Edda Cattani

Naufragi e soglie

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Naufragi e soglie

(Luca 7,11-17)
X domenica Tempo Ordinario C

lampadine

Qualcuno dice che Nain significhi “sorriso” ma oggi Nain vorrebbe cambiare nome. Il sorriso è cariato dal padre di tutti i dolori, una donna ha perso tutto, prima il marito e ora l’unico figlio. Un corteo sta spingendo lontano dalla città la madre e il figlio, emorragia dolorosa, due detriti portati alla deriva da una folla che non può far altro che rifiutare ciò che non può comprendere. Una donna non più madre ed un ragazzo non più vivo sono segno di quel naufragio che diventa la vita quando non rispetta i patti più elementari della natura: i padri devono essere seppelliti dai figli, non viceversa.

L’impressione è che quella donna, a Nain, non farà più ritorno. Non ci sarà più “sorriso” per lei, solo la folla refluirà, come onda che ha esaurito lo sfogo del rabbioso dolore, a continuare, in fondo sollevati per non essere stati toccati dalla tragedia, in fondo in muta attesa che qualcosa capiti anche a loro, prima o poi. Così è la vita. Il morto, intanto, è spinto fuori dalla porta, per adesso ci si può illudere di aver rubato qualche passo alla morte.

Un altro naufrago, relitto sospinto da un corteo altrettanto inutile, sta camminando, ma in direzione opposta. Ma non sarà per sempre così. Anche lui sarà spinto fuori da una città fortificata, anche lui lascerà una donna, già senza marito, anche senza figlio. Relitto aggrappato a un pezzo di legno lotterà per mettere in salvo e non per salvarsi. Forse è per questo che Gesù, alla vista del corteo funebre non chiude gli occhi ma: “vede”. Forse perché, guardando, anche, “si vede”. Si vede per quel che sarà, vede quella madre e pensa a Maria, vede quel corteo e pensa alla Via Crucis, vede quel dolore e pensa che lo conoscerà da vicino. Gesù vede e decide di raccogliere la sfida e raccontare a quei tristi cortei il Senso profondo della vita. Quella vita a cui non basta un Nain, un “sorriso”, quella vita che deve fare i conti con la morte, con il dolore, con la sconfitta, con una vita che sembra contraddire se stessa.

Gesù vede. Ed è la prima soglia da oltrepassare. Perché sì, il segreto della vita è quello di oltrepassare soglie, andare oltre, entrare dentro. Gesù non fa parte del corteo superficiale, Gesù vede e, mettendo i suoi occhi a servizio del reale, supera la soglia. Lascia entrare la morte dagli occhi. Se nella vita vuoi solo sorridere gli occhi li chiudi, Gesù no, non gli basta “Nain”, non gli basta sorridere, lui vuole nutrirsi della vita, nutrirsene fino in fondo, scoprirne il senso. E allora lascia entrare tutto ciò che scorre, tutto ciò che respira, tutto ciò che soffre. I discepoli chiuderanno gli occhi sul Calvario, lui no, occhi aperti a forzare la prima reazione, quel riflesso condizionato dalla paura, quegli occhi che vorrebbero chiudersi, quei cortei che vorrebbero sbarazzarsi il più in fretta possibile della morte.

Poi la compassione. Gesù forza la seconda frontiera, oltrepassa il limite ed accetta di entrare nel cuore del dolore. La donna si lascia guardare, la donna lo lascia entrare. Credo si sia accorta, sempre ci si accorge se qualcuno entra fin nelle profondità del dolore. E se non dice nulla, la donna, è solo perché non ci sono parole. Gesù entra, accetta il rischio della “compassione” della sofferenza condivisa. Senza questo movimento qualsiasi tentativo di parola sarebbe stato violento. Perché il dolore, come l’amore, per non essere violentato, chiede di essere abitato dolcemente da dentro. Solo allora si possono osare parole che altrimenti non avrebbero senso, che avrebbero solo ferito, che avrebbero solo offeso.
Ora, da dentro, dal cuore, Lui osa persino sussurrare: “non piangere”. E mentre consola la vedova di Nain Gesù sembra piangere per sua madre. La terza soglia da forzare è quella delle lacrime. Non possiamo permettere al dolore di svuotarci lo sguardo, il rischio è quello di perdere la verità, di confondere vita e morte, di non riconoscere la resurrezione.

Poi il corteo si ferma. Entrambi i cortei si fermano. Siamo alla porta della città. Il corteo di morte è fermato da un sguardo, da un cuore e da parole coraggiose. Quello che accompagnava Gesù è bloccato perché non è possibile raggiungere il “sorriso” senza immergersi nel dolore, la gioia evangelica è possibile solo per cuori provati dalla vita, senza dolore rimane solo lo stordimento del divertimento, ma divertirsi è “divergere”, cambiare strada, non passare attraverso la porta. Fermi, silenziosi, immobili. Davanti alla porta. Si guardano Gesù e quella donna, i due cortei sono svuotati di senso, senza movimento diventano umanità smarrita. Dal basso, dalla terra, salgono le domande e le paure. Gesù e la donna si guardano. C’è una porta da attraversare e Gesù lo sa, Lui che sta attraversando le porte della vita per andare a raggiungere il cuore di quella donna, Lui che conosce bene il rischio di questi passaggi di soglia, Lui che sente il dolore che si prova ad immergersi nell’umano, Lui che non resiste e che addirittura si definirà “porta”, luogo di passaggio unico, battesimo definitivo del mistero del mondo. Da quel silenzio immobile fiorisce un tocco. Uno spostamento minimo di aria, un cenno, un battito d’ali, una rivoluzione. Gesù tocca la bara. Con la stessa solenne ordinarietà del Dio di Genesi: tocca la morte. Ed è questo l’attraversamento più rischioso: ci si può perdere in quel ventre buio. A Nain è solo un tocco, preludio di quell’attraversamento lungo tre giorni. Della vita non puoi dire niente se non confrontandoti con la morte. Per gli ebrei era impuro toccare un cadavere, per Gesù è impuro tenersi a distanza. Tocca e permette alla donna di continuare a essere madre. Stavolta non serve specificare, dalla croce dovrà trovare le parole: “madre ecco tuo figlio”.

Il ragazzo si siede e parla. Siede sulla morte come un angelo e racconta la vita. Siede sul confine su quel sepolcro in equilibrio. E noi capiamo che a Nain la storia ha camminato incontro a Gesù, gli è come venuta incontro. Il tocco su di Lui sarà quello del Padre, la chiameremo Resurrezione e quando qualcuno porterà la notizia alla madre ritrovata di Nain lei risponderà con un sorriso materno, uno di quelli che teneramente dice, senza parole, “non avevo dubbi”.
A noi rimane una pagina splendida, rimane un invito: camminare incontro alla vita come ha fatto Gesù. Uscire dal corteo e fermarsi. Poi vedere e commuoversi e aggrapparsi alle lacrime e infine toccarla, la morte. Che se non la tocchi Nain rimane un sorriso troppo insicuro. Superarle tutte le soglie, che poi sono le paure che ci portiamo dentro. È solo toccando il dolore che si impara la vita. Fa male, è una passione. Il prezzo è altissimo. La posta in gioco però è semplicemente “Tutto”. Vivere la vita lasciandosi trascinare prima di venire trascinati al sepolcro oppure farsi male ma vivere, vivere lasciando entrare tutto ciò che scorre, tutto ciò che respira, tutto ciò che soffre.

(Alessandro Dehò)

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L’amore come dono

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L’AMORE COME DONO NON COME PREMIO

 

Maggi

 

Alberto Maggi (Ancona, 1945) è un teologo, biblista cattolico e religioso dell’Ordine dei Servi di Maria italiano.

Ha studiato nelle Pontificie facoltà teologiche “Marianum” e “Gregoriana” di Roma e all'”École biblique et archéologique” di Gerusalemme.

Dal 1995 dirige il Centro studi biblici Giovanni Vannucci a Montefano (MC), dove insieme al confratello Ricardo Perez Marquez, si dedica alla divulgazione degli studi biblici attraverso incontri, pubblicazioni e trasmissioni radiotelevisive.

Scrive per la rivista «Rocca» e ha condotto per la Radio Vaticana la trasmissione «La Buona Notizia è per tutti!».

Dal sito del Centro studi biblici trasmette in diretta, tramite la piattaforma Livestream gli incontri della prima e seconda domenica del mese sul vangelo di Giovanni, e ogni giovedì sera la lettura e commento del vangelo della domenica.

terra

Di Alberto Maggi

Il Signore non ha chiesto ai pastori di pentirsi del loro comportamento, non li ha invitati a far penitenza per i loro peccati, neanche ha imposto loro di purificarsi o di recare offerte al tempio. Li ha amati, e l’amore rende liberi, ma non solo. I pastori hanno sperimentato l’amore come regalo e non come premio, come dono e non come frutto dei loro meriti.
Una volta che si fa esperienza di questo amore, e lo si accoglie, non esistono più barriere tra Dio e gli uomini, non si è più gli stessi di prima, perché Dio non e piu lo stesso.

I pastori credevano di essere i più lontani da Dio per la loro condizione di impurità, di illegalità, di peccato e si ritrovano di colpo a essere i più vicini al Signore, al punto che se ne ritornano alle loro greggi «glorificando e lodando Dio» (Lc 2,20), svolgendo il ruolo dei sette angeli ammessi al servizio di Dio’°, gli esseri piu vicini a lui che avevano come compito quello di glorificarlo e di lodarlo.
E questo è solo l’anticipo della buona notizia che il neonato Gesù porterà al mondo, per la gioia dei peccatori e l’ira furibonda dei pii, per l’allegria degli emarginati dalla religione e l’astio della casta sacerdotale al potere, perché, si sa, «nessun profeta è accetto nella sua patria», proprio come succederà a Gesù (Lc 4,16-30).
(da A.Maggi, Non c’è più religione)

 

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Le Promesse del Sacro Cuore di Gesù

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Rinnoviamo anche quest’anno ;

IL CUORE DI GESU’ L’ ICONA DEL DONO

(B.Giovanni Paolo II°)

 

Quando si parla del Sacro Cuore, il primo pensiero corre a quella serie di gesti che normalmente vanno sotto il nome di devozione al Sacro Cuore, ma il cuore di Cristo non un “oggetto” da venerare, è la rivelazione della persona di Gesù che noi conosciamo nella sua misteriosa storia  di amore. E più si entra nella conoscenza profonda del suo mistero, più si scopre che  il Cuore di Gesù  non è neppure l’immagine di chi aspetta qualcosa. Egli è l’icona di chi offre un dono e vuole essere riconosciuto come Colui che ha tanto amato l’uomo da dare la sua vita, che  ama e  vuole incontrare chi cerca l’amore. A chi abitualmente si pone davanti a questo mistero, con confidenza filiale, Dio dà la possibilità di entrare nei segreti della Nuova Alleanza attraverso la strada del cuore di suo Figlio, perché possa scoprire la lunghezza, l’ampiezza, la  profondità del suo amore.

 

Che cosa è l’Apostolato della Preghiera

 

 

 

 

L’ Apostolato della Preghiera (AdP) è un servizio alla Chiesa Cattolica diffuso in tutto il mondo, compatibile con tutti i tipi di associazioni e movimenti, che propone la spiritualità del Cuore di Gesù per aiutare tutti i membri della Chiesa a vivere pienamente il Battesimo e l’Eucaristia nello spirito del sacerdozio comune dei fedeli. L’ AdP propone tre impegni fondamentali e progressivi che consentono di vivere:

 

• l’Offerta quotidiana

la Consacrazione

la Riparazione

“Cuore divino di Gesù, io ti offro per mezzo del Cuore Immacolato di Maria, madre della Chiesa, in unione al Sacrificio eucaristico, le preghiere e le azioni, le gioie e le sofferenze di questo giorno: in riparazione dei peccati, per la salvezza di tutti gli uomini, nella grazia dello Spirito Santo, a gloria del divin Padre.”

Un po’ di storia…

Era l’anno 1844 a Vals in Francia, quando un gruppo di studenti gesuiti in procinto di partire missionari chiesero ai loro insegnanti un suggerimento per la buona riuscita della loro impresa. P. Gautrelet, alla vigilia della festa di San Francesco Saverio, suggerì di offrire quotidianamente a Dio il lavoro e lo studio per la salvezza di tutti gli uomini. Due anni dopo pubblicò un libretto in cui descriveva la spiritualità di una associazione di persone che pregavano per le grandi intenzioni apostoliche della Chiesa. Quest’offerta, infatti, era stata accolta da molti religiosi e religiose.

Nel 1860 padre Ramiere completò l’offerta e la rivolse al Cuore di Gesù simbolo dell’amore del Nostro Redentore. L’offerta è ora di tutta la giornata: lavoro, studio, gioie, dolori. E’ un atto di amore che si rivolge a Gesù per ricambiare il grande amore della Croce.

Padre Ramiere, un anno dopo, iniziò la pubblicazione del Messaggero del S. Cuore. Nel 1866 elaborò i primi statuti e fino al 1884 si adoperò per diffondere questa spiritualità in tutto il mondo, non solo fra i religiosi ma anche fra i laici. Il suo zelo fu premiato: infatti, alla sua morte, esistevano 3500 centri e 13 milioni di iscritti.

 

Perché l’offerta venne rivolta al Cuore di Gesù?

Circa 200 anni prima, sempre in Francia, Gesù mostrò il suo cuore a Santa Margherita Maria Alacoque dicendo: “Ecco il Cuore che ha tanto amato gli uomini e dai quali non riceve che ingratitudini e disprezzo”. Nelle successive apparizioni Gesù fece importanti promesse per coloro che avessero onorato il Suo Cuore. Ne riportiamo una soltanto: “Prometto la grazia della penitenza finale a coloro che si comunicheranno il primo venerdì del mese per nove mesi. Il mio amore onnipotente non permetterà che muoiano in disgrazia né senza ricevere i sacramenti, il mio Cuore sarà loro asilo sicuro nell’ora estrema”.       

L’Apostolato della Preghiera è sorto dunque in Francia presso la compagnia di Gesù. La diffusione in Italia dell’A.D.P. è avvenuta ad opera dei Barnabiti, i quali in contatto per quarant’anni con padre Ramiere hanno tradotto in italiano e distribuito Preghiere e Messaggero in tutta la penisola.   

I Pontefici, da Pio IX a Giovanni Paolo II, ebbero molto a cuore l’Apostolato della Preghiera. Lo dimostrano le indulgenze concesse, l’approvazione degli statuti e le intenzioni da essi aggiunte alla offerta giornaliera.   

 

Che cosa deve fare una persona consacrata o iscritta o simpatizzante dell’A.D.P.?

• recitare giornalmente la formula di offerta della giornata in riparazione dei peccati per la salvezza delle anime;

• realizzare e vivere l’offerta stessa in modo che le sue azioni siano in accordo con la volontà di Dio;

• avere a cuore tutto ciò che alimenta la pratica della preghiera;

• essere presente all’Adorazione Eucaristica (nella propria parrocchia ogni primo venerdì del mese durante la celebrazione eucaristica);

• farsi carico di opere di misericordia, come la visita agli ammalati ed il conforto ad essi, la preghiera per i defunti e l’accompagnamento dei defunti durante le esequie (non solo delle ascritte)  con la  preghiera. 

 Leggiamo con devozione questo opuscolo dedicato a:

il sacro cuore

 

Il Padre Raffaele Reyes insegnava lettere in un seminario. Era ancora giovane quando rimase cieco e così non poté essere ordinato sacerdote. Se al mondo vi sono delle altre prove, tra queste non sono le più piccole il divenire ciechi e il dover rinunciare al sacerdozio per chi ne ha ricevuto e abbracciato la vocazione. Ma Raffaele Reyes che viveva fortemente la realtà del suo intimo dialogo con Cristo, scrisse in quella occasione una poesia meravigliosa. In essa diceva: «Quando ero piccolo mia madre era solita avvicinarmisi di nascosto, mettermi le mani sugli occhi, per domandarmi poi: «Chi è?». Io, che la riconoscevo, rispondevo abbracciandola: «Sei  la mia mamma!». Ora sono ormai grande e sei venuto tu, Dio mio, e mi hai posto le mani sugli occhi e mi chiedi: «Chi sono?». Io riconosco la tua voce e le tue mani e rispondo: «Sei mio Padre!» E il mio desiderio è che Tu ritiri le tue mani, affinché io possa contemplare il Tuo volto e abbracciarti per tutta l’eternità».

 

Edda CattaniLe Promesse del Sacro Cuore di Gesù
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Newsletter n.28

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http://www.acsss.it

Newsletter n.28 del 20 maggio 2016

Buona giornata cari Amici navigatori!

 

maria

 

Solo per avvertirvi che abbiamo creato per voi un sito nuovo che potrete consultare con più facilità e fare i vostri commenti!

Grazie e buon mese di maggio!!!

“Parlerò con te,
mio Dio.
Posso?

Col passare delle persone,
non mi resta altro che il desiderio
di parlare
con te.

Amo così tanto gli altri,
perché amo in ognuno
un pezzetto di te,
mio Dio.

Ti cerco in tutti gli uomini
e spesso trovo in loro
qualcosa di te.

E cerco di disseppellirti
mio Dio.”

Etty Hillesum – Diario 1941-1943

Ricevi questa email o come iscritto o simpatizzante della nostra Associazione e il suo sito www.acsss.it. Il trattamento dei tuoi dati avviene nel rispetto del Dlg. 196/2003. Qualora non volessi ricevere più queste informazioni o volessi semplicemente cancellare i tuoi dati, basta rispondere a questa mail con “CANCELLAMI” Per qualsiasi informazione nel merito puoi scrivere a: edda.cattani@alice.it

 

 

 

Edda CattaniNewsletter n.28
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Allarme terrorismo

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ALLARME TERRORISMO

Alla notizia dei morti precipitati con l’aereo diretto al Cairo ricordiamoli con la preghiera di Papa Francesco, al termine della Santa Messa a Lampedusa, rivolte a Maria, Stella del Mare:

maria

O Maria, stella del mare, ancora una volta ricorriamo a te, per trovare rifugio e serenità, per implorare protezione e soccorso.

Madre di misericordia, implora perdono per noi che, resi ciechi dall’egoismo, ripiegati sui nostri interessi e prigionieri delle nostre paure, siamo distratti nei confronti delle necessità e delle sofferenze dei fratelli.

Rifugio dei peccatori, ottieni la conversione del cuore di quanti generano guerra, odio e povertà, sfruttano i fratelli e le loro fragilità, fanno indegno commercio della vita umana.

Modello di carità, benedici gli uomini e le donne di buona volontà, che accolgono e servono coloro che approdano su questa terra: l’amore ricevuto e donato sia seme di nuovi legami fraterni e aurora di un mondo di pace.

Edda CattaniAllarme terrorismo
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Nessuno ha il diritto…!!!

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Da chi difendere i  nostri  bambini ?

Esistono gli “orchi”???

Dedicato a tutti i piccoli toccati dall’ ORCO

e a te piccolina caduta o buttata da un balcone…

aspettare1

Nel folclore e nelle fiabe dei paesi europei, specialmente nordici, gli orchi (ogre in inglese) sono mostri antropomorfi giganteschi, crudeli e divoratori di carne umana.

L’orco del folclore è correlato a quello della mitologia germanica (orc in inglese); non sempre è possibile distinguere chiaramente queste due figure, sebbene l’orco della mitologia sia in generale un essere descritto come più simile a una bestia o a un demone. Gli orchi nella fantasy sono talvolta ispirati alla figura dell’orco del folclore (per esempio gli orchi di Piers Anthony), e talvolta a quella dell’orco della mitologia (gli orchi di J. R. R. Tolkien); in alcuni casi, fanno riferimento a elementi tipici di entrambe queste figure.

LE STORIE RACCONTATE DAI BAMBINI

 IL BIMBO E L’ORCO
C’era una volta un orco che mangiava solo carne in scatola, fagioli in scatola, piselli in scatola e beveva solo birra in lattine. Nessuno però lo sapeva e tutti avevano paura di lui. -Non andate nel bosco- dicevano le mamme-perchè c’è un orco cattivo che mangia i bambini.
I ragazzi più grandicelli, per sembrare più coraggiosi, andavano fino al confine del bosco e si nascondevano tra i cespugli. Aspettavano che arrivasse l’orco e poi, quando lo vedevano da lontano, scappavano a gambe levate…

 

 

 

E’ di ieri sera la puntata  di “mi manda rai tre” in onda alle 21.10

 

Reclusi e costretti a mangiare vomito ed escrementi per allontanare il demonio. Queste e altre sevizie avrebbero subìto i bambini vittime di una setta, detta ‘della porta accanto’, e di una persona indagata assieme a 17 adepti con ipotesi di reato gravissime. Il conduttore di Mi Manda Raitre raccoglie le rivelazioni dell’ex compagno della ‘santona’ e di un ‘pentito’ della setta.

Tra clamore mediatico e gesti come il lancio delle molotov di ieri sera, il futuro delle due maestre del ‘Cip e Ciop’ di Pistoia, in attesa che si esaurisca il processo in rito abbreviato, è divenuta una questione d’ordine pubblico. Dopo la convocazione in Prefettura di un “Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica”, le forze dell’ordine vigilano davanti alle abitazioni delle maestre incriminate per abusi. La questura di Pistoia ha inoltre fatto scattare un piano di sorveglianza per le scuole di vario ordine e grado. In un altro asilo nido, sono apparse scritte intimidatorie contro altre maestre. Le due imputate erano state trasferite al carcere di Sollicciano, a Firenze, dopo la prima udienza del processo che si celebra a Genova ed hanno ottenuto, pochi giorni dopo, i domiciliari. Timori contro il “rischio di spirale di violenza” sono stati espressi per la crescita di odio verso le maestre che non trova concordi molte delle mamme dei bambini dell’ex “asilo degli orrori”, decise a “condannare l’uso della violenza contro la violenza”.

Poi si parla del caso del piccolo Francesco Pio Martinisi, il bimbo di 4 anni morto un anno fa assieme alla nonna per l’esplosione di una camera iperbarica dell’Ocean Hyperbaric Center di Miami, dove era in cura per una tetraparesi spastica. Dopo quasi 12 mesi dalla tragedia, i genitori di Francesco  Pio sono ancora in attesa di giustizia.

Scandalo preti pedofili, il Vaticano : «Per loro l’inferno sarà più terribile»

Il promotore di giustizia della Congregazione della Fede: «Meglio per loro che quei crimini fossero causa di morte»

Monsignor Charles Scicluna lo ha detto durante una preghiera a San Pietro

Il promotore di giustizia della Congregazione della Fede: «Meglio per loro che quei crimini fossero causa di morte»

MILANO – Forse la giustizia umana non li raggiungerà ma quella divina sicuramente. «Sarebbe davvero meglio» per i sacerdoti colpevoli di abusi sessuali su minori che i loro crimini fossero «causa di morte» perchè per loro «la dannazione sarà più terribile». Lo ha detto il promotore di giustizia della Congregazione della Fede, monsignor Charles Scicluna, incaricato di seguire tutti i casi di preti abusatori, in una preghiera di riparazione a San Pietro per lo scandalo di pedofilia nella Chiesa.

LA CITAZIONE – Monsignor Scicluna ha citato il passo del Vangelo di Marco, nel quale Gesù afferma «Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare» e ha riproposto l’interpretazione che del passo diede SAN Gregorio Magno. «Gregorio Magno – ha detto il promotore vaticano – così commenta queste terribili parole di Gesù: “Misticamente espresso nella macina d’asino è il ritmo duro della vita secolare mentre il profondo del mare sta a significare la dannazione più terribile”. Perciò – ha spiegato -, chi dopo essersi portato ad una professione di santità distrugge altri tramite la parola o l’esempio, sarebbe davvero meglio per lui che i suoi malfatti gli fossero causa di morte essendo secolare, piuttosto che il suo sacro ufficio lo imponesse come esempio per altri nelle sue colpe, perchè tendenzialmente se fosse caduto da solo il suo tormento nell’inferno sarebbe di qualità più sopportabile».

Diventerobambino 

 
Edda CattaniNessuno ha il diritto…!!!
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Abbiamo bisogno di pazzi

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ABBIAMO BISOGNO DI PAZZI.

Louis-Joseph Lebret

 

Indonesia

Indonesia


Abbiamo bisogno dei pazzi
Ci sono oggi troppo saggi, troppo prudenti,
indaffarati a calcolare, a misurare.
O Dio! Mandaci dei pazzi (facci conoscere
quelli che ci sono già), gente che si impegna
a fondo, che sa dimenticarsi, giovani che
amino non solo a parole, che si danno
sul serio fino in fondo.
Abbiamo bisogno di pazzi, di gente che
sragiona, di appassionati, di ragazzi capaci
di un salto nell’insicurezza
nell’ignoto sempre più beante
della povertà, che accettino gli
uni di perdersi nella massa anonima
senza alcun desiderio di farsi un
piedistallo, gli altri di non
utilizzare la loro superiorità che
per servire.
Non si tratta sempre di romperla
col proprio ambiente o genere di vita.
Si tratta di una rottura di altra
profondità, rottura con l’io
egocentrico che aveva finora
dominato.

Edda CattaniAbbiamo bisogno di pazzi
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L’amato del mio cuore

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Mi sono imbattuta quasi per caso in questo libro e sono giunta ad approfondire questa tematica tanto affine alla mia ansia di spiritualità contemplativa. Come si saluta una Madre? Una Badessa? Una donna con il velo? Forse tacendo. Forse scrutandone il volto, leggendovi una pace sconosciuta, una delicatezza che medica ogni remora, ogni caduta, una speranza che ha il respiro di una sua lirica: «Ho tanto taciuto / sepolta nel grande silenzio / buio. / Oggi risalgo / dal fondo di tanta pazienza / perché sento che in alto / dev’esserci il mandorlo in fiore».


Madre Anna Maria Cànopi è la pietra angolare dell’Abbazia Mater Ecclesiae. Da quarant’anni, da quando scelse di rinnovare la Croce nell’isola di San Giulio d’Orta. Dove fede e leggenda (e storia) insieme stanno, nei secoli dei secoli. Assistendo, prima, alla resa di draghi e serpi, poi alla rinascita (alla risurrezione) del rodariano Barone Lamberto.

 

La badessa vive da quarant’anni a Orta: tra ricordi e poesia, meditando Sant’Agostino, Turoldo e Edith Stein

È nata nel Piacentino, Madre Cànopi, ma è cresciuta nel Pavese. Laureandosi alla Cattolica, una tesi sul filosofo cristiano Severino Boezio, ovvero «la bellezza è consolatrice». Ulteriori sue bussole? «Sant’Agostino, la verità, l’amore, che è sete di Dio. E le mistiche: Gertrude, Ildegarda, Teresa…E Edith Stein. Mi si propose di scrivere una lettera agli ebrei. Declinai l’invito, già ne esiste una… Immaginai, però, una lettera a un’ebrea, a Edith, magistrale la sua scientia crucis. Mi impegnò dal 9 agosto all’Assunta».

Donna di Parola, Madre Cànopi, che ha tra l’altro collaborato alla nuova versione della Bibbia. Biblista princeps, il cardinal Martini: «Un lettore, un traduttore, un ese­geta splendido». E padre Michele Pellegri­ no, come Lei studioso egregio di Patristica? La mano della Badessa si leva, non benedi­cente, ma allontanante qualsiasi refolo d’orgoglio: «Ne sarà fraintesa l’attenzione al mondo operaio, che i tempi gli ispiraro­no. Ma era un sicuro uomo di Dio».

 

Descrizione

«Partendo dal Cantico dei Cantici e leggendo nel nostro cuore, vogliamo cercare di scoprire qual è l’itinerario dell’anima verso Dio, dopo che è stata toccata dalla sua grazia». Così Madre Cànopi apre questa lunga e puntuale meditazione su uno dei libri più belli e misteriosi della Bibbia, sul quale i più grandi mistici hanno sparso parole appassionate e sconvolgenti. Con la sua semplicità profonda, l’autrice ci conduce a cogliere il mistero del “libro d’amore” biblico, che può essere raccolto in un’unica frase, che dà il carattere della stessa carità divina: «L’amore discende, attira ciò che è in basso e lo solleva» a sé. «Chi non è preparato a patire, a soffrire rimanendo fedele a colui che ama, non è degno di essere chiamato “amatore”».

PREFAZIONE

È nota l’affermazione di Rabbi Aqiba a proposito del Cantico dei Cantici: «Il inondo intero non è tanto prezioso quanto il giorno in cui fu dato a Israèl il Cantico dei Cantici, perché tutti gli scritti sono sacri, ma esso è il sacro per eccellenza» (Mishnà Jadayim, 3,5).

Se questo è vero, chi oserebbe accostarsi a questo canto senza sentirsi sopraffatto dall’emozione e dal timore di profanarlo? Esso racchiude tutta la poesia, la musica e la bellezza dell’Amore, di quell’Amore fontale da cui trae origine ogni cosa e al quale ogni creatura anela a ritornare per immergersi nella sua beatitudine e nella sua pace. Soltanto i mistici possono comprendere e gustare questo Cantico; è perciò con umiltà e tremore che esprimiamo quanto l’ascolto, la meditazione e la contemplazione di esso ha suscitato in noi.

In questo poema insieme idilliaco e drammatico, Israele scorgeva la sua storia d’amore con Hashèm, il suo Signore, dal tempo del fidanzamento — l’uscita dall’Egitto e la traversata del deserto — all’alleanza sancita nella Terra promessa, ma è ancora in attesa del giorno delle nozze… A noi cui è stato dato di credere all’Amore pienamente svelato — poiché in Cristo Gesù, Verbo Incarnato, Dio si è misticamente unito all’umanità — rimane solo di attendere l’ora in cui il velo sottile del mistero si squarcerà per lasciarci vedere l’Amato nel suo pieno splendore.

Questi spunti meditativi — nati all’interno di un ritiro spirituale — sono davvero una inezia di fronte ai preziosi commenti del Cantico che già esistono, ma se giovassero almeno a tener viva in noi e in qualche altro pellegrino sulla terra la nostalgia del Volto che vedremo in Cielo, potremmo cantare con gratitudine e gioia: «Così sono ai suoi occhi I come colei che ha trovato pace» (Ct 8,10).

Isola San Giulio, 25 marzo 2000

ESTRATTO DAL PRIMO CAPITOLO 

Il tocco misterioso di Dio

Partendo dal Cantico dei Cantici e leggendo nel nostro cuore, vogliamo cercare di scoprire qual è l’itinerario dell’anima verso Dio, dopo che è stata toccata dalla sua grazia.

Ricercheremo innanzitutto dentro di noi il cammino che, nel suo amore, il Signore ha compiuto, e ancora va compiendo, per attirarci a sé. L’amore discende, attira ciò che è in basso e lo solleva, lo fa salire.

Il primo momento di questo itinerario è quello della improvvisa folgorazione, del tocco misterioso e profondo di Dio nell’anima, il momento inesprimibile che ciascuno sente e ricorda come quello più decisivo della sua esistenza, ma che non sa descrivere né ridire, anzi non lo sa nemmeno spiegare a se stesso. È come un tocco di calamita che orienta per sempre, decisamente, un’esistenza verso il suo fine, che dà al fiume di una vita il suo corso e lo conduce verso la sua foce, riversandolo nell’oceano dell’amore infinito.

Come sappiamo, il Cantico dei Cantici è stato già commentato e interpretato misticamente da molti Padri della Chiesa e del monachesimo, da Origene a Gregorio di Nissa, da Bernardo di Chiaravalle a Guglielmo di Saint-Thierry; ma anche nel nostro tempo uomini spirituali hanno dato suggestive e profonde interpretazioni di questo Cantico che Israele introdusse nella Sacra Scrittura, anche se nel suo linguaggio realistico e persino sensuale sembra piuttosto un’appassionata esaltazione dell’amore umano. Qualunque sia la sua origine, poiché una sola è la fonte dell’amore, il Cantico dei Cantici è comunque una rivelazione dell’amore divino. Tutta la tradizione, infatti, è concorde nel vedere rappresentato in esso il dramma dell’amore di Dio per il suo popolo, l’Israele dell’Antica Alleanza e — nell’ambito cristiano l’unione sponsale di Cristo e della Chiesa.

Letto in questa chiave, il suo già audace linguaggio risulta persino ancora inadeguato a esprimere l’intensità e la grandezza della realtà che vi è sottesa.

 

Edda CattaniL’amato del mio cuore
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Resta nella mia barca

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Resta nella mia barca!

(Da FB Alessandro Dehò. Come non condividere… anche per me… ora più che mai…)

 

Due barche lasciate a dondolarsi stancamente alla sponda di quel lago inaspettatamente avaro. Io di quella giornata la prima cosa che ricordo sono questi gusci vuoti appoggiati ai bordi della vita. Vuoti. Non barche sconfitte, segnate dalle intemperie, non barche con i segni della lotta in mare no, tutto quello fa poesia, erano solo barche stanche. E terribilmente vuote. Io di quel giorno ho in mente la rete. Rete che devi ripulire anche se non hai preso nulla. E la sentivo ridere quella rete, giuro, quasi a prendersi gioco del carico di niente tirato a riva. Io ho in mente quella rete che ride, una beffa trascinata per una notte intera senza portare a casa nulla. Io di quel giorno ho in mente che ho capito, ho capito che io ero quel guscio vuoto, io quella rete piena di niente.  In quel momento ho capito che la sofferenza vera è quando il mondo si nasconde, quando non si concede più, quando non ti considera più degno neanche della lotta. In quel momento ho capito che la mia vera paura non è quella di perdere ma quella di stare, vuoto e inutile appoggiato alla sponda della vita, senza poter più combattere. Ho capito, in quel momento là ho capito bene, che non era questione di pesci. Conoscevo abbastanza la vita, bastava aspettare e il giorno dopo e avrei portato a casa la dose minima di pesce per continuare a vivere. No, non era questione di pesce, era che quelle barche erano lo specchio più vero del vuoto che mi portavo dentro. E me lo urlavano addosso, e io, chino, a pulire il vuoto, morivo. Poi lui entra nella barca. E io non potevo dirgli di no. Come se avesse capito che io aspettavo solo qualcuno che volesse abitarmi. Sì ho proprio detto abitarmi. Avevo tanto spazio dentro e avevo bisogno di qualcuno che nel vuoto profondo della mia storia prendesse casa. Lo vidi salire sulla barca, sentii che mi pregava. Pregava di poter stare dentro di me. No so se potete capire quello che sto dicendo ma in quel momento i miei nervi vacillarono come la barca stessa sotto il suo peso… mi guardavo allo specchio e vedevo la mia vita abitata da un uomo nuovo. Non so se potete capire ma quella barca ero io. Lasciai le reti senza troppo rimpianto e salii. Rientrai dentro di me. Non più solo. Io delle Sue Parole non ricordo niente. Giuro, niente. Solo vedevo una speranza negli occhi della gente che non avevo mai visto prima. Io di questo avevo bisogno. Io di questo volevo vivere. Loro ascoltavano e lui parlava e la vita sembrava, almeno per un attimo, avere senso. Poi mi chiese di prendere il largo. Non ebbi il minimo dubbio. Poteva chiedermi tutto, anche la follia più atroce e io là avrei fatto, pur di non lasciarlo uscire dalla mia vita. Non so se potete capire ma io avevo terrore di tornare ad essere solo. Mi chiedeva di pescare dopo che non avevo preso niente? Avrei pescato. Perché lui era dentro di me. Perché lui ormai mi abitava. E io volevo trattenerlo. La barca che si riempie è quello che tutti raccontano. Pesce abbondante con il minimo sforzo. Un miracolo. Sapete cosa vedevo io? Sempre meno vuoto. Io non guardavo i pesci, io guardavo il niente che si lasciava mangiare da quell’abbondanza di vita. Io non guardavo i pesci, io ero concentrato sullo spazio che mi veniva tolto. I pesci mi buttarono fuori dalla mia barca. Lo stupore mi fece indietreggiare: allontanati da me! Lui mi guardò e sorrise, ormai era dentro di me. Io pescatore e lui uomo nuovo. Pescatore di uomini. Qualcuno ha scritto che ho abbandonato tutto per seguire Gesù, non è corretto, solo non avevo più spazio per vivere, da solo, sulla mia barca. Quella vita non mi bastava più. E poi io ero diventato la barca e lui il pescatore, era cambiato il vento, e io mi lasciavo condurre volentieri lontano da lì. Ci aspettavano tempeste, lotta, lotta dura lui non mi abbandona mai. Io so mi sono capovolto, mi sono opposto, quasi inabissato, credo di averlo ferito e deluso. Ma lui…lui non mi ha più lasciato. E mi abita ancora.

Edda CattaniResta nella mia barca
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Una barca in tempesta

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Siamo barche in tempesta!

.. c’è un mistero, buon Dio, nella banalità che ci rende furiosi e strappa cuori pieni di stanchezza e vuoti di passione .. un mistero che Tu, però, spingi in un angolo sacro che per noi è un abisso, ma per Te è ascensione .. allora sentiamo salire un dolore lento, forte, e una lenta nostalgia di lotta che diventa rabbia .. mentre Tu ancora a dirci di prendere il largo e che di noi non sei mai stanco ..(B.F.)

 

 

 

Tempi duri per tutti anche se siamo in clima festaiolo. I commenti sono i medesimi: spesa troppo cara, gente senza lavoro, figli disoccupati, famiglie allo sfascio…  Per chi, come me, ha vissuto il dopoguerra sembrerebbe un richiamo alla congiuntura del passato… ma non è così: si viveva in ristrettezze ma c’era la speranza. Ora questa sembra essersi dissolta e più che mai ci si ritrova poveri fra i poveri in un mare in tempesta… Il Vangelo di questa domenica è un richiamo a tirare i remi in barca e a ricominciare da capo:

 

Il Commento del Vescovo emerito Mons. A.Riboldi:

“In quel tempo, mentre Gesù, levato in piedi, stava presso il lago di Genezareth e la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù vide due barche ormeggiate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì su una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedutosi, si mise ad ammaestrare le folle dalla barca. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: ‘Prendi il largo, e calate le reti per la pesca’.

Simone rispose: ‘Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla, ma sulla tua parola getterò le reti’. E avendolo fatto presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche al punto che quasi affondavano. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: ‘Signore, allontanati da me che sono un peccatore’. Grande infatti era lo stupore che aveva preso lui e tutti quelli che erano insieme con lui per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo, Giovanni, figli di Zebedeo che erano soci di Simone. Ma Gesù disse a Simone: ‘Non temere, d’ora in poi sarai pescatore di uomini’. Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. (Lc. 5, 1-11)

Pietro era un pescatore che veniva da una pesca fallimentare. Aveva faticato tutta una notte sul lago di Tiberiade che conosceva palmo per palmo. Era in fondo una sua scelta di vita fare il pescatore. E un buon pescatore non esce mai in mare se non ha la quasi certezza di tornare con le reti piene. Tornare a mani vuote non voleva dire solo confessare una incapacità, ma anche e soprattutto non avere il sufficiente per vivere e fare vivere.

Ma quella notte, davanti al Maestro che aveva scelto di essere spettatore, era stata la notte del fallimento che è così ben espresso da Pietro: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla».

E Gesù vuole dare un segno a Pietro, proprio sul campo della sua competenza. «Prendi il largo e cala le reti». Pietro, dopo la confessione del suo fallimento, obbedisce dicendo: «Sulla tua parola getterò le reti».

Questa è la fiducia di coloro che si affidano, che sanno di non potere nulla in presenza di situazioni allo sbando, nella caduta delle prospettive… e soprattutto nella fame che c’è di solidarietà, di amore, di speranza.

Continua il Vescovo Riboldi:

Per me è stupendo questo atteggiamento di Pietro. Aveva mille e una ragione per essere furibondo contro se stesso, il mare e contro ogni speranza: perché trovarsi con le mani vuote dopo una grande fatica è come avere le gambe rotte. Supera se stesso e con la docilità di un bambino, fidandosi della parola di Uno che in fondo conosceva appena di vista o di fama, ma con il quale non aveva ancora alcuna familiarità, torna in mare avventurandosi al largo dove si misura capacità e coraggio. «E presero una quantità enorme di pesci che le reti si rompevano».

Il risultato perciò non viene dalle nostre capacità, ma dalla fede sulla Sua Parola.

 

Sali sulla mia barca, Signore!

Sali sulla mia barca, Signore!
Tante volte ho avuto l’impressione
che la mia vita
sia come una notte trascorsa
in una pesca fallita.
Allora mi assale la delusione,
mi prende il senso dell’inutilità.
Sali sulla mia barca Signore,
per dirmi da che parte
devo gettare le reti,
per dare fiducia ai miei gesti,
per capire che non devo
lavorare da solo,
per convincermi che il mio lavoro
vale niente senza di Te,
senza la Tua presenza.
Sali sulla mia barca Signore,
per donare calma e serenità.
Prendi Tu il timone:
accetto di essere tuo pescatore.
Insieme pescheremo, Signore,
e giungeremo sicuri
al porto della vita

 

Ma tutto questo riesce strano… quando non difficile… e a tal proposito mi è stato scritto:

Come sei strano Gesù. Già è difficile credere alla Tua venuta, dalla sola testimonianza dei Vangeli. E Tu, cosa fai?! Ti vai a mascherare nelle persone più lacerate, quelle che puzzano; nei malati che ossessionano le nostre ore con la cantilena della propria sofferenza; nel ghigno beffardo di quell’uomo che ha sparato nel viso a una donna.

Come sei strano Gesù. Perché fai questo? Vuoi forse ricomporre ogni cosa? Prenderti in braccio tutti i nostri scarti e dirci che, dal momento della Tua venuta, non si butta via più nulla? Sei qui, perché per seguirti, dobbiamo perdere la nostra reputazione, il nostro buon nome, la nostra pace? E la porta è stretta da attraversare.

Sei anche un tipo “ganzo” Gesù. Perché avvicinarsi a Te, significa essere prossimi alla libertà. Assaporare il nomade soffio dello Spirito. Così ci troviamo scrollati dalle catene che gli altri, e noi stessi, abbiamo stretto intorno agli occhi del nostro stare al mondo.

 

 

 

 

Edda CattaniUna barca in tempesta
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