbiamo tanta difficoltà ad essere veri con gli altri.
Abbiamo timore di essere fraintesi, di apparire fragili,
di finire alla mercé di chi ci sta di fronte.
Non ci esponiamo mai.
Perché ci manca la forza di essere uomini,
quella che ci fa accettare i nostri limiti,
che ce li fa comprendere, dandogli senso e trasformandoli in energia, in forza appunto.
Io amo la semplicità che si accompagna con l’umiltà.
Mi piacciono i barboni.
Mi piace la gente che sa ascoltare il vento sulla propria pelle,
sentire gli odori delle cose,
catturarne l’anima.
Quelli che hanno la carne a contatto con la carne del mondo.
Perché lì c’è verità, lì c’è dolcezza, lì c’è sensibilità, lì c’è ancora amore.

Alda Merini 

In un pomeriggio che prelude alla primavera (è il 4 marzo 2008), nella sua casa milanese sui Navigli, la poetessa Alda Merini, scomparsa l’anno scorso nella solennità di Tutti i Santi, rivela al suo intervistatore Antonio Prudenzano: «Ieri ho scritto una poesia sulla Sindone, pur non avendola mai vista dal vivo. Ho usato la fantasia. Mi sono lasciata trasportare dalle sensazioni. La poesia è una g…razia ricevuta, un dono di Dio… Pensi a San Francesco, di cui di recente ho scritto [Una voce per Francesco, Frassinelli, Milano 2007, cfr. FVS, febbraio 2008, NdA]. Era un uomo gioioso, in pace con la vita e con Dio. Ed era un grandissimo poeta.» È stata, quella sulla Sindone, una delle sue ultime poesie, conferma Giuliano Grittini, amico e fotografo personale della poetessa, che le fu vicino negli ultimi attimi di vita: «Soffriva, – confida al giornalista Fabrizio Tassi – ma era sempre pronta a scherzare anche col medico che la seguiva. Le ho fatto anche delle foto in ospedale. Mi ha dettato delle poesie. Una delle ultime era sulla Sindone: me l’ha dettata una notte in cui non riusciva a dormire.» Il tema della Croce, l’enigma di Gesù, il suo volto sfigurato, l’orrore di quelle piaghe sparse sul corpo, dei dolorosi segni impressi nelle sue carni dal legno del patibolo, sono ora raccolti in florilegio nella raccolta postuma pubblicata lo scorso dicembre da Einaudi, quale testamento poetico della Merini, a cura di Ambrogio Borsani, di cui la poetessa era ancora riuscita a correggere le bozze benché già malata, e che teneva molto a vedere stampata, ma purtroppo non ha più fatto in tempo. Il titolo è Il carnevale della croce: titolo stupefacente e visionario, di grande potenza e violenza espressiva, che riprende il commento di Luca Bragaja (in Nel cerchio di pensiero, 2003), il quale, dando un giudizio complessivo sull’intera opera poetica della Merini, la definisce «”carnevale della crocifissione”, culmine della corporeità violata e simbolo denso del misticismo cristiano.» Un commento che la Merini stessa, probabilmente, aveva ispirato, rimuginando con evidente assiduità la pregnanza di quell’espressione nel suo immenso valore universale e nella dirompente potenza immaginifica, tanto da renderne conto successivamente nel 2007 con perfetta lucidità ed estremo e totale disincanto, per il Calvario in primis (nei suoi versi insieme «diamante» e «teatro magnifico della derisione») e per tutti i Golgota della terra: «Il Golgota è il luogo del Cranio, il centro del mondo. Ma è anche il carnevale della Croce. Perché, mentre portavano a morire atrocemente i poveri condannati, i carnefici si divertivano. Ecco quello che non distingue l’uomo dalla bestia: la tortura, l’essere carnefice dell’altro. E gli uomini sanno farlo con sapienza. Cristo viene issato, viene preso in giro. Però tutto questo l’aveva già previsto. Anche la Madonna. Ma l’amore accetta tutto.» (Così in un’intervista a Roberto Beretta). Sì, è vero: l’amore accetta tutto, come lo ha accettato la poetessa dei Navigli nella sua travagliata e turbolenta esistenza, in particolar modo nella ultradecennale permanenza in manicomio, dove era approdata con lo strazio del distacco appena dopo la nascita dell’amata Barbara, l’ultima delle sue figlie: «Ho conosciuto Gerico, / ho avuto anch’io la mia Palestina, / le mura del manicomio / erano le mura di Gerico / e una pozza di acqua infettata / ci ha battezzati tutti. / Lì dentro eravamo ebrei / e i Farisei erano in alto / e c’era anche il Messia / confuso dentro la folla: / un pazzo che urlava al Cielo / tutto il suo amore in Dio…» (da La Terra Santa, raccolta del 1984 considerata il suo capolavoro, la sua consacrazione poetica, scritta in appena otto giorni mentre il marito stava morendo di cancro). Proprio negli abissi di quell’inferno, infatti, Alda Merini si riavvicina a Dio (da ragazza, lei dice, avrebbe voluto farsi suora, ma suo padre non volle), i suoi occhi brancolanti nelle tenebre rivedono la luce, conosce la risurrezione attraverso la sua sofferenza e quella di chi la circonda. Ma il dolore (è ancora lei a dirlo), purtroppo non si stempera col tempo: lavora nel profondo e corrode; non si fa più lieve e non abitua, ma rende più sensibili e riluttanti al patire: al proprio patire e all’altrui. Ed ecco come la sua pena si scioglie in pagine amate e commoventi, fino alla delicata e confidenziale trasparenza di versi d’amore e senza vergogna come questi: «Gesù, / forse è per paura delle tue immonde spine / ch’io non ti credo, / per quel dorso chino sotto la croce / ch’io non voglio imitarti. / Forse, come fece San Pietro, / io ti rinnego per paura del pianto. / Però io ti percorro ad ogni ora / e sono lì in un angolo di strada / e aspetto che tu passi. / E ho un fazzoletto, amore, / che nessuno ha mai toccato, / per tergerti la faccia.» Siamo nel 2001 quando Alda Merini pubblica questa poesia in Corpo d’amore. Un incontro con Gesù (ora in Il carnevale della croce, p. 32), che sgorga dall’intimo come flusso di coscienza ed è capace di scavare nelle profondità dell’io e di risalirvi in un’esplosione di stupore: «In ogni parte, / malgrado tu fossi interamente ignudo…, / io ti ho visto salire le colline della mia origine / e non so / da vera innamorata qual sono / come tu faccia a conoscermi / e chi ti abbia messo dentro di me. » È lo stupore dell’innamorata del Cantico dei cantici, che scopre di essere amata da quella “Presenza onnipresente” che la insegue e la trova «in ogni parte», in ogni luogo, nei recessi del suo cuore e nelle tenebre della sua mente; è lo stupore mistico di fronte alla presenza di un Dio «ignudo», umile, disarmato, che «ha espresso il suo amore per l’uomo col pianto » e la conosce ancor prima di farsi conoscere, è l’atteggiamento nuovo sul quale si fonda e si consolida il suo amore per il Cristo incarnato, sofferente e crocifisso, quel Cristo che in un primo tempo si fa fatica umanamente ad accettare, così esposto alla sua debolezza, ed è più facile rinnegare come Pietro, nonostante la fede e i suoi migliori propositi, per paura di doverlo imitare. Ma poi, ad un certo punto, si arriva a riconoscerne la forza: la forza del dono di sé, dell’amore totale. Per questo, se l’amore è il sentimento che sempre prevale in Alda Merini, e diciamolo: in tutte le sue declinazioni, in forma di eros come di agape («al di là di ogni immondizia / e sutura, c’è la grande speranza / che il tempo redima i folli / e l’amore spazzi via ogni cosa», così in una delle sue ultime poesie d’amore contenute nel Carnevale della croce), negli ultimi tempi, di conversione in conversione, esso assume la forma più alta, raggiunge il livello dei mistici, manifestandosi nella contemplazione del mistero della passione e della morte di Gesù Cristo, «uomo dei dolori che ben conosce il patire», non più con il raccapriccio iniziale, ma con tutta la tenerezza dell’innamorata, con tutta l’acuta sensibilità e la pietas della donna, che – novella Veronica – sulla via del Calvario gli deterge il viso dal sangue e dal sudore. E, ai piedi della croce, si getta ad abbracciarlo con lo strazio della madre: di quella Madre, «che si legò ai piedi del figlio / per essere trascinata con lui sulla croce / e ne venne sciolta / perché continuasse a vivere nel suo dolore» (da Poema della croce, ora nel volumetto einaudiano a p. 55). Tale è ormai, sul finire della vita, il radicamento della Merini in Gesù, che mentre nei suoi versi fa risuonare la voce di lui nell’esclamazione: «Io non sono morto, non morirò mai», gli fa eco con la sua voce in questo inno di risurrezione: «Se mi inchiodano sopra una croce, non fanno che inchiodare le ali di una farfalla finalmente libera.» Funerali di stato (il 4 novembre 2009) nel Duomo di Milano per Alda Merini, dove lei tante volte era andata a dire e cantare i suoi versi con Giovanni Nuti. Al termine della santa messa presieduta da mons. Brambilla, vicario episcopale, lo stesso Nuti, il cantautore toscano legato dal 1994 da un sodalizio umano e artistico molto forte con la poetessa in odore di Nobel, ha voluto offrile col canto una sua poesia, forse la prediletta: Il legno. Sì, quel legno della croce che, Cristo esclama per voce di Alda, «come una falce / falcerà tutti i reprobi della terra. / Il legno come cosa giusta. / Io, figlio di un falegname, / ho scelto il legno per morire, / ma dal legno si alzerà la mia gloria.» Rosa Dimichino in “Francesco il Volto Secolare”, febbraio 2010. In un pomeriggio che prelude alla primavera (è il 4 marzo 2008), nella sua casa milanese sui Navigli, la poetessa Alda Merini, scomparsa l’anno scorso nella solennità di Tutti i Santi, rivela al suo intervistatore Antonio Prudenzano: «Ieri ho scritto una poesia sulla Sindone, pur non avendola mai vista dal vivo. Ho usato la fantasia. Mi sono lasciata trasportare dalle sensazioni. La poesia è una g…razia ricevuta, un dono di Dio… Pensi a San Francesco, di cui di recente ho scritto [Una voce per Francesco, Frassinelli, Milano 2007, cfr. FVS, febbraio 2008, NdA]. Era un uomo gioioso, in pace con la vita e con Dio. Ed era un grandissimo poeta.»

È stata, quella sulla Sindone, una delle sue ultime poesie, conferma Giuliano Grittini, amico e fotografo personale della poetessa, che le fu vicino negli ultimi attimi di vita: «Soffriva, – confida al giornalista Fabrizio Tassi – ma era sempre pronta a scherzare anche col medico che la seguiva. Le ho fatto anche delle foto in ospedale. Mi ha dettato delle poesie. Una delle ultime era sulla Sindone: me l’ha dettata una notte in cui non riusciva a dormire.»

Il tema della Croce, l’enigma di Gesù, il suo volto sfigurato, l’orrore di quelle piaghe sparse sul corpo, dei dolorosi segni impressi nelle sue carni dal legno del patibolo, sono ora raccolti in florilegio nella raccolta postuma pubblicata lo scorso dicembre da Einaudi, quale testamento poetico della Merini, a cura di Ambrogio Borsani, di cui la poetessa era ancora riuscita a correggere le bozze benché già malata, e che teneva molto a vedere stampata, ma purtroppo non ha più fatto in tempo.

Il titolo è Il carnevale della croce: titolo stupefacente e visionario, di grande potenza e violenza espressiva, che riprende il commento di Luca Bragaja (in Nel cerchio di pensiero, 2003), il quale, dando un giudizio complessivo sull’intera opera poetica della Merini, la definisce «”carnevale della crocifissione”, culmine della corporeità violata e simbolo denso del misticismo cristiano.»

Un commento che la Merini stessa, probabilmente, aveva ispirato, rimuginando con evidente assiduità la pregnanza di quell’espressione nel suo immenso valore universale e nella dirompente potenza immaginifica, tanto da renderne conto successivamente nel 2007 con perfetta lucidità ed estremo e totale disincanto, per il Calvario in primis (nei suoi versi insieme «diamante» e «teatro magnifico della derisione») e per tutti i Golgota della terra: «Il Golgota è il luogo del Cranio, il centro del mondo. Ma è anche il carnevale della Croce. Perché, mentre portavano a morire atrocemente i poveri condannati, i carnefici si divertivano. Ecco quello che non distingue l’uomo dalla bestia: la tortura, l’essere carnefice dell’altro. E gli uomini sanno farlo con sapienza. Cristo viene issato, viene preso in giro. Però tutto questo l’aveva già previsto. Anche la Madonna. Ma l’amore accetta tutto.» (Così in un’intervista a Roberto Beretta).

Sì, è vero: l’amore accetta tutto, come lo ha accettato la poetessa dei Navigli nella sua travagliata e turbolenta esistenza, in particolar modo nella ultradecennale permanenza in manicomio, dove era approdata con lo strazio del distacco appena dopo la nascita dell’amata Barbara, l’ultima delle sue figlie: «Ho conosciuto Gerico, / ho avuto anch’io la mia Palestina, / le mura del manicomio / erano le mura di Gerico / e una pozza di acqua infettata / ci ha battezzati tutti. / Lì dentro eravamo ebrei / e i Farisei erano in alto / e c’era anche il Messia / confuso dentro la folla: / un pazzo che urlava al Cielo / tutto il suo amore in Dio…» (da La Terra Santa, raccolta del 1984 considerata il suo capolavoro, la sua consacrazione poetica, scritta in appena otto giorni mentre il marito stava morendo di cancro).

Proprio negli abissi di quell’inferno, infatti, Alda Merini si riavvicina a Dio (da ragazza, lei dice, avrebbe voluto farsi suora, ma suo padre non volle), i suoi occhi brancolanti nelle tenebre rivedono la luce, conosce la risurrezione attraverso la sua sofferenza e quella di chi la circonda. Ma il dolore (è ancora lei a dirlo), purtroppo non si stempera col tempo: lavora nel profondo e corrode; non si fa più lieve e non abitua, ma rende più sensibili e riluttanti al patire: al proprio patire e all’altrui.

Ed ecco come la sua pena si scioglie in pagine amate e commoventi, fino alla delicata e confidenziale trasparenza di versi d’amore e senza vergogna come questi: «Gesù, / forse è per paura delle tue immonde spine / ch’io non ti credo, / per quel dorso chino sotto la croce / ch’io non voglio imitarti. / Forse, come fece San Pietro, / io ti rinnego per paura del pianto. / Però io ti percorro ad ogni ora / e sono lì in un angolo di strada / e aspetto che tu passi. / E ho un fazzoletto, amore, / che nessuno ha mai toccato, / per tergerti la faccia.»

Siamo nel 2001 quando Alda Merini pubblica questa poesia in Corpo d’amore. Un incontro con Gesù (ora in Il carnevale della croce, p. 32), che sgorga dall’intimo come flusso di coscienza ed è capace di scavare nelle profondità dell’io e di risalirvi in un’esplosione di stupore: «In ogni parte, / malgrado tu fossi interamente ignudo…, / io ti ho visto salire le colline della mia origine / e non so / da vera innamorata qual sono / come tu faccia a conoscermi / e chi ti abbia messo dentro di me. »

È lo stupore dell’innamorata del Cantico dei cantici, che scopre di essere amata da quella “Presenza onnipresente” che la insegue e la trova «in ogni parte», in ogni luogo, nei recessi del suo cuore e nelle tenebre della sua mente; è lo stupore mistico di fronte alla presenza di un Dio «ignudo», umile, disarmato, che «ha espresso il suo amore per l’uomo col pianto » e la conosce ancor prima di farsi conoscere, è l’atteggiamento nuovo sul quale si fonda e si consolida il suo amore per il Cristo incarnato, sofferente e crocifisso, quel Cristo che in un primo tempo si fa fatica umanamente ad accettare, così esposto alla sua debolezza, ed è più facile rinnegare come Pietro, nonostante la fede e i suoi migliori propositi, per paura di doverlo imitare. Ma poi, ad un certo punto, si arriva a riconoscerne la forza: la forza del dono di sé, dell’amore totale.

Per questo, se l’amore è il sentimento che sempre prevale in Alda Merini, e diciamolo: in tutte le sue declinazioni, in forma di eros come di agape («al di là di ogni immondizia / e sutura, c’è la grande speranza / che il tempo redima i folli / e l’amore spazzi via ogni cosa», così in una delle sue ultime poesie d’amore contenute nel Carnevale della croce), negli ultimi tempi, di conversione in conversione, esso assume la forma più alta, raggiunge il livello dei mistici, manifestandosi nella contemplazione del mistero della passione e della morte di Gesù Cristo, «uomo dei dolori che ben conosce il patire», non più con il raccapriccio iniziale, ma con tutta la tenerezza dell’innamorata, con tutta l’acuta sensibilità e la pietas della donna, che – novella Veronica – sulla via del Calvario gli deterge il viso dal sangue e dal sudore. E, ai piedi della croce, si getta ad abbracciarlo con lo strazio della madre: di quella Madre, «che si legò ai piedi del figlio / per essere trascinata con lui sulla croce / e ne venne sciolta / perché continuasse a vivere nel suo dolore» (da Poema della croce, ora nel volumetto einaudiano a p. 55).

Tale è ormai, sul finire della vita, il radicamento della Merini in Gesù, che mentre nei suoi versi fa risuonare la voce di lui nell’esclamazione: «Io non sono morto, non morirò mai», gli fa eco con la sua voce in questo inno di risurrezione: «Se mi inchiodano sopra una croce, non fanno che inchiodare le ali di una farfalla finalmente libera.»

Funerali di stato (il 4 novembre 2009) nel Duomo di Milano per Alda Merini, dove lei tante volte era andata a dire e cantare i suoi versi con Giovanni Nuti. Al termine della santa messa presieduta da mons. Brambilla, vicario episcopale, lo stesso Nuti, il cantautore toscano legato dal 1994 da un sodalizio umano e artistico molto forte con la poetessa in odore di Nobel, ha voluto offrile col canto una sua poesia, forse la prediletta: Il legno. Sì, quel legno della croce che, Cristo esclama per voce di Alda, «come una falce / falcerà tutti i reprobi della terra. / Il legno come cosa giusta. / Io, figlio di un falegname, / ho scelto il legno per morire, / ma dal legno si alzerà la mia gloria.»

Rosa Dimichino in “Francesco il Volto Secolare”, febbraio 2010.

Edda CattaniAlda Merini : Ognissanti
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Solennità di TUTTI I SANTI

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 1 NOVEMBRE: Solennità di TUTTI I SANTI

(P. Santo Sessa dal Santuario della Madonna del Carmine)


Dal VANGELO SECONDO MATTEO (Mt 5,1-12)

nel Vangelo di oggi Gesù ci parla della vera Beatitudine-Felicità:

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte:
si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli.
Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

GESÙ VEDENDO MOLTA FOLLA SI MISE A INSEGNARE:
Gesù vede molta folla di poveri, affamati, bisognosi, ecc…
e si mette a insegnare, a dare Speranza a questi cuori afflitti.

BEATI VOI…:
quello di Gesù è un discorso sconvolgente e ‘rivoluzionario’:
come può essere ‘beato’ chi soffre, chi è povero…!?
Ma per Gesù non è beata la povertà o la sofferenza in se stessa,
ma è beato chi vive tutto ciò confidando in Dio che può tutto,
la sua beatitudine-felicità sarà nella ricompensa che Dio gli darà!
“Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno dei Cieli!”
A loro Gesù promette: “Il Regno è vostro!”
Non è una promessa fatta per il futuro. Il verbo è presente.
Il Regno appartiene già a loro. Loro sono beati fin da ora.

BEATI I POVERI IN SPIRITO…:

Non riguarda solo una povertà ‘materiale’ ma soprattutto ‘spirituale’,
la povertà di spirito è prima di tutto un atteggiamento interiore.
Povero in spirito è l’ANAWIM:
chi si affida e dipende totalmente da Dio
chi confida solamente in Lui, con fiducia totale.
L’Anawim, la povera per eccellenza è Maria:
“Ha guardato all’UMILTA’ (povertà-piccolezza) della sua serva…
ma GRANDI COSE ha fatto in me l’Onnipotente!”

● La seconda beatitudine parla di “afflitti” o “piangenti”,
di quanti attendono che Dio venga ad asciugare le loro lacrime:
solo Dio conosce il loro cuore, ascolta il loro grida e viene in soccorso.

● La terza beatitudine dice “Beati i miti”,
cioè coloro che si impegnano perché il mondo viva in modo fraterno.
Quante anime si spendono e hanno dato la vita per la Pace
per un mondo lacerato in cui possa esserci concordia e armonia!

● La quarta beatitudine ci dice che: “gli affamati e gli assetati della giustizia” saranno beati perché collaborano nella realizzazione del progetto di Dio….verranno sfamati e dissetati abbondantemente!

● “Beati i misericordiosi” è la quinta beatitudine.
Misericordiosi è un vocabolo che in ebraico non esiste al plurale
in quanto la misericordia è una virtù che appartiene solo al Signore
e in un sol caso è applicata al giusto (il Messia).
Possiamo essere misericordiosi verso tutti
solo se facciamo esperienza della Misericordia!

● La sesta beatitudine parla di ” Puri di cuore”,
di quanti sono semplici, integri, sinceri, autentici…
essi saranno beati perché sono i soli in grado di vedere Dio.

● La settima beatitudine dice che “quelli che fanno pace…”.
I pacifici non i ‘pacifisti’,
i portatori non di una pace ‘idealizzata’
ma i portatori di Gesù, vera e unica Pace!

● “I perseguitati” dell’ottava beatitudine
sono coloro che affidano a Dio la difesa della loro innocenza
che affidano la loro vita a Dio, come loro unico ‘rifugio’ sicuro.

LA VOSTRA RICOMPENSA È GRANDE NEI CIELI…:
non è facile vivere le Beatitudini
ma se la mèta è UNA GRANDE RICOMPENSA
se la mèta è il PREMIO che Dio ci darà PER SEMPRE
allora siamo incoraggiati a perseverare fiduciosi.

COSA DICE ALLA NOSTRA VITA CONCRETAMENTE…:
è difficile entrare in questa ‘logica’ e in questo linguaggio di Gesù,
ma sappiamo dai Santi e da persone che concretamente vivono
sulla loro pelle l’esperienza della povertà, sofferenza e ingiustizia,
offrendole e vivendole totalmente per il Signore, come siano
nella pace interiore e come vivano di una Gioia e Speranza
che solo la Fede sa donare…
Vivere le Beatitudini significa FIDARSI di Dio
nonostante la concretezza delle sofferenze che viviamo,
significa sentire di essere ‘più vicini’ a Cristo
che non ha scelto per sé la ricchezza e il successo,
ma la povertà, l’incomprensione e l’ingiustizia, fino a morire,
eppure risorgendo ha vinto ogni male dell’uomo e del mondo
e ci rende partecipi della Sua Vittoria se crediamo in Lui.
Non è facile ma se proviamo ci accorgiamo, già ora,
che ciò che Gesù promette nel Vangelo, si realizza oggi,
la fede non è illusione, è fiducia, è certezza…GIA’ ORA!!

PENSIERO SPIRITUALE: S. BERNARDO di Chiaravalle

«Che cosa ha trovato Gesù nella povertà
per amarla tanto e preferirla alle ricchezze?
O sbaglia Gesù Cristo o si sbaglia il mondo.»

 

 

Edda CattaniSolennità di TUTTI I SANTI
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Buon compleanno Lene!

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Una festa per Lene!

… e dolcetto scherzetto  …

per tutti i bambini!!!

Sei nata stanotte, nella “notte delle streghe “ mentre il vento ululava alla luna ma tu sei la stella piu dolce del cielo — you were born tonight and the wind was howling to the moon, but you were and you still are the brighter star in the sky.

Auguro una buona serata a tutti.. e mi raccomando.. dolcetto e scherzetto.. sennò che gusto c’è…. un abbraccione anche a Lene che stanotte verrà a farci un giro da stè parti, perchè le preparerò qualcosa di buono da mangiare .

your dad, il tuo papà

1 Novembre

Ecco, immaginate che stamattina pignone mi stava tenendo tra le sue “mani” èh si, pesavo solo 900 grammi, ecco perché il papà mi chiamava pulcetta o ranocchietta…. io volevo ringraziarvi tutte per i vostri splendidi messaggi che avete lasciato sulla mia bacheca, e nel contempo voglio lasciare un pensiero, lo stesso che ho lasciato al mio pignone quando piangeva di fronte alla mia tomba, gli dissi: non piangermi qui, questa non è casa mia, casa mia è il vento che ti accarezza il viso casa mia sono le stelle che illuminano i tuoi passi….. TVB

 

 

 

 

 

Halloween

 

Halloween (o Hallowe’en) è una festività che si celebra principalmente negli Stati Uniti, nord del Messico, e alcune provincie del Canada nella notte del 31 ottobre. Le attività tipiche di questa festa sono: dolcetto o scherzetto, partecipare a parate o sfilate in costume tipico, intagliare una tipica zucca di Halloween, o jack-o’-lantern, allestire falò, visitare attrazioni collegate a fantasmi e spiriti, fare scherzi, raccontare storie.

Nelle mie scuole i bambini, con le loro insegnanti di Lingua Inglese hanno sempre festeggiato la giornata di Halloween ed io ho collaborato con loro a costruire zucche dipinte, o scavate per mettere all’interno candele accese… Poi ci si travestiva con costumi sui quali banalizzare ogni immagine “horror”; quale occasione in più per  far tacere e ridicolizzare la simbologia delle “paure” profonde dei bambini.

 

 

 

 

Il simbolismo di Halloween include anche temi come la morte, il male, l’occulto o i mostri  mitologici. Nero e arancione sono i colori tradizionali di questa festa.

Il simbolismo di Halloween deriva da varie fonti, inclusi costumi nazionali, opere letterarie gotiche e horror (come i romanzi Frankenstein e Dracula) e film classici dell’orrore (come Frankenstein e La mummia). Tra le primissime opere su Halloween si ritrovano quelle del poeta scozzese John Mayne che nel 1780 annotò sia gli scherzi di Halloween in “What fearfu’ pranks ensue!”, sia quanto di soprannaturale era associato con quella notte in “Bogies” (fantasmi), influenzando la poesia Halloween dello scrittore Robert Burns. Prevalgono anche elementi della stagione autunnale, come le zucche, le bucce del grano e gli spaventapasseri. Le case spesso sono decorate con questi simboli nel periodo di Halloween.

           

 Per questo molti cristiani non ascrivono un significato negativo ad Halloween, vedendolo come una festa puramente secolare dedicata al celebrare “fantasmi immaginari” e a ricevere dolci. Infatti Halloween non costituisce una minaccia per la vita spirituale dei bambini: gli insegnamenti sulla morte e la mortalità e le credenze degli antenati celti possono essere una lezione di vita valida e una parte dell’eredità proveniente da varie culture. Ma c’è anche chi ritiene che Halloween abbia delle connessioni col paganesimo, perciò nelle scuole parrocchiali parrocchiali cattoliche si sorvola su questa opportunità giocosa e rigettano la festività, perché sono convinti che essa celebri il paganesimo, l’occulto, o altre pratiche e fenomeni culturali giudicati incompatibili con le loro credenze, o, addirittura, credono che si sia originata una celebrazione pagana dei defunti.

Fare “dolcetto o scherzetto” e travestirsi

 

 

Fare dolcetto o scherzetto è un modo per far la festa di Halloween per i bambini. I bambini vanno in costume di casa in casa chiedendo dolciumi come caramelle o qualche spicciolo con la domanda “Dolcetto o scherzetto?” La parola “scherzetto” è la traduzione dell’inglese “trick”, che si riferisce alla “minaccia” (“threat” in inglese) di fare danni ai padroni di casa o alla loro proprietà se non viene dato alcun dolcetto. In alcune parti della Scozia i bambini girovagano ancora travestiti. Con queste sembianze fanno qualche marachella, es. cantano o raccontano storie di fantasmi, per guadagnare i loro dolcetti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Edda CattaniBuon compleanno Lene!
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