Edda Cattani

Il “disagio” nei nostri ragazzi

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Le riunioni del Gruppo A.C.S.S.S. sono sempre occasione di nuove riflessioni. Della giornata di sabato 12 giugno posso dire che gran parte del tempo è stata occupata dalla testimonianza di una madre che dettagliatamente ha condiviso la sua dolorosa storia vissuta nell’accompagnamento di un figlio colpito da una grave forma di disagio, conclusasi tragicamente. Cosa poter dire in casi tanto terribili in cui per anni, per decenni si ama una propria creatura afflitta da un “male incurabile” eppur tanto compresa della propria condizione da lasciare ricordi indistruttibili… eterni? Non possiamo e non vogliamo intervenire nè per considerare le cause, lo svolgersi, le circostanze che hanno dato luogo a tanta disperata afflizione, ma cerchiamo almeno di capire come gli studiosi affrontano le prime manifestazioni del disagio giovanile, in un’epoca in cui tanti ragazzi sembrano non “voler vivere”.

testi a cura di Ignazio Baldelli e Ugo Vignuzzi

 

 

DISAGIO

sostantivo maschile

LA CITAZIONE

“…. ma prima che la bilancia dei calcoli femminili avesse pesato i disagi a cui poteva andare incontro,…”

Heinrich von Kleist

IL FILM

“IL CAMMINO DELLA SPERANZA”

Pietro Germi

(1950)

 

 

 

 

Il termine italiano disagio è un composto del prefisso dis-, che ha valore negativo (come in molte altre parole del tipo di disamore, disgrazia, disgusto, disoccupato, disordine) e del sostantivo agio cioè comodità, entrato nella nostra lingua nel Medioevo dal francese.

Proprio secondo la formazione della parola, disagio ha in primo luogo il valore opposto a quello di agio, e quindi significa assenza, mancanza di comodità: se qualcuno è a disagio vuol dire che non è a proprio agio, cioè sta almeno scomodo.

Più spesso, però, il termine si riferisce al complesso degli elementi di scomodità di una situazione, e per questo viene adoperato di preferenza al plurale: anche chi è abituato a sopportare o a soffrire i disagi di una vita non troppo comoda può lamentarsi di un lavoro in una sede disagiata, magari perché costretto a subire di frequente i disagi del pendolarismo.

Come si vede, disagio può indicare non soltanto la scomodità in senso concreto, ma più in generale la sensazione di scomodità che una persona prova.

Questa sensazione può essere determinata da fattori psicologici e soggettivi: ci si può sentire a disagio in un luogo perché non si conosce nessuno, ma anche perché ci sembra di non avere l’abito adatto.

In alcuni casi sono invece gli altri a metterci a disagio, magari con discorsi che non ci sentiamo di condividere, che ci imbarazzano o ci danno addirittura fastidio.

Così, spesso, sono le nuove generazioni, in un mondo che cambia sempre più rapidamente, a sentirsi a disagio di fronte ai comportamenti e alle regole della società degli adulti, che a loro paiono incomprensibili.

Il disagio giovanile è tipico di ogni cambio generazionale, ed è reso ancor più vistoso dai mutamenti epocali che caratterizzano questa fine di millennio.

La privazione degli agi, da un punto di vista sociale, e in particolare nelle condizioni di benessere di paesi come il nostro, equivale alla povertà; e gli individui e le classi disagiate sono quelle economicamente più deboli e svantaggiate.

Ma il disagio sociale, anche se spesso strettamente legato alle condizioni materiali, può nella realtà presentarsi sotto molti aspetti e avere radici complesse.

Ciascuno di noi è chiamato a portare il proprio contributo per cercare di ridurlo, se non di eliminarlo.

In questo senso l’esempio del volontariato è illuminante: non si tratta di fare occasionalmente la carità a un povero, ma di proporsi un impegno di vita che ci coinvolga in prima persona, all’insegna di quell’umana solidarietà che prescinde dalle differenze di classe, di razza, e di cultura.

Ciò vuol dire attivarsi per improntare la vita di tutti i giorni non solo al rispetto, ma all’amore verso il prossimo, nella convinzione che occorre fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a noi, soprattutto quando siamo in una condizione di disagio.

 

http://www.educational.rai.it/lemma/testi/solidarieta/disagio.htm

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Sul fine vita

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Sul fine vita

maggi-libro

 

Per Papa Francesco è “moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà in seguito definito ‘proporzionalità delle cure’…”. Tanti i commenti alle parole di Bergoglio. Frate Alberto Maggi, intervistato da Repubblica, sottolinea: “Il punto è: è sacra la vita o l’uomo? Se è sacra la vita si deve difendere a oltranza anche quando diviene accanimento; se, invece, è sacro l’uomo gli si deve riconoscere la sua dignità e in alcuni casi lo si può anche aiutare ad andarsene serenamente”

Sta inevitabilmente facendo discutere la lettera inviata da Papa Francesco a Monsignor Vincenzo Paglia e ai partecipanti al Meeting Regionale Europeo della World Medical Association, in cui il Pontefice cita, tra l’altro, la Dichiarazione sull’eutanasia del 5 maggio 1980. Per Bergoglio è “moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà in seguito definito ‘proporzionalità delle cure’”. Bergoglio, che con le sue parole si inserisce prepotentemente nel dibattito sul “fine vita”, sottolinea la necessità di “un supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona”.

 

 

abbandono1

Tra i commenti seguiti all’intervento di Bergoglio, segnaliamo l’intervista a Repubblica del biblista Alberto Maggi, che parte da un episodio personale: “Ero ricoverato in ospedale per dissezione aortica. Non sapevo bene che malattia fosse. Accesi l’iPad e lessi che dava alta possibilità di morte. Parlai coi medici prima dell’operazione chirurgica che di lì a poco dovevo subire. Fui chiaro: se fossi rimasto paraplegico volevo vivere, ma se fossi incorso in danni cerebrali permanenti, come era altamente probabile, no, dovevano lasciarmi morire.Parlai anche col mio confratello Ricardo e gli dissi di far sì che le mie volontà fossero in tutto e per tutto esaudite: ‘Per carità — gli dissi — se succede aiutami a staccare’”.

Nel corso dell’intervista il teologo si sofferma anche sulle parole del Papa: “Dicono della sua passione per l’umanità. Il Papa alla dottrina preferisce l’uomo. Non vuole portare gli uomini verso Dio, sennò ci sarebbe bisogno di leggi, di norme, quanto portare Dio verso gli uomini. E vuole farlo, appunto, non con una dottrina ma con una carezza, un linguaggio insomma che tutti possono capire…”.

(da il libraio.it)

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Io e l’aldilà

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Io e l’aldilà

(intervista di L.Vaccari)

 

Vittorio Messori dice che per affrontare l’argomento dell’aldilà un piccolo aneddoto forse può essere utile. Quando faceva il giornalista a Tuttolibri, l’inserto settimanale del quotidiano La Stampa, ha pubblicato Ipotesi su Gesù. Nessuno, neanche l’autore, si aspettava il successo internazionale che ha avuto: traduzioni in tutto il mondo, un milione di copie vendute in Italia. “Gli editori mi sollecitano a scrivere ancora”, ricorda. “Per sei anni taccio”. Vuole fare, come farà, Scommessa sulla morte. Ed ecco il fatterello: “Presento il manoscritto alla Sei e in Casa editrice rimangono interdetti: “No. Non possiamo mettere la parola morte in copertina” “. Esplode addirittura una rivolta della Rete commerciale: “Mi chiedono di cambiare titolo, perché, secondo loro, librai e lettori, leggendo quel vocabolo, si sarebbero toccati i genitali o avrebbero afferrato altri amuleti”. Messori non cede. Il libro esce e vende immediatamente 350 mila copie. “Ho tenuto duro perché  Scommessa sulla morte sostiene che espellere o rimuovere la morte è il percorso migliore per avvelenare la vita”.

Pensa spesso all’ultimo atto, che, “per quanto sia stata bella la commedia”, scrive Blaise Pascal, “è sempre tragico”?

“Come tutti quelli che amano davvero la vita. Il modo per essere davvero necrofilo è cercare di dimenticare o di scacciare la morte: l’unico per dargliela vinta. Se non l’affrontiamo, e non cerchiamo di esorcizzarla, pensandoci, quest’ombra inquietante invade la nostra esistenza e la intossica”, risponde Messori, emiliano di Sassuolo (in provincia di Modena), 61 anni, scrittore di una quindicina di libri (l’ultimo: Conversione racconta il ritorno alla fede di Leonardo Mondadori), collaboratore del Corriere della Sera.

Pensa alla sua morte, in particolare, o anche alla morte dei suoi cari?

“Pensare alla morte per me vuol dire innanzitutto avere il senso della precarietà, della relatività del tutto, dello scorrere del tempo. La morte è una presenza indispensabile. Ma, come per tutti i credenti che non hanno perso la prospettiva cristiana, quale significato avrebbe la fede se non mi assicurasse che la vita terrena non è altro che una preparazione alla Vita: quella che c’è dopo la morte? Una delle ragioni della crisi del Cristianesimo è determinata dal fatto che anche molti credenti hanno rimosso la consapevolezza che ciò che conta è la Vita, alla quale si accede soltanto attraverso la morte”.

Che è comunque un dramma. “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”, grida Gesù, disperato, sulla croce, in quanto, essendo uomo, vuole vivere.

“La morte è l’atto più individuale e solitario che esista. Pascal ripete nei suoi Pensieri: “Ciascuno morirà solo”. Sono naturalmente inquieto di fronte alla prospettiva della morte dei miei cari, ma anche cosciente che ciascuno deve rispondere per sé. E quindi ciò a cui penso, in particolare, è la mia morte”.

Quali sentimenti accompagnano i suoi pensieri: abbandono (fiducioso), angoscia, apprensione, disagio, rifiuto, rassegnazione, sgomento, stupore, terrore?

“Come conferma Gesù nel Getzemani, la sera del giovedì: la morte è un’angoscia. Diceva Carl Gustav Jung, lo psicanalista, che chi non senta il dramma della morte va sdraiato sul lettino e curato. L’angoscia è la normalità. Ma, nella prospettiva di fede, si mescola alla speranza. Da un lato vorrei anch’io che la mia morte fosse la più lontana possibile. Dall’altro la fede mi assicura che il passaggio è duro, tuttavia oltre il passaggio c’è un’infinità di gioia, di luce, di piacere. Per cui devo dire che il credente guarda alla morte con un misto di angoscia e di speranza, di rifiuto e di attesa”.

Angoscia e rifiuto, nonostante il sostegno della fede. Perché?

“Per un motivo molto semplice. Io non temo la morte: io temo il giudizio. So che nell’aldilà mi aspetta un giudice. Attenzione: il credente sa che il giudizio di Cristo sarà un misto di giustizia e di misericordia. Se Gesù, come giudice, fosse soltanto giusto credo che non si salverebbe nessuno. Conto naturalmente nella misericordia”.

Ma ne ignora le dimensioni. Quanta ne sarà concessa?

“Eh, appunto. Non si conosce com’è fatto il cocktail. Io so, lo dice il Vangelo, che dovrò rendere conto di ogni mio atto. Allora: c’è, innanzitutto, l’angoscia di affrontare un mondo ignoto. La fede assicura che c’è; non sappiamo com’è: abbiamo soltanto alcune coordinate. Poi, più che l’atto del morire, temo ciò che viene dopo: il giudizio. Da qui anche l’ansietà”.

Oltre la fede nel Vangelo, dove nutre la fiducia  che la fine dell’uomo non sarà assoluta: dopo ci sarà qualcosa che durerà?

“Prima ancora che la fede cristiana, me lo assicura la Storia. L’archeologia è in gran parte uno studio delle tombe. Possiamo risalire fino ai tempi più oscuri della preistoria e sempre troveremo segni di speranza in una vita eterna: non sappiamo quale, comunque tutte le tombe in tutte le civiltà hanno sempre manifestato la loro fede in un aldilà. Soltanto a partire dal Settecento europeo appare qualcuno che, contraddicendo ciò in cui le culture hanno creduto fin’allora, dice: “Non c’è nulla”, “Finiremo nel buio eterno”, “Non esiste un aldilà”. E’ una posizione estremamente recente e ancora oggi minoritaria. C’è un istinto, in tutte le culture, sin dai tempi più remoti, che ha sempre portato a seppellire i propri morti con dei segni che la vita non finiva, ma cominciava”.

Conquistare questa speranza è stato faticoso? Ha avuto crisi di rigetto?

“Faticoso assolutamente no, perché non volevo diventare cristiano. Sono stato costretto. Vengo da un’esperienza fortemente laica, anticlericale, razionalista. Quando sono stato sospinto nella dimensione cristiana, che non conoscevo, e non cercavo, ho recalcitrato. Ho constatato come la fede sia un dono di Dio. Non c’è stata nessuna fatica da parte mia. Crisi di rigetto? Non ho mai dubitato che questo assurdo che è la vita può trovare una spiegazione soltanto nell’esistenza di un aldilà. Anche perché la condizione umana è disperante: quando è il momento per cominciare davvero a vivere, eh, beh, bisogna pensare a fare le valigie e andarsene. La fede a me serve per dare un significato a questo assurdo”.

Come può essere credibile chi predica la libertà in un’altra vita se, dopo il sacrificio di Cristo, e la reincarnazione, gli uomini continuano a essere oppressi, in questa, da egoismi, ingiustzie, sopraffazioni, umiliazioni, violenze?

“Proprio perché qui, nella Storia, non hanno diritto di cittadinanza alla giustizia, alla libertà vera, alla pace, c’è bisogno di un’altra Vita dove questi squilibri siano sanati. Ho sempre pensato che il Vangelo non sia affatto una manuale ideologico per organizzare il mondo migliore, per renderlo perfetto. Tutte le volte che si è cercato di creare il Paradiso in terra si sono creati degli inferni terribili. Pensi alla fine di tutte le ideologie. Il marxismo, a cui guardo con rispetto, era un’utopia che voleva creare in terra il luogo della giustizia e della pace. E la speranza si è rovesciata nel suo esatto contrario: nell’Inferno. Il Vangelo non è un messaggio di organizzazione politico-sociale, ma di speranza per l’aldilà. Non trovo alcuna contraddizione. Al limite: se fosse possibile creare il Paradiso in terra, non avremmo bisogno del Paradiso nell’aldilà”.

E’ possibile pensare un aldilà dove l’uomo sarà liberato, se non abbiamo raggiunto la certezza razionale dell’esistenza di Dio?

“Io so che buona parte di coloro che dicono di non essere credenti, poi non chiedono i funerali laici: chiedono i funerali religiosi. Credo che in ciascuno agisca questa consapevolezza, che ci viene dal nostro Dna umano: non tutto finisce qui, al di là delle porte bronzee della morte non c’è il buio. Questa coscienza esige, anche se non lo si vuole ammettere, di credere in una esistenza che vada al di là dell’umano. Senza Dio non è possibile pensare un aldilà”.

Ma quale aldilà? Come lo immagina?

“Il modo migliore, parlo in una prospettiva cristiana, per immaginare Paradiso, Purgatorio, Inferno, è di non volerlo descrivere. La Divina Commedia è poesia sublime, ma non ha nulla a che fare con la misteriosa realtà dell’aldilà (Dante stesso ne era consapevole). La prospettiva di fede ci assicura che esiste, ma siamo invitati a non pretendere di precisarlo. Il dogma cattolico si limita ad affermare che ci sono  un premio per i buoni, una punizione per i cattivi, uno stato intermedio dove ci si purifica in attesa di accedere a quello che tradizionalmente viene chiamato il Paradiso. Non aggiunge altro. Non ci descrive come sono le cose. Ignoriamo se ci sarà il fuoco, se ci saranno i diavoletti con le corna, il forcone e così via. Io cerco di credere nell’aldilà, non di immaginarlo: perché so che qualunque immaginazione umana verrà sconfitta dalla realtà”.

Qual è l’insegnamento della morte?

 

“Essenziale. Imparare a vivere. Soltanto se recuperiamo la consapevolezza, come dicevo, della precarietà, della relatività di tutto, dello scorrere del tempo, siamo in grado di dare un significato alla vita. In Scommessa sulla morte lo dico chiaro: i necrofili sono gli altri, quelli che non ci vogliono pensare. Io mi sono confrontato con la morte proprio perché amo la vita e vorrei che continuasse in eterno”. 

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Questa è la vita!

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Questa è la vita!

 

… e poi  ti capita di trovarti alla sbarra, al limite delle forze e ti accorgi di non essere nulla e che la vita non ha senso se non è inquadrata in un grande disegno in cui qualcun altro tira le fila…

Oggi, nonostante il tanto pane condiviso, mi ritrovo a pezzi…. ed il ritorno dalla terra del sole, mi ha lasciato un’eredità precaria difficilmente curabile…. QUESTA E’ LA VITA!!!!

“Ogni giorno ha il suo affanno” è stato detto, ma quando tu le hai provate tutte cercando di superare il tuo vuoto egoismo, quando hai dato tutto te stesso per superare limiti e apparenti dissensi e ti accorgi che con chi era simile a te, con le persone che avevano condiviso le tue gioie e i tuoi dolori, con coloro che credevi amici non c’è più dialogo, manca la condivisione e addirittura arrivi alle mortificazioni e al biasimo sul tuo operato, allora vale la pena di prendere in mano il Vangelo e provare ad approfondire temi conosciuti da sempre e che Gesù maestro ci ha indicato come lettura del nostro percorso. Vediamo come:

Un modesto fratello, incontrato sulle pagine di FB, presenta in questo modo la “Buona novella” della domenica e così la commenta:

 ‘Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua ..’ (Mc 6,4) La ragione è profonda…mente ‘politica’, con buona pace di coloro che intendono il Vangelo solo come una esortazione moralistica, privata, rituale. Infatti il profeta è sempre un disturbatore della vita ordinaria, quotidiana, dell’omologazione consolidata, e soprattutto della pigrizia del non-vedere, del non-sentire, del ‘si è sempre fatto così’ o del ‘bisogna fare così’. Il profeta apre al futuro, rompe l’oggi e lo riempie di domani, suscita speranze soffiate dal vento e dà luce ai cuori che attendono primavere impazienti. Il profeta chiede che si continui a domandare, a interrogarsi sul giorno e sulla notte, sul senso del tempo, della storia e della vita, portando nel suo cuore innamorato le paure e le attese della città su cui veglia, come ‘una sentinella del mattino’ che scruta i segni della nuova aurora senza cedere al sonno della ragione. Il profeta abita lo spazio ai margini della città dove la visuale è più sgombra e dove ‘le diversità si toccano e imparano a conoscersi’ .. E sa vivere e poi morire, nel disonore, ma soprattutto sa guarire gli occhi che non vedono e le ferite che sanguinano, e dare luce alle buie fessure di solitudine, facendo danzare la vita con passi sognati e ribelli, come crepe di luce di una nuova architettura del mondo ..  (fra Benito)

Dal mio quotidiano divenire

 

Gli scorsi anni, di questi tempi andavo e venivo dalla mia casa di residenza, sotto un sole rovente che rasentava i 40° in autostrada, al ritorno dal mare dove lasciavo i nipotini che accudivo, richiamata dalle condizioni fisiche di mio marito, convinta più che mai della mia condizione che doveva essere, com’é stata al suo fianco fino all’ultimo respiro. Quando si sono condivisi cinquant’anni di vita familiare, tutto diviene ovvio e non pesa la fatica, ma ha tanto sopravvento il dolore. Giungevo alla soglia di Casa Madre Teresa dove il mio Caro alloggiava  da un triennio, e tutto dovevo aspettarmi quale   immagine ormai evidente di una condizione al limite. Ora Mentore ha raggiunto Andrea e mi sovviene il ricordo di lui, ridotto ad uno scheletro che con quegli occhi, i suoi occhi …manifestavano una forza, un’energia, una determinazione non comune. Gli bastava vedermi arrivare stanca, spettinata, sconvolta per farsi capire e comunicarmi che mi aspettava, che voleva guardarmi e leggere nel mio volto non il suo, ma il “mio” sentire. Era lui, in quei brevi movimenti appena accennati che tendeva la mano a me e sembrava dirmi: “Io non ti lascio sola, ci sarò sempre, sarò con te anche quando tutti ti verranno a mancare!” Per dire questo non servivano tante parole… c’era, c’è e ci sarà nella vita e oltre. Questa è la vita… e questa è la vera espressione dell’amore! Ora mi ritrovo sola, ancora più stanca e a volte disarmata a fronte degli impegni sempre assillanti… ma lui c’è sempre… e c’é Andrea, felice di essere…finalmente… con il suo Papà!!!

 

Ora, nel ritorno alla mia abitazione penso a questo ed agli eventi di questi giorni e, nella mia solitudine, rifletto sulle parole di Fra Benito: “ Guarda, sono arrivata a questa età credendo di avere raggiunto un equilibrio e manifesto tanta fragilità! Ancora continuo a non capire e mi scontro con i mulini a vento della mia faticosa quotidianità!”

 

Vediamo un particolare: da tempo scrivo su FB, nelle varie bacheche di persone amiche i miei messaggi di conforto, di condivisione, di speranza… Passo a volo d’uccello, cercando fare sentire che condivido, che mi piace quando altri postano qualcosa di interessante ma alle volte tutto questo non basta. Mi sono imbattuta in una storia di violenza su un bambino e ho perso il controllo. La mia attività di psicologa che ho svolto e continuo a svolgere anche ora, mi porta a sentire come “nervo scoperto” qualunque intervento fatto da persone non qualificate… ed ecco che si rompe un’amicizia, perché non bastano le mie scuse successive, ma, come dice Fra Benito,  “nemo profeta in patria sua”… Fossi stata una persona non preparata mi si  poteva leggere come “caduta di stile” ma fatto da me è sembrato inqualificabile!

 

Ritorno sulle parole del nostro fratello che commenta:

… il profeta è sempre un disturbatore della vita ordinaria, quotidiana, dell’omologazione consolidata, e soprattutto della pigrizia del non-vedere, del non-sentire, del ‘si è sempre fatto così’ o del ‘bisogna fare così’

E penso ad un altro passaggio di questi giorni in cui individuo in una tragedia familiare una possibile causa di conflitto e lo dichiaro. Assumere posizione infrange le “regole” e mi mette fuori campo. Non avrei dovuto parlare, informare, prendere parte… a nulla vale richiamare lo sforzo, la fatica impiegata, la buona fede, i risultati ottenuti… Non c’è margine per la verità. Meglio occultare!

Potrei andare oltre e guardare con attenzione il pieghevole di invito al Convegno del Movimento della Speranza di settembre. Per non far torto a nessuno ho equiparato i partecipanti: la nota psicologa, come il cattedratico, il teologo con il laico medium spiritualista… ma c’è stato chi si è sentito non sufficientemente valorizzato.

 

Tre storie, tre episodi della mia quotidianità in cui una persona provata, attempata, animata da generosità, professionale … non riesce a raggiungere l’animo delle persone e a condividere con loro il pane quotidiano… Le mie parole esposte più volte in questo sito non hanno valore, sono canne al vento. Noi siamo nessuno… c’é chi al di là di noi, tira le fila…

 

Ma fra Benito continua:  Il profeta chiede che si continui a domandare, a interrogarsi sul giorno e sulla notte, sul senso del tempo, della storia e della vita, portando nel suo cuore innamorato le paure e le attese della città su cui veglia, come ‘una sentinella del mattino’ che scruta i segni della nuova aurora senza cedere al sonno della ragione.

E tutto questo mi conforta, perché c’è Mentore che mi richiama e vuol dirmi: “ Ti capisco, vedo la tua amarezza, ma non mollare! Sii te stessa e vai avanti per la tua strada… anche quando ti sentirai sola, affaticata e stanca ci sarà chi ti porgerà una brocca d’acqua al termine del tuo cammino e ne trarrai tanto conforto più di mille parole scritte su fogli sparsi al vento…”

Sì il profeta, ogni profeta, ciascuno di noi: …   sa vivere e poi morire, nel disonore, ma soprattutto sa guarire gli occhi che non vedono e le ferite che sanguinano, e dare luce alle buie fessure di solitudine, facendo danzare la vita con passi sognanti e ribelli, come crepe di luce di una nuova architettura del mondo ..

Grazie Fra Benito!

 

 

 

Edda CattaniQuesta è la vita!
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Giugno: devozione al S.Cuore

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Il sacro Cuore di Gesù

Una delle devozioni più diffuse tra il popolo cristiano è la devozione al sacro Cuore di Gesù. Non si tratta tuttavia di una devozione fra tante, perché è stata rivestita dalla Chiesa di una dignità tutta particolare e si situa al centro della rivelazione cristiana.

Le dodici promesse

1. Darò loro (alle persone devote del mio Cuore) tutte le grazie necessarie al loro stato.
2. Metterò la pace nelle loro famiglie.
3. Le consolerò in tutte le loro afflizioni.
4. Sarò il loro rifugio in vita e soprattutto nella loro morte.
5. Benedirò le loro imprese.
6. I peccatori troveranno misericordia.
7. I tiepidi diventeranno ferventi.
8. I ferventi saliranno presto a grande perfezione.
9. Benedirò il luogo dove l’immagine del mio Cuore sarà esposta e onorata. 10. Darò loro le grazie di toccare i cuori più duri.
11. Le persone che propagano questa devozione avranno il loro nome scritto nel mio Cuore e non sarà mai cancellato.
12. Io prometto nell’eccesso grande di misericordia del mio Cuore che il suo amore onnipotente accorderà a tutti coloro che si comunicheranno il primo venerdì del mese, per nove mesi consecutivi, la grazia della penitenza finale e non morranno in mia disgrazia né senza ricevere i sacramenti e il mio Cuore sarà per essi un asilo sicuro negli ultimi momenti.

 

Il documento guida in materia è certamente l’enciclica di Pio XII, Haurietis aquas (Attingerete alle acque) del 15 maggio 1956, testo che andrebbe letto e meditato per intero. Questa devozione – contenuta in germe nella Sacra Scrittura, approfondita dai santi Padri, dai Dottori della Chiesa e dai grandi mistici medioevali – ha avuto un particolare incremento e la sua configurazione odierna in seguito alle apparizioni di Gesù Cristo a santa Margherita Maria Alacoque, nel monastero di Paray-le-Monial, a partire dal 27 dicembre 1673.
Da allora, superate numerose difficoltà teologiche e liturgiche, si è diffusa rapidamente fra tutte le categorie del popolo cristiano, mentre la Chiesa la ha elevata alla dignità liturgica di «solennità». In effetti essa rappresenta il centro della spiritualità cristiana e la chiave di comprensione insieme più semplice e più profonda di tutta quanta la storia della salvezza.
Non è un caso che le apparizioni a santa Margherita Maria si situino nel momento cruciale di affermazione del mondo moderno e che il simbolo del sacro Cuore sia apparso sempre come il più caratteristico in tutti i movimenti di resistenza alle correnti anticristiane della modernità.
Pio XII sottolinea che – nonostante l’importanza di Paray-le-Monial per il suo sviluppo – l’origine della devozione è nella Scrittura. E’ lo stesso Gesù che per primo presenta il suo Cuore come fonte di ristoro e di pace: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (Mt 11,28-30).
In san Giovanni si legge come venne trafitto il Cuore di Cristo, l’uscita da esso del sangue e dell’acqua e il particolarissimo significato simbolico che il quarto evangelista attribuisce al fatto (Gv 19,33-37). Anche nell’Apocalisse Gesù è presentato come un Agnello «ucciso», cioè «trafitto» (cfr. Apoc 5,6; 1,7).
Detto questo le apparizioni a santa Margherita Maria conservano un’importanza eccezionale. Si dovrebbe anzi dire che nella storia della Chiesa nessun’altra comunicazione divina – al di fuori della Bibbia – ha ricevuto tante approvazioni e incoraggiamenti dal magistero della Chiesa come le rivelazioni del Cuore di Cristo a Paray-le-Monial.
In esse sono particolarmente famose «le dodici promesse». Come nella Bibbia, Dio lega il suo intervento a delle «promesse». Se l’Alleanza in Gesù Cristo si è fatta definitiva, essa è tuttavia ancora aperta nella storia, perché continuamente offerta alla libertà dell’uomo, finché dura il tempo in cui si può meritare. Al «vero devoto» del sacro Cuore, cioè a chi è ben convinto di essere, con i propri peccati, colui che ha «trafitto» il Cuore di Gesù e, consapevole del suo amore immenso, vive la propria vita nella prospettiva della riparazione, queste promesse sono di nuovo offerte. E «Dio è fedele» (1 Cor 10,13). Eccole, secondo la prima antica lettura:

 

Ricevo dalla Cara Amica Daniela (v. link) questi bellissimi pdf:

DEVOZIONE AL SACRO CAPO DI GESU’

il sacro cuore

Edda CattaniGiugno: devozione al S.Cuore
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La Sagrada Familia

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La Sagrada Familia

Non dobbiamo mai dimenticare che la sinergia – grazia di Dio e collaborazione degli uomini – è il segreto della vita di una comunità cristiana come leggiamo alla fine del Vangelo di Marco: “Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano” (Me 16,20).

 

Chi non ha sentito parlare della chiesa della Sagrada Familia di Barcellona e del suo progettista – Gaudi – che vi lavorò dal 1883 al 1926, anno della sua morte?

Secondo il progetto che aveva in mente doveva essere grandiosa: mai visto niente di simile in terra spagnola. La Sagrada Familia doveva essere qualcosa che non aveva confronti, una chiesa grande, aperta a rutti. Gaudi era un grande credente la cui fede sfociava in contemplazione della bellezza di Dio.

Egli diceva: “Nei templi greci e nel loro recinto sacro potevano entrare solo i sacerdoti. Nei templi di Roma aveva accesso solo l’augure. La chiesa cristiana invece deve essere grande perché è aperta a tutti, accoglie e raccoglie l’assemblea dei figli di Dio”.

Quando morì, investito da un tram, nel 1926, aveva costruito appena la facciata della natività: una delle tre facciate.

E soltanto 4 torri-guglie delle 18 che aveva ideate.

La Sagrada Familia poteva rimanere un’opera incompiuta come è accaduto a molte altre imponenti costruzioni, pensiamo alla basilica di Santa Giustina in Padova. Invece è andata diversamente: la vera opera di Gaudi è nata proprio in quel momento in cui lui è scomparso.

Dopo di lui la grande sfida si metteva in marcia: costruire non la cattedrale, ma il popolo che vuole la cattedrale come progetto di Dio.

Infatti i lavori non si bloccarono anzi proseguirono in un lungo passa-bandiera di architetti, capomastri, capocantieri, tagliatori di pietre, ceramisti, giù giù fino ai semplici muratori e a questo si aggiungevano le elemosine di tutti i giorni, in un lungo elenco fatto di monetine, peseta, donazioni,… Venivano da Barcellona a vedere la cattedrale, poi da tutta la Spagna, poi da tutto il mondo. Anche oggi tutti i turisti che arrivano a Barcellona non rinunciano a vederla: ha due milioni di visitatori l’anno.

La sua forza e la sua bellezza sono costituite dal suo essere in perenne costruzione, dal suo non fermarsi: non importa quando sarà compiuta.

È la chiesa del dono, esempio massimo di quanto possa la volontà degli uomini quando si uniscono, partecipano e si donano in totale apertura al disegno di amore di Dio.

 

 

E a tal proposito queste sono le parole di Papa Francesco:

“Paolo non dice agli ateniesi: ‘Questa è la enciclopedia della verità. Studiate questo e avrete la verità, la verità!’. No! La verità non entra in un’enciclopedia. La verità è un incontro (…) Io ricordo quando ero bambino e si sentiva nelle famiglie cattoliche, nella mia: ‘No, a casa loro non possiamo andare, perché non sono sposati per la Chiesa, eh!’. Era come una esclusione. No, non potevi andare! O perché sono socialisti o atei, non possiamo andare. Adesso – grazie a Dio – no, non si dice quello, no? Non si dice! C’era come una difesa della fede, ma con i muri: il Signore ha fatto dei ponti .. I cristiani che hanno paura di fare ponti e preferiscono costruire muri sono cristiani non sicuri della propria fede, non sicuri di Gesù Cristo”.

 

(papa Francesco, omelia messa mattutina a Santa Marta )

 

Edda CattaniLa Sagrada Familia
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Natale pagano?

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Natale: fr. Semeraro (monaco benedettino), oggi c’è “un’atmosfera parallela”

 

M.Michela Nicolais

natale

Da una parte, i cristiani come “piccolo resto”. Dall’altra, un Natale “ri-paganizzato”. Fratel MichaelDavide Semeraro, monaco benedettino, ci spiega perché la festa cristiana per eccellenza può essere l’occasione per valorizzare “un’atmosfera parallela”. Con rispetto, e senza pregiudizi.

Il Natale rimane una festa cristiana, ma solo per “un piccolo resto”. Per chi non condivide la nostra fede, si è “ri-paganizzato”. Parola di fratel MichaelDavide Semeraro, monaco benedettino, che esorta ad andare oltre le polemiche che ogni anno risorgono valorizzando questa “atmosfera parallela”, in cui credenti e non credenti possono convivere tramite il rispetto. Anche quando non è reciproco. Il segreto? Imparare la differenza tra un Natale “ostentato” e un Natale “invitato”.

Michael Davide Semeraro

Se pensiamo al Natale di quando eravamo bambini, tutti noi ci ricordiamo la particolare atmosfera che ci circondava. Secondo lei si respira ancora, quell’aria di Natale, o se ne è perso il sapore?
L’atmosfera del Natale è cresciuta con noi e si è trasformata con le persone e con la storia. Sicuramente il Natale è cambiato, sono cambiati i luoghi e le abitudini con cui la gente vive le feste. Il Natale, allora come oggi, è anche una festa legata alla famiglia, all’intimità dei luoghi. Attualmente, è cambiato per l’aspetto commerciale e soprattutto perché

il Natale ha recuperato la sua origine pagana.

Noi non conosciamo il giorno in cui il Signore è nato, e abbiamo scelto la data del “sol invictus”, quando le giornate con il solstizio d’inverno ricominciano a crescere. Si trattava, dunque, di una festa nata per salutare l’accrescere della luce che poi i cristiani hanno trasformato nel Natale di Gesù. Oggi questo meccanismo si è invertito:

il Natale rimane una festa cristiana, ma soprattutto da quelli che non frequentano i nostri circuiti viene ripreso, rilanciato, anzi ancora più amplificato l’aspetto pagano.

Un fenomeno, questo, che però non va visto in senso negativo: gli umani hanno bisogno di riti, e anche la nostra civiltà secolarizzata e desacralizzata in realtà si “ri-sacralizza”, anche se a livello commerciale e mediatico.

Vuole dire che ci sono due modi di vivere il Natale?
Direi che siamo in presenza di un’atmosfera parallela: da una parte ci sono coloro che celebrano il mistero dell’incarnazione e i riti liturgici, dall’altra c’è una “ri-paganizzazione” della festa del solstizio d’inverno, come nell’antichità. Un fenomeno, questo, che va registrato con semplicità, senza pregiudizio o spavento. La nostra non è più, ormai da diversi decenni, una civiltà cristiana: è un dato di fatto che bisogna saper registrare e accogliere, comprendendo che il Natale è ridiventato pagano per molti, che lo vivono come una pausa durante l’inverno per ritrovarsi in famiglia o andare a sciare. I cristiani, come nei primi secoli, sono oggi un piccolo resto, che in questo contesto di ripaganizzazione della società continuano a celebrare la festa dell’incarnazione del Signore.

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Mentre prima il senso del Natale cristiano era diffuso, ora respiriamo un’atmosfera parallela

che chiama alla coesistenza, alla capacità d’integrarsi con grande semplicità e senza alcun giudizio negativo. Del resto, chi non condivide la nostra fede non può condividere il Natale cristiano. Anche i nostri padri celebravano la festa del “sol invictus”: noi, a nostra volta, possiamo partecipare o invitare alla festa del Natale, sapendo che l’elemento liturgico rituale continua ad appartenere a un piccolo resto.

È recente la provocazione del filosofo Massimo Cacciari per cui “sono i cristiani i primi ad aver abolito il Natale”. Si è smarrito il senso della “differenza” cristiana?
Ogni anno sorge una polemica sul Natale. Dobbiamo saper gestire sapientemente la possibilità di manifestare i segni della nostra fede, da una parte, ma anche la libertà di sapercene privare, quando viene fuori l’esigenza del rispetto della libertà altrui. Per noi cristiani il rispetto è sempre unilaterale, non ci aspettiamo niente in cambio. Se c’è una cosa che Gesù ci ha regalato, è la libertà davanti ai nostri usi religiosi: questa è la “differenza” evangelica, in confronto alle altre religioni.

Bisogna, di anno in anno, reimparare a riappropriarsi della differenza tra un Natale “ostentato” e un Natale “invitato”.

Eravamo abituati, nella nostra civiltà cristiana, a ostentare i nostri simboli cristiani: oggi la comunità cristiana dovrebbe invitare nella propria intimità gli amici, sapendo che nei luoghi pubblici sarà sempre più impossibile farlo. Ciò produrrà senza dubbio un guadagno, in termini di convinzione, perché ci aiuterà ad essere il soggetto delle nostre feste liturgiche: prima ci pensava la cultura e la società, oggi bisogna impegnarsi in prima persona con la nostra testimonianza. È una bella sfida.

Papa Francesco parla spesso del Natale associandolo alla speranza cristiana. È l’incarnazione di Gesù che, ancora oggi, dà senso alla storia, nonostante lo scenario plumbeo che incombe su di noi?
Il fatto che Dio si è incarnato, si è fatto uno di noi assumendo le nostre fragilità, dovrebbe darci la speranza che possiamo diventare un po’ più umani, se vogliamo e ce la mettiamo tutta. Se Dio si è incarnato, possiamo pensare a un’umanità sempre più affidabile e portatrice di speranza.

Gesù ci ha insegnato che tutto ciò che è umano non ci è estraneo, per questo i cristiani non rinunciano a essere lievito di umanità in qualunque situazione, anche in quelle più disumane.

È la fiducia che Dio ci ha dato, tramite l’incarnazione di suo figlio, che ci permette di sperare l’impossibile.

 

Edda CattaniNatale pagano?
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Tanta Luce nel presepe!

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Tanta luce anche nel mio presepe!

 

… e con dicembre si ripresentano tutte le ricorrenze … Anch’io e la mia famiglia le viviamo intensamente: ha appena girato l’angolo S.Andrea … eppure sembra ieri… poi il 5 dicembre, una data impressa nella mente e nel cuore con l’abbandono all’Immacolata, la Mamma Celeste che accoglie, protegge, impegna tutti i nostri Figli di Luce e il Convegno di Padova.

Fuori le Luminarie. Abano è un tripudio di colori, di profumi, di armonia… E’ ancora un piccolo centro questo, una cittadina a misura d’uomo; i bambini possono passeggiare tranquillamente, i vecchi guardano con occhi incantati, la gente cammina, non corre e ammira …  L’Ente Parco dei Colli Euganei ha posteggiato le sue casette di legno e troviamo prodotti naturali, commestibili, oggetti fatti a mano. Il “tutto a un euro” è ormai una prassi… c’è tanta crisi e non si può spendere, solo un simbolo per sentire l’armonia, la dolce delicatezza del Natale.

Ripropongo aggiornandolo il Natale “povero” che non possiamo fare mancare ai nostri Cari che ci guardano intorno a Gesù che nasce anche quest’anno per rinnovare i nostri cuori e donarci la sua innocenza, quella propria dei bimbi.

 

Ecco la Madonnina che ho messo sull’altarino con la natività nella cappellina del mio tenente “per sempre” che mi regala ancora boccioli di rosa in questi giorni freddi dell’inverno. Ho fatto anche l’alberello con la renna come lo scorso anno e uno ne ho posto nel portico della mia casa. Andrea è abbracciato al suo Papà quest’anno e tutti insieme aspetteremo la nascita del bambinello. Questo, Figlio mio, è il Natale del cuore e penso, che tante persone senza lavoro, senza salute, senza pane di cui vivere, la pensino come me. Proteggeteci Angeli tutti!

Anche Andrea ha il suo Natale!  

                                      

       Ora c’è anche lui, il suo Papà!

 

 

Andrea ha la foto sopra un altarino nella piccola cappella dove abbiamo riposto le sue bellissime membra. Dietro lui c’è un mosaico che è simile al simbolo del gagliardetto del suo Corpo nell’esercito: AQUILE.  La straordinarietà è nel fatto che  mostra un’aquila che infrange una stella… una sorta di premonizione!  Come dicevo, a destra della foto ho messo la Natività e in terra l’albero con la renna di Babbo Natale e un angioletto. Anche per Andrea… Natale è “presepe”!  Oggi c’è Papà… San Giuseppe “!

    Luci nel Presepe

 

 

Questo presepe porta la data del Natale 1995. Lo fece Mentore la sera della vigilia com’era nostra consuetudine e lo fografò. Guardate quante Luci! Quanti angioletti vennero a confortarci!

Fin da piccolo Andrea aveva molto amato l’arrivo del Natale anche per la costruzione del “suo” presepe. Papà gli aveva comperato le statuine essenziali e lui, con spirito artistico aveva ricavato e dipinto da sé, casette, torri, il castello di Erode, ricavandoli da materiale povero, quali rotoli di carta, sughero, compensato ritagliato al traforo… La notte di Natale ci si metteva d’impegno e voleva terminarlo prima che fosse mezzanotte. Mentore aveva continuato a ripetergli ogni anno: “Andrea, ormai sei grande… basta l’albero senza che non causi tutto questo ingombro!” Ma lui, testardamente ripeteva che senza il presepe non avrebbe sentito il Natale. Ecco allora che, anche dopo la sua dipartita, (era il 5 dicembre, con un Natale alle porte) Mentore continuò a costruire l’alberello sul terrazzino della mansarda “…vicino al cielo, così Andrea lo vedrà brillare…” e il “presepe di Andrea” con le sue casette sempre più fragili e le statuette di gesso. Un presepe in un “Natale da poveri” ci disse Andrea nel suo primo messaggio. Poi, qualche anno dopo, fotografando il presepe vennero fuori tutte queste lucine, di tanti colori, quasi una festa per tutti gli Angeli di Luce che avranno voluto manifestare la loro presenza con una testimonianza di conforto ai loro genitori.

Non dimentichiamo, anche in questo S.Natale, i nostri Cari ci vedono e gradiscono queste piccole cose e canteranno con tutti noi: “Hosanna, nell’alto dei Cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà!”

                    

Natale ricordi del 2010

Quest’anno il mio Natale è molto diverso; vivo la solitudine nella casa ormai vuota, perchè Mentore non mi è più vicino e le sue condizioni sono di tale gravità che prego solo perchè possa raggiungere Andrea, al più presto, come del resto egli desidera ardentemente. Non vengo meno però alle abitudini consolidate in oltre 40 anni di convivenza ed allora, ieri sera, come ogni notte di Natale, ho ricostruito il “nostro presepe”. E’ lo stesso, con le vecchie statuine e le casette fatte da Andrea. L’ho fotografato. Guardate un po’:

     

E’ un piccolo presepe con le lucette minuscole, gli angioletti nel cielo di carta bianca e le casette fatte da Andrea… “un presepe da poveri” ma che contiene una storia… la storia della nostra vita.  Poi guardate la seconda foto: 

è un  primo piano della capannuccia con le stesse lucette piccolissime che non dovrebbero illuminare nulla, eppure…

 

  

QUANTA LUCE E QUANTI VOLTI NEL MIO PRESEPE!

       

   

Anche la mia cara amica EDY ha fatto il presepe:

ogni sasso ha il nome di un Angelo!

 6 Gennaio 2010: Epifania del Signore

Anche nel mio presepe sono arrivati i Re Magi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Edda CattaniTanta Luce nel presepe!
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Non si spenga mai la speranza

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 Non si spenga mai la speranza nei nostri cuori

 









Come potremo riaccendere le altre candele se non crediamo nell’amore di Dio?

 

La speranza

Qual è la sorgente della speranza cristiana?

In un tempo in cui spesso si fatica a trovare delle ragioni per sperare, coloro che mettono la propria fiducia nel Dio della Bibbia hanno più che mai il dovere di «rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in loro» (1 Pietro 3,15). Spetta a loro cogliere ciò che la speranza della fede contiene di specifico, per poter viverlo.

Ora, anche se per definizione la speranza guarda al futuro, per la Bibbia essa si radica nell’oggi di Dio. Nella Lettera 2003, frère Roger lo ricorda: «[La sorgente della speranza] è in Dio, che non può che amare e che instancabilmente ci cerca».

Nelle Scritture ebraiche, questa Sorgente misteriosa della vita che noi chiamiamo Dio si fa conoscere perché chiama gli esseri umani a entrare in una relazione con lui: stabilisce un’alleanza con loro. La Bibbia definisce le caratteristiche del Dio dell’alleanza con due parole ebraiche: hesed e emet (per es. Esodo 34,6; Salmi 25,10; 40,11-12; 85,11). Generalmente, si traducono con «amore» e «fedeltà». Dapprima ci dicono che Dio è bontà e benevolenza senza limiti e si prende cura dei suoi, e in secondo luogo, che Dio non abbandonerà mai quelli che ha chiamati ad entrare nella sua comunione.

Ecco la sorgente della speranza biblica. Se Dio è buono e non cambia mai il suo atteggiamento né ci abbandona mai, allora, qualunque siano le difficoltà – se il mondo così come lo vediamo è talmente lontano dalla giustizia, dalla pace, dalla solidarietà e dalla compassione – per i credenti non è una situazione definitiva. Nella loro fede in Dio, i credenti attingono l’attesa di un mondo secondo la volontà di Dio o, in altre parole, secondo il suo amore.

Nella Bibbia, questa speranza è spesso espressa con la nozione di promessa. Quando Dio entra in relazione con gli esseri umani, in generale questo va di pari passo con la promessa di una vita più grande. Ciò inizia già con la storia di Abramo: «Ti benedirò, disse Dio ad Abramo. E in te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Genesi 12,2-3).

Una promessa è una realtà dinamica che opera delle possibilità nuove nella vita umana. Questa promessa guarda verso l’avvenire, ma si radica in una relazione con Dio che mi parla qui e ora, che mi chiama a fare delle scelte concrete nella mia vita. I semi del futuro si trovano in una relazione presente con Dio.

Questo radicamento nel presente diventa ancora più forte con la venuta di Gesù Cristo. In lui, dice san Paolo, tutte le promesse di Dio sono già una realtà (2 Corinzi 1,20). Certo, ciò non si riferisce unicamente a un uomo che è vissuto in Palestina 2000 anni fa. Per i cristiani, Gesù è il Risorto che è con noi nel nostro oggi. «Sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del tempo» (Matteo 28,20).

Un altro testo di san Paolo è ancora più chiaro. «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Romani 5,5). Lungi dall’essere un semplice augurio per l’avvenire senza garanzia di realizzazione, la speranza cristiana è la presenza dell’amore divino in persona, lo Spirito Santo, fiume di vita che ci porta verso il mare di una piena comunione.

Come vivere della speranza cristiana?

 

La speranza biblica e cristiana non significa una vita nelle nuvole, il sogno di un mondo migliore. Non è una semplice proiezione di quello che vorremmo essere o fare. Essa ci porta a vedere i semi di questo mondo nuovo già presente oggi, grazie all’identità del nostro Dio che si manifesta nella vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo. Questa speranza è inoltre una sorgente di forza per vivere in un altro modo, per non seguire i valori di una società fondata sul desiderio di possesso e sulla competizione.

Nella Bibbia, la promessa divina non ci chiede di sederci e attendere passivamente che si realizzi, come per magia. Prima di parlare ad Abramo di una vita in pienezza che gli è offerta, Dio gli disse: «Vattene dal tuo paese e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (Genesi 12,1). Per entrare nella promessa di Dio, Abramo è chiamato a fare della sua vita un pellegrinaggio, a vivere un nuovo inizio.

Così pure, la buona novella della risurrezione non è un modo per distoglierci dai compiti di quaggiù, ma una chiamata a metterci in cammino. «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? … Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura… Voi mi sarete testimoni… fino agli estremi confini della terra» (Atti 1,11; Marco 16,15; Atti 1,8).

Sotto l’impulso dello Spirito del Cristo, i credenti vivono una solidarietà profonda con l’umanità priva dalle sue radici in Dio. Scrivendo ai Romani, san Paolo evoca le sofferenze della creazione in attesa, paragonandole alle doglie del parto. Poi continua: «Anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente» (Romani 8,18-23). La nostra fede non ci fa dei privilegiati fuori dal mondo, noi «gemiamo» con il mondo, condividendo il suo dolore, ma viviamo questa situazione nella speranza, sapendo che, nel Cristo, «le tenebre stanno diradandosi e la vera luce già risplende» (1 Giovanni 2,8).

Sperare, è dunque scoprire dapprima nelle profondità del nostro oggi una Vita che va oltre e che niente può fermare. Ancora, è accogliere questa Vita con un sì di tutto il nostro essere. Gettandoci in questa Vita, siamo portati a porre, qui e ora, in mezzo ai rischi del nostro stare in società, dei segni di un altro avvenire, dei semi di un mondo rinnovato che, al momento opportuno, porteranno il loro frutto.

Per i primi cristiani, il segno più chiaro di questo mondo rinnovato era l’esistenza di comunità composte da persone di provenienze e lingue diverse. A causa di Cristo, quelle piccole comunità sorgevano ovunque nel mondo mediterraneo. Superando divisioni di ogni tipo che li tenevano lontani gli uni dagli altri, quegli uomini e quelle donne vivevano come fratelli e sorelle, come famiglia di Dio, pregando insieme e condividendo i loro beni secondo il bisogno di ciascuno (cfr. Atti 2,42-47). Si sforzavano ad avere «un solo spirito, uno stesso amore, i medesimi sentimenti» (Filippesi 2,2). Così brillavano nel mondo come dei punti di luce (cfr. Filippesi 2,15). Sin dagli inizi, la speranza cristiana ha acceso un fuoco sulla terra.

Lettera da Taizé: 2003/3

 

 

 

 
 
 


 


 

Edda CattaniNon si spenga mai la speranza
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Continuando l’Avvento

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(  Da Crocetta con Alessandro Dehò  )

IV Domenica diAvvento

Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

Nomi

(Luca 1,26-38)

IV Avvento anno B 2020

GABRIELE=forza di Dio “L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea”.

E se avesse bussato? Gabriele dico, l’angelo nel cui nome è raccontata la “forza di Dio”, se avesse camminato fino alla casa di Maria, se avesse sollevato la polvere come fosse polline di primavera, se fosse arrivato col cuore in gola e con la paura di non essere ricevuto? Non sarebbe questa vera potenza divina? Troppo semplice affidarsi a voli, che nel Vangelo non sono descritti, troppo facile entrare leggeri come colombe quando poi il Figlio renderà sacra la mano del pescatore e preghiera il pianto della prostituta.

E se avesse bussato? La mano dell’angelo sospesa a due centimetri dalla tavola levigata da Giuseppe. Se avesse chiesto “permesso?” e accettato un bicchiere d’acqua, se le sue parole avessero detto esattamente le cose riportate dall’Evangelista Luca, ci mancherebbe, una alla volta, ma con un po’ meno di enfasi? Magari senza citazione così smaccata di antichi canti biblici? Un po’ più feriale insomma. Se si fosse seduto, Gabriele, la potenza di Dio, semplicemente ad aspettare. Ad aspettare l’uomo. Ad aspettare i tempi di maturazione della consapevolezza umana, come fanno i padri e le madri, i contadini e gli innamorati.

Io il mio Signore lo immagino così, e me lo vedo, a bussarmi, con gli occhi umidi che cercano calore. E io che non capisco e sto, come sospeso, spesso incapace di vedere. Incapace di riconoscere Gabriele nella fragilità di chi cerca un incontro. Incapace di aprire. Impaurito. E la sua potenza? E’ l’attesa.

Io il mio Signore lo immagino così, mentre verso un bicchiere di vino da offrire all’ospite, mentre taglio una fetta di formaggio, mentre dentro di me mastico la domanda quotidiana sul mio essere al mondo, “che senso ha tutto questo?”, e Gabriele, la potenza di Dio, beve calmo e mi guarda e aspetta. Non temere, dice, senza parole. Non temere, la potenza di Dio è nell’attesa, è in questa sua ubriacante decisione di chiedere permesso all’uomo, permesso di entrare, di fare casa.

E non se ne va, nemmeno quando non lo vedo più, nemmeno dopo i saluti, che la forza è la perseveranza degli amanti. Non se ne va. Nonostante le mie incertezze e il dilatarsi di questa annunciazione che non finisce mai. Non se ne va, c’è, e bussa.

Davide=amato, Giuseppe=Dio aggiunge un uomo della casa di Davide di nome Giuseppe”.

La casa è quella di Davide, che significa “amato” e l’uomo è Giuseppe “Dio aggiunge”. Tutto è scritto nei nomi. Il senso profondo della vita è in questa capacità di abitare una casa e che questa casa sia il più possibile dimora dell’amato. Non tanto di chi ama ma di chi si lascia amare. Cosa chiedere di più alla vita? Come arrivare alla fine dei giorni senza la paura di aver fallito? Forse basta essere più Davide e più Giuseppe, lasciare che Dio aumenti la profondità con il suo amore. Sono contento di abitare in una casa, vera.

Io il mio Signore lo immagino così, un compagno di vita, occhi commossi, mani tenere, il calore di una carezza ogni volta che riesco a elemosinare un po’ d’amore.

Desidero arrivare alla fine e aver imparato a farmi amare. Anzi, di più, voglio imparare a chiederlo l’amore, con tutta l’umiltà e la verità che mi mancano. Chiedere l’amore per diventare sempre più Davide, amato, e sempre più Giuseppe, spazio di una Vita aggiunta alla vita.

MARIA=amarezza (dice qualcuno) e donna del mare (e altre ipotesi) “La vergine si chiamava Maria”

Ci sono nomi che sono anche sapori, che quando li pronunci lasciano sulla lingua un gusto che rimane, come la memoria di un bacio. Maria è dolce, è vero. Ma mi affascina che qualcuno, tra le ipotesi sull’etimologia del nome, le affianchi anche l’amarezza e il gusto salato del mare. Perché così Maria la sento più vicina a me. E non ho più paura di sedermi tra lei e Gabriele, tra la potenza dell’attesa e il coraggio di una vita che comprende tutto, amarezze comprese, che non ha paura di testimoniare che spesso la vita è una traversata di un mare che entra negli occhi e fa lacrimare salato. Io il Signore me lo immagino così, vero, imbarcato con me, legato alla mia storia, incarnato nelle inevitabili amarezze e nelle benedette lacrime di mare. Io lo immagino così, perché poi la storia è sempre buona, ogni cosa lascia dietro di sé rinnovate consapevolezze. Che l’inferno, l’inferno vero, quello che sperimentiamo su questa terra, anche se ci costa ammetterlo, è vivere senza percepire il vento contrario e le burrasche pericolose. Una vita senza dolore, una vita sempre dolce, una vita che non prevede lacrime per me è l’inferno. Nessuna fiamma immagino nel cuore del male, nel cuore della vita senza senso immagino invece nessuna lacrima e nessuno struggimento per amarezza. E un mare così calmo che non ti viene voglia di imbarcarti.

GESU’=Dio salva “…e lo chiamerai Gesù”

Salvami Signore, solo tu puoi,

salvami dai miei deliri di potenza e di onnipotenza,

salvami dalla pretesa e dalla superficialità. Salvami dalla fretta. Aiutami ad aspettarmi.

Salvami Signore dalla frenesia di voler amare,

dai sensi di colpa di non saperlo fare. Salvami dall’orgoglio che non mi permette di chiedere amore.

Salvami Signore, aggiungi tu alla mia vita quello che desideri, aiutami a non confondere la libertà con l’illusione di avere tutto sotto controllo, di essere il capitano unico e definitivo del mistero.

Salvami Signore da me stesso, dalla mia eccessiva tranquillità, dalla paura di solcare i mari dell’incontro, dalla paura di non essere all’altezza del dolore degli altri.

Salvami Signore, salvami da me stesso.

 

Edda CattaniContinuando l’Avvento
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