Edda Cattani

I bimbi “non nati”

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Un dramma quotidiano: vite spezzate nel nascere richiamano la nostra attenzione

Una “madre adottiva” racconta la sua esperienza per un messaggio d’amore 

GIULIANA VIAL

Il messaggio di  AURA  “la bambina non nata” continua…



La venuta di AURA ha cambiato la vita del nostro gruppo, ma soprattutto la mia: il ruolo
nuovo di “ Madre terrena” mi ha così coinvolta da farmi riconsiderare alcune fasi della mia vita con
conseguenze assai positive.
Detto questo, che riguarda l’aspetto personale, mi preme dire, che io sono la portavoce del nostro
Gruppo Umanità e Movimento, anche se responsabilizzata in più mansioni, ed é per questo che mi
trovo ora a rappresentarlo.
“ Umanità e Movimento é nato una decina di anni fa per desiderio di una Entità di Luce :
ENZO. Enzo si é manifestato attraverso la medianità di alcuni membri del gruppo. E’ il
simbolo di una scrittura E : L: Enzo- Luce nel cuore del sole.
Così il contatto visivo fra Lui e noi, e noi e Lui, ha aperto un altro filo comunicativo con l’Entità
AURA
Tra Enzo e Aura, c’é un rapporto di Luce e movimento che si fonde fra noi, Gruppo che si
distribuisce in tre luoghi ( Roma, Padova, Lugano) per divulgare aiuto agli altri e coinvolgerli nel
movimento umano di amore, ma anche riuniti nei momenti di incontri medianici quando le Anime
ci chiamano e alla conseguente nostra risposta.
Lei AURA si é presentata con malinconia, ma soprattutto tenera nei confronti di chi non ha
permesso il suo passaggio alla vita terrena per poi andare in un crescendo di gioia e amore e di
insegnamento, così é stata chiamata perché come luce nascente AURA- AURORA si é presentata
per brillare poi nel cielo e prati azzurri dove i colori sono inimmaginabili.
Questo, di oggi é il nostro secondo incontro, il nostro secondo “ viaggio” nella luce e della vita.
Questo incontro vuole concludere il messaggio di AURA ma noi resteremo spiritualmente
sempre uniti perché “ IL FIOCCO ROSA “ ha suggellato una nascita . . ( la Sua ), altre nascite
e chissà quanti bambini sono nati, alla vita spirituale, chissà quante mamme ci ascoltano ora!!
Ed é il Loro appello che la nostra Entità ci chiede di divulgare.
Ora Lei é la “ Capogruppo”, potremmo dire di una schiera di bambini mai nati ( di aborti)
é la voce di una piccola che con altre costituiscono una coralità, i loro messaggi continuano comunicandoci la loro gioia per aver realizzato il nostro primo incontro, sentito e salutato come la realizzazione di un grande progetto.
AURA ritorna ad essere fra noi il messaggio e la voce della vita in analogia con l’Enciclica “Evangelium Vitae “ sul principio e sul valore dell’esistenza e in difesa della vita.
Aura desidera lanciare un appello al non aborto per non bloccare il processo vitale evolutivo di ogni
bimbo, che, embrione, desidera nascere, venire al mondo.
Lei vuole anche riferirsi ai casi di aborti e richiamare quelle madri che hanno rifiutato i loro figli,
perché Lei vuole dare loro un nome, facendoli così evolvere nel cammino celeste unitamente alla Sua schiera.
Quanto detto é la sintesi del messaggio di Aura, Essa ha voluto tutto questo per scuotere la sensibilità
e la coscienza delle donne, ora il Suo compito terreno é terminato. E’ passata come una stella,
lasciandoci felici per aver fatto quanto ci aveva chiesto. La sua venuta é stata come un sasso
lanciato in uno stagno e gli effetti si sono manifestati diffondendosi come le onde in un moto quasi
incessante e concentrico.
Ma Lei dall’altra dimensione ci manda messaggi ove racconta che é ha capo di bimbi handicappati
che é STELLA TRA LE STELLE.
A questo punto Aura ha raggiunto la Dimensione Celeste, ha raggiunto quello che era
programmato per Lei, e ci ha mandato un ultimo messaggio a conclusione del suo passaggio terreno.

 

 “Mamma mammina mia bella, le campane stanno suonando a Festa nella cattedrale dell’universale coscienza.

Mamma tutto è stato fatto tutto è stato detto. Ora bisogna fermarsi e lasciare che gli altri possano prendere coscienza del
contenuto di un discorso che è stato portato avanti malgrado tutto e tutti.

“Mamma io ritornerò negli spazi infiniti dove tutto è poesia, poesia dell’amore della fedeltà e ti
invierò onde ondulate di amore universale. Ora io sono in te e attorno a te io sono tua madre e tu
mia figlia e ti dono l’amore che permea tutto il mio essere fatto di Luce.

 Mamma la vita viene donata al momento del
concepimento ma prende veramente corpo solo al momento della nascita a quella vita breve nel
tempo che si costruisce tra la nascita e la morte e questo solo nell’ambito terreno del termine poiché
anche durante la propria stasi terrena le nostre vibrazioni fanno parte del Tutto e dell’essere che sta
vivendo sulla terra. Mamma tutto questo è un perché molto importante. Dobbiamo vivere sulla terra
per costruire vita dopo vita il nostro essere scintilla divina.

Il non passaggio sulla terra non è cheintralci la nostra evoluzione, ma fa si che il tutto debba essere vissuto

in un’altra dimensione in un’altra galassia.
Mammina mia tu dovevi essere colei che scelta da me per questo compito importante avesse il
coraggio della rinuncia per poi avere il coraggio dell’accettazione di un tutto che non è stato facile
anzi è stata una grande sofferenza che ha maturato in te il germoglio di una vita interiore fatta dalle
tue energie riunitesi alle mie energie. Tutto stava scritto e tutto è successo.
Mamma cara io sono grande ora, di quella grandezza che tu mi hai donato con il tuo amore la tua
disponibilità il tuo coraggio.
Mamma io sono quel punto luminoso che illumina la tua coscienza nella notte buia di una vita che
viene da te vissuta in doppio per te e per me.”

Il discorso è terminato.
Mamma io sono il tuo Sole ,
la tua
Luna, le tue stelle.Io sono quel
tutto che riunisce in sé tutte le
tue memorie passate presenti e
future.

AURA
SPIRITO DEGLI SPIRITI
ANIMA ELETTA TRA
LE ANIME ELETTE. CIAO


 

Edda CattaniI bimbi “non nati”
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1° Maggio: un insieme di ricorrenze

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Questo è un mese benedetto …anni fa è iniziato con un grande dono : la beatificazione di Papa Giovanni 23° e del nostro Santo  Pontefice Carol Wojtyla, amante di Maria Santissima e grande lavoratore della vigna del Signore!

 

 

MAGGIO: Mese di Maria, Festa di San Giuseppe Artigiano… la meravigliosa unione della Sacra Famiglia

Dedicato a te Mentore, per il grande Padre che sei stato! 

San Giuseppe ebbe meriti smisurati al pari di Maria, per noi fedeli deve essere egli dunque un “maestro di bottega”, come lo fu per Gesù:… un artigiano che col suo lavoro, silenzioso e faticoso, ma sempre risoluto, si fa per noi modello di umiltà, semplicità, povertà, amore. San Giuseppe ci ricorda come il cammino della fede sia fatto di osservazione: l’osservare un gesto banale ma che nell’ottica della fede ci appare invece illuminante più di ogni scritto, più di ogni omelia, più di ogni miracolo.

 

“Dio combina le combinazioni”, affermava San Pio da Pietralcina. 

Quanto appare singolarmente adatto, questo suo pensiero, al mese di maggio! 

Per una splendida “combinazione” il mese mariano per eccellenza,  prende l’avvio con una festa dedicata a San Giuseppe, cosicchè lo Sposo, quasi “accompagni” per mano la Sposa, introducendola con squisita “galanteria” nel periodo a lei particolarmente dedicato per poi lasciarla unica regina incontrastata dei 30 giorni successivi!

 

La speciale “vocazione” mariana del mese di maggio ha origini antiche, che affondano le proprie radici nella tradizione popolare. 

La festa di San Giuseppe artigiano fu invece istituita nel 1955, da Pio XII e in Italia si festeggia il 1° maggio.

Questa felice coincidenza sottolinea -quasi “simbolicamente”- la forte unione fra gli sposi di Nazaret, Giuseppe, l’uomo giusto e silenzioso, si presenta il primo maggio per accompagnare Maria, ricordandoci che a suo tempo, nella storia dell’incarnazione,  fu scelto da Dio per “affiancare” la Vergine nel suo percorso di maternità del Figlio di Dio, per non lasciarla sola,  rispettando in tal modo anche quelle che erano le “consuetudini” sociali del tempo.

Se Dio avesse voluto, non avrebbe avuto bisogno né di Maria né di Giuseppe, per far nascere Gesù, ma, volendo servirsi degli uomini, ha deciso di fare le cose in pienezza.

Dio non ha fatto della Vergine una “ragazza madre”, ma le ha donato un degno sposo, inserendola così in un nucleo familiare che non ingenerasse scandali (anche per questo motivo, si ritiene che San Giuseppe non fosse un vegliardo, come tanta produzione artistica ci fa credere!).

In un piccolo libricino, edito dal Movimento Giosefino, si legge :

“Il Figlio è stato ricevuto da entrambi per mezzo della mente, non della carne. Infatti, se Maria è verginalmente e castamente madre, altrettanto lo è Giuseppe come padre. Già San Girolamo fu primo e grande assertore di questa verità”.

Se questa fu la grande “condivisione” di Maria e Giuseppe in terra, figuriamoci quale possa essere in Cielo, la loro unione spirituale!

A testimonianza di questo, molte sono le visioni in cui grandi Santi hanno visto assieme i due Sposi, e grande la devozione nutrita verso di essi.

Nell’ultima apparizione di Fatima, oltre alla Vergine, i tre pastorelli, videro anche San Giuseppe -vestito di bianco e che teneva in braccio il Bambinello-.

E fu proprio “il falegname”, insieme al Figlioletto, a benedire il popolo che sostava in preghiera. 

Non è questo un inequivocabile segno dell’armonia che alberga -anche e soprattutto in Paradiso!- fra i membri della Santa Famiglia?

Papa Pio XI, nel 1935, affermò: “sorgente di ogni grazia è il Redentore Divino, accanto a Lui è Maria Santissima, dispensatrice dei divini favori; ma se c’è qualche cosa che supera queste due sublimi potenze è, in un certo modo, il riflettere che è S. Giuseppe che comanda all’uno o all’altra, colui che tutto può presso il Redentore Divino e presso la Madre Divina in una forma ed in un potere che non sono soltanto di famulatoria custodia”.

In effetti, se i “legami” terreni, trovano il loro “compimento”, la pienezza, soltanto in Paradiso, si potrebbe mai credere che San Giuseppe diventi un “estraneo” per il Figlio di Dio, proprio in Paradiso? 

In maniera molto semplice, si potrebbe dire che il “capofamiglia” rimanga pur sempre tale! Troviamo una conferma di questo, in un episodio della vita di Suor Consolata Bertrone, verificatosi subito dopo la morte del suo babbo. La clarissa cappuccina, così racconta:

“Babbo mio era morto. -Ebbene, mi dissi, lo sostituirà San Giuseppe!- E mi affidai a lui, eleggendolo per mio padre. Una soave visione internamente venne a rallegrare la mia anima: la Madonna e San Giuseppe! -Che cos’hai, Consolata, che sei così mesta?- O San Giuseppe, babbo è in Purgatorio e Gesù non vuole liberarlo sino a sabato mattina. -Vedrai, lo libererà domani, Venerdì Santo- Ma Gesù non vuole, l’ho già pregato tanto! -Oh, Gesù lo comando io (mi disse sorridendo) e domani tuo babbo sarà liberato, te lo prometto…-”

E fu proprio una visione del babbo, il giorno successivo, a far capire a Consolata, che la promessa era stata mantenuta!

L’episodio -sebbene si tratti di una visione “privata”- è quantomai significativo, testimonia la completa armonia tra i due sposi, che riporta alla mente quella manifestata al momento del ritrovamento di Gesù al tempio, sebbene qui, i ruoli, si “invertano”.

Stavolta è Maria ad essere silenziosa, ma proprio con il suo silenzio, dimostra una perfetta concordanza di intenti con il suo sposo, il quale -a sua volta- sottolinea con le sue parole bonarie (sorride, mentre parla!), l’intima unione con Gesù. 

Il “capofamiglia” sa di poter “comandare” al proprio figlio…anche se si tratta del Figlio di Dio! E’ la legge dell’amore, che fa obbedire un Figlio ai giusti comandi del padre..anche se Padre Putativo! E questo perché, in Paradiso, i Santi (come lo è San Giuseppe) altro non possono che desiderare la volontà di Dio…

Dunque, avviamo il mese mariano invocando l’aiuto e la protezione di San Giuseppe della Vergine Maria: come la Vergine è considerata la “mediatrice di tutte le grazie”, il suo sposo è, oltre che “uomo di contemplazione e di sogni celesti, uomo d’azione; pronto nell’operare in obbedienza a Dio, e nel sovvenire a quanti gli sono affidati.”

Santa Teresa d’Avila disse: “Ad altri santi sembra che Dio abbia concesso di soccorrerci in questa o in quell’altra necessità, mentre ho sperimentato che il glorioso S. Giuseppe estende il suo patrocinio su tutte”.

E stiamo pur certi che, se rivolgiamo le nostre preghiere al padre putativo di Gesù, sarà lui stesso a condurre le nostre richieste alla Vergine, ed entrambi, si faranno nostri amorevoli intercessori presso Gesù!

 

Buon mese mariano a tutti!

 

 

1 MAGGIO: SAN GIUSEPPE LAVORATORE – Intervista a p. Angelo Catapano

 

1° maggio, festa dei lavoratori, ma anche festa di San Giuseppe lavoratore. A San Giuseppe si ispira la Congregazione dei Giuseppini del Murialdo, fondata da San Leonardo Murialdo, insieme con l’altra dei Giuseppini cosiddetti di Asti. Dei Giuseppini del Murialdo fa parte padre Angelo Catapano che è direttore del Centro Studi san Giuseppe ed è responsabile delle riviste “Vita giuseppina” e “La voce di San Giuseppe”. A padre Catapano, Giovanni Peduto della Radio Vaticana ha chiesto innanzitutto quale lavoro facesse san Giuseppe, che qualche volta viene definito falegname, altre volte carpentiere:

**********
R. – I termini che usano i Vangeli di Matteo e di Marco, sono dal greco “tecton”, in latino “faber” e poi tradizionalmente, nei secoli passati, si parlava piuttosto di falegname. Oggi si usa di più la traduzione “carpentiere”, proprio perché è un termine un po’ più ampio, generico, che comprende anche il lavoro del falegname, ma potrebbe essere anche fabbro: in qualche modo, chi costruisce. Ed è bello e simpatico già immaginare questo. Dobbiamo anche pensare, poi, che si trattava di un piccolo villaggio, Nazareth, dove i lavori non potevano essere così precisi.

D. – In questo lavoro, era aiutato da Gesù?

R. – Sicuro. Tant’è che il Vangelo stesso dice ad un certo punto: non è lui il figlio del falegname? Addirittura, gli si dice: non è lui il carpentiere? Effettivamente, Gesù ha passato tanti anni accanto a Giuseppe in quella bottega di Nazareth, in quella vita nascosta che ha una sua importanza, non solo come esempio per l’umiltà, ma anche per l’elevazione del lavoro ad una dignità che non è solo umana ma diventa a quel punto ‘divina’. Giuseppe ha educato Gesù, l’ha istruito nel lavoro, ma anche un poco alla volta, passando gli anni, da educatore si è fatto discepolo di Gesù e si è messo alla sua scuola. E lui ha imparato ed è stato istruito da Gesù!

D. – Qual è il senso cristiano del lavoro che ci viene oggi da questa festa?

R. – Questa festa del primo maggio ha bisogno di un rilancio. Nei lunghi anni del suo Pontificato, Giovanni Paolo II non ha perso occasione per incontrare in questa circostanza il mondo del lavoro. E’ per tutta la Chiesa un motivo di riincontrare il mondo del lavoro, i problemi di oggi, e non vederlo soltanto come una questione qualunque, perché il lavoro è la chiave, come ha detto Papa Wojtyla, della questione sociale.

D. – San Giuseppe è stato il custode del Redentore. Nel lavoro si può quindi chiedere anche la sua intercessione …

R. – Certo. E’ il modello, il patrono dei lavoratori. D’altra parte, l’opera che il nostro santo svolge accanto a Gesù nel mondo del lavoro accompagna quell’opera che Gesù Cristo stesso farà nella sua vita pubblica: l’opera della Redenzione, perché Gesù viene ad operare. E noi ci auguriamo che, insieme con la benedizione di San Giuseppe, ci sia anche – ed è di buon auspicio – il nuovo Papa, Benedetto, che porta nel nome di battesimo il nome stesso di San Giuseppe.

Ecco perché il primo maggio è anche
la festa dei lavoratori

Primo maggio : storia, origini e tradizioni

 

La Festa dei lavoratori, o meglio la Festa del lavoro, è una festività che annualmente viene attuata per ricordare l´impegno del movimento sindacale ed i traguardi raggiunti in campo economico e sociale dai lavoratori. La festa del lavoro è riconosciuta in molte nazioni del mondo ma non in tutte. Più precisamente, intende ricordare le battaglie operaie per la conquista di un diritto ben preciso: l´orario di lavoro quotidiano fissato in otto ore. Tale legge fu approvata nel 1866 nell´Illinois, (USA), la Prima Internazionale richiese che legislazioni simili fossero approvate anche in Europa. Convenzionalmente, l´origine della festa viene fatta risalire ad una manifestazione organizzata negli Stati Uniti dai Cavalieri del lavoro a New York il 5 settembre 1882. Due anni dopo, nel 1884, in un´analoga manifestazione i Cavalieri del lavoro approvarono una risoluzione affinché l´evento avesse una cadenza annuale. Altre organizzazioni sindacali affiliate alla Internazionale dei lavoratori – vicine ai movimenti socialista ed anarchico – suggerirono come data della festività il Primo maggio. Ma a far cadere definitivamente la scelta su questa data furono i gravi incidenti accaduti nei primi giorni di maggio del 1886 a Chicago (USA) e conosciuti come rivolta di Haymarket. Questi fatti ebbero il loro culmine il 4 maggio quando la polizia sparò sui manifestanti provocando numerose vittime. L´allora presidente Grover Cleveland ritenne che la festa del primo maggio avrebbe potuto costituire un´opportunità per commemorare questo episodio. Successivamente, temendo che la commemorazione potesse risultare troppo in favore del nascente socialismo, stornò l´oggetto della festività sull´antica organizzazione dei Cavalieri del lavoro. La data del primo maggio fu adottata in Canada nel 1894 sebbene il concetto di Festa del lavoro sia in questo caso riferito a precedenti marce di lavoratori tenute a Toronto e Ottawa nel 1872. In Europa la festività del primo maggio fu ufficializzata dai delegati socialisti della Seconda Internazionale riuniti a Parigi nel 1889 e ratificata in Italia soltanto due anni dopo. In Italia la festività fu soppressa durante il ventennio fascista – che preferì festeggiare una autarchica Festa del lavoro italiano il 21 aprile in coincidenza con il Natale di Roma – ma fu ripristinata subito dopo la fine del conflitto mondiale, nel 1945. Nel 1947 fu funestata a Portella della Ginestra (Palermo) quando la banda di Salvatore Giuliano sparò su un corteo di circa duemila lavoratori in festa, uccidendone undici e ferendone una cinquantina.

Edda Cattani1° Maggio: un insieme di ricorrenze
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Ricordi di guerra.

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Oggi 25 Aprile, fra i ricordi di guerra, riteniamo che il migliore saluto possa essere costituito dal seguente brano tratto da «Centomila gavette di ghiaccio» di G. Bedeschi – Ed. Mursia, 1963 – e che ricorda l’ingresso dell’Autore a far parte di una divisione alpina.

Erano soldati al pari di ogni altro, gli alpini della Julia; solamente, come tutti gli alpini, portavano uno strano cappello di feltro a larga tesa, all’indietro sollevata e in avanti ricadente, ornato di una penna nera appiccicata a punta in su sul lato sinistro del cocuzzolo.
Nelle intenzioni allusive di chi la prescrisse, la penna doveva essere d’aquila; ma in effetto gli alpini, ignari d’ogni complicazione e spregiatori d’ogni retorica, collocavano sopra l’ala penne di corvo, di gallina, di tacchino e di qualunque altro pennuto in cui il buon Dio. facesse imbattere lungo le vie della guerra, nere o d’altro colore purché fossero penne lunghe e diritte e stessero a indicare da lontano che s’avanzava un alpino.
In pratica, la penna sul capello resisteva rigida e lustra per poco tempo, ben presto si riduceva a un mozzicone malconcio, e qui cominciavano tutti i guai degli alpini che facevano la guerra: perché, a osservarli da vicino, si capiva subito che in pace e in guerra gli alpini potevano distaccarsi da tutto meno che dal loro cappello per sbilenco e stravolto che fosse: anzi!
E’ un tutt’uno con l’uomo, il cappello; tanto che finite le guerre e deposto il grigioverde, il cappello resta al posto d’onore nelle baite alpestri come nelle case, distaccato dal chiodo o levato dal cassetto con mano gelosa nelle circostanze speciali, ad esempio, per ritrovarsi tra alpini o per imporlo con ben mascherata commozione sul capo del figlioletto o addirittura dell’ultimo nipote per vedere quanto gli manca da crescere e se sarà un bell’alpino; bello poi, a questo punto, significa somigliante al padre o al nonno, che è il padrone del cappello.
C’è una ragione naturalmente, per tutto ciò; ce ne sono molte. La prima è che dal momento in cui il magazziniere lo sbatte in testa al bocia giunto dalla sua valle alla caserma, il cappello fa la vita dell’alpino: sembra una cosa da niente, a dirlo, ma mettetevi in coda a un mulo e andate in giro a fare la guerra, e poi saprete. Vi succede allora di vedere che col sole, sia anche quello del centro d’Africa, l’alpino non conosce caschi di sughero o altri arnesi del genere, ma tiene in testa il suo bravo cappello di feltro bollente, rivoltandolo tutt’al più all’indietro affinché l’ala ripari la nuca, e l’ampia tesa dinanzi agli occhi non dia l’impressione di soffocare; con la neve, da tetto unico e solo per l’alpino che va sui monti.
Posto in bilico fra naso e fronte quando l’alpino è sdraiato a dormire al sole e all’aria ed ha per letto le pietre o il fango, con la piccola striscia d’ombra che fa schermo sugli occhi è quanto resta dei ricordi di casa, è il cubicolo minimo che protegge soltanto le pupille, ma col raccolto tepore fa chiudere le palpebre sul sogno del morbido letto lontano, della stanza riparata e delle imposte serrate a far più fondo il sonno.
E se l’alpino ha sete, una sapiente manata sul cocuzzolo ne fa una coppa, buona per attingere acqua quando c’è ressa attorno al pozzo o balza un istante fuori dei ranghi, durante le marce, verso il vicino ruscello; eccellente perfino a raccogliere, dicano quel che vogliono il capitano e il medico, la pasta asciutta e addirittura la minestra in brodo nei casi in cui l’ultima latta finisce i suoi servigi sotto una raffica di mitraglia.
E’ tanto amico e compagno, il cappello, che gli si farebbe un torto a sostituirlo con l’elmetto, in trincea; nessuno dice che il feltro ripari dalle pallottole più che l’acciaio, siamo d’accordo, ma è proprio bello averlo in testa a quattro salti dai nemici, ci si sente più alpini, e pare che il fischio rabbioso debba passare sempre due dita in là, per non bucarlo; è così che dall’altra parte il nemico vede spuntare dalla trincea quel cappello curioso e quella penna mal ridotta che, a vederla riaffiorare sempre da capo per quanto si spari e si tempesti, sembra che venga a fare il solletico sotto il mento, e viene voglia di scaraventarle addosso l’inferno e farla finita una buona volta, ma fa anche pensare: accidenti, non mollano proprio mai, questi maledetti alpini!
E’ tutto così, insomma; di cappelli e di uomini ne esistono centomila tipi a questo mondo, ma di alpini e di cappelli come il loro ce n’è una specie sola, che nasce e resta unica intorno ai monti d’Italia. Ci vuole pazienza, bisogna venderli come sono, come il buon Dio li ha voluti, l’uno e l’altro; e se a volte sembra che tutti e due si diano un po’ troppe arie per via di quella penna, bisogna concludere che non è vero, prova ne sia che spesso quel cappello lo si fa usare perfino da paniere per metterci dentro le sei uova o magari le patate ancora sporche di terra, come se fosse la sporta della serva; bisogna pensare che tante volte sta a galla su un mucchio di bende e non calza più perchè la testa del padrone, sotto, s’è mezza sfasciata per fare il suo dovere.
Bisogna anche sapere che quel cappello, a guardarlo, dice giovinezza per tutto il tempo della vita, e a calcarselo di nuovo un po’ di traverso fra i due orecchi col vecchio gesto spavaldo, gli anni calano che è un piacere; e alla fine, quando non è proprio più il caso di piantarlo sulla testa, vuol dire che l’alpino ormai è morto, poveretto; e quasi sempre, mandriano o ministro che sia, se lo fa ancora mettere sopra la cassa e sta a dire che chi c’è dentro era, in fondo, un buon uomo, allegro, in gamba, con un fegato sano e un cuor così; sta a dire che, morto il padrone, vorrebbe andargli dietro ma invece resta in famiglia, per ricordo; e che ormai, se non riesce neppure lui a ridestare l’alpino disteso, non esiste più neppure un filo di speranza, fino alla fanfara del giudizio universale non lo risveglia e lo scuote più nessuno: c’è un alpino di meno sulla terra.
A non voler contare il figlio che polpacciuto e tracagnotto, brontolone e testardo com’è, vien su tal quale il suo padre buonanima; e già al passo si vede che sta crescendo giorno per giorno «penna nera» senza fallo.
Come ai loro tempi erano suo padre e suo nonno, e tutti i maschi di casa, in fin dei conti; tutti alpini spaccati, figli della montagna dura e selvosa che dà la vita e la toglie a piacimento, o la regala al piano per germinarne altra; inesauribile, essa che è pietra e vento, impasta quindi i suoi uomini di durezza e di sogno.
Nascono e crescono così dal suo grembo, come gli abeti, le «penne nere»; che per la loro terra e l’intero mondo sono poi gli alpini; gli alpini d’Italia.

GIULIO BEDESCHI

 

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Coraggio e fermezza

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CORAGGIO E FERMEZZA

(dalle pagine degli anni precedenti)

 

Vengo da una generazione in cui nelle scuole, per imparare a scrivere, non si usava il computer, ma penna e calamaio … ed infine la pagina veniva ‘asciugata’ con la ‘carta assorbente’.  In questa rimanevano i caratteri fondamentali con un po’ di inchiostro in eccesso.  Anche nella vita si può essere ‘carta assorbente’ di ciò che di ‘fondamentale’ viene rilevato nella nostra quotidianità, perché questo può insegnarci a vivere. Io penso proprio di essere una di queste in quanto sono sempre stata  ‘carta assorbente’ nell’ ascoltare e cercare di rilevare dalle parole degli altri quanto occorre nella mia meditazione e riflessione quotidiana per crescere interiormente. Non si tratta perciò di fare ‘copia e incolla’ ma di estrapolare da una frase quel succo, quel messaggio profondo, che porta ad un cambiamento nelle opinioni e, pertanto, mi è di aiuto.

 

Questa mattina, dell’occhiello dell’articolo nella mia pagina di vita metto quanto ha detto il Presidente  nel discorso del 25 aprile, giorno della Resistenza (e la parola può essere tutto un programma) dopo aver deposto la corona di alloro all’altare della Patria:

“… abbiamo molto da imparare sul modo di affrontare i momenti cruciali: coraggio, fermezza…” ed ha aggiunto: “Dobbiamo fare tutti la nostra parte con realismo, consapevolezza, senso di responsabilità…”

 

A queste parole mi aggancio con quanto ha detto, Papa Francesco nell’udienza del mercoledì: “Il cristiano che tiene nascosti i suoi doni non è un cristiano. La storia della Chiesa è una storia d’amore perché alla fine saremo giudicati sulla carità.”

 

Unisco le due asserzioni… ed eccone la mia riflessione:

 

La vita ci mette sempre davanti a delle scelte e a secondo della strada intrapresa la nostra vita acquista il suo significato ed il suo peso.

 

Mi sembra inutile e superfluo aggiungere che dovremmo nelle nostre pur sempre infinite possibilità avere il coraggio giusto di percorrere la strada che porta ai nostri sogni.. non sempre ci si riesce è questo è un limite imposto dalle nostre paure e dalla nostra poca voglia di ricominciare a mettersi in gioco.

 

Ma la vita è fatta anche di questo, di azzardo, imprevedibilità coraggio, spontaneità ecc. tutti requisiti che perdiamo per strada e che dovremmo riacquistare se vogliamo vivere con la consapevolezza  di aver vissuto in pienezza.

 

Che cos’è, in fondo, una scelta di vita? Si tratta semplicemente di una decisione che non riguarda un aspetto particolare e limitato di noi, ma la nostra intera esistenza. Quel che non comprendiamo è che spesso le scelte di vita sono piccole catene di decisioni, apparentemente di poco valore, che trasformano la nostra vita giorno dopo giorno.

 

Ogni scelta, per quanto piccola possa sembrare, indica la strada che abbiamo deciso di seguire, ciò che riteniamo giusto o sbagliato e rafforzano questa consapevolezza interiore ogni giorno. Magari consideriamo queste piccole scelte insignificanti, ma ogni giorno esse rafforzano le convinzioni che poi ci guidano anche in decisioni molto più rilevanti.

 

Una scelta di vita non passa solo nei grandi momenti, ma soprattutto in quelli piccoli, quelli in cui, cioè, si forma la nostra forza, la nostra sicurezza, ciò a cui attingeremo nei momenti in cui la decisioni da prendere saranno determinanti ai nostri occhi. In realtà, proprio quando crediamo di scegliere la direzione in cui andare, non faremo che confermare quella che, ogni giorno in modo quasi invisibile, abbiamo già scelto.

 

La miglior scelta di vita possibile è l’amore: amare come modo di vivere è la decisione che tutti dovremmo prendere, che tutti dobbiamo compiere se vogliamo una vita felice, ricca di senso e valore, degna di essere vissuta. Imparare ad amare è così una decisione che trasforma la nostra vita, e non è una di quelle che ci appaiono monumentali, anzi, essa è fatta quasi soltanto di piccole scelte, decisioni quotidiane che ci indirizzano verso l’amore.

 

Amare è una scelta di vita che passa dall’ascolto sincero ad un amico, dal complimento onesto ad un collega, dal perdonare una svista al mio compagno, al dare fiducia a chi abbiamo di fronte. Possiamo fare queste cose ogni giorno, spesso in modo decisamente silenzioso, senza squilli di tromba, ma queste decisioni sono le fondamenta di una scelta di vita che cambia il nostro mondo, pur senza troppo clamore.

 

Alla fine vivere significa scegliere di amare. Tutto qui, senza trofei da ritirare o premi da mettere nel curriculum. Forse non riempiremo pagine di giornale o non avremo un sedile d’onore al prossimo concerto di capodanno, ma fare dell’amore la nostra scelta di vita renderà la nostra vita ricca come nulla al mondo potrebbe fare.

 

 

Non lascio che neanche un singolo fantasma del ricordo

svanisca con le nuvole,

ed è la mia perenne consapevolezza del passato

che causa a volte il mio dolore.

Ma se dovessi scegliere tra gioia e dolore,

non scambierei i dolori del mio cuore

con le gioie del mondo intero.

 

Kahlil Gibran “Self-Portrait”

 

 

 

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La luce della Resistenza

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La Resistenza e la sua luce

(P.Paolo Pasolini)

Così giunsi ai giorni della Resistenza
senza saperne nulla se non lo stile:
fu stile tutta luce, memorabile coscienza
di sole. Non poté mai sfiorire,
neanche per un istante, neanche quando
l’Europa tremò nella più morta vigilia.
Fuggimmo con le masserizie su un carro
da Casarsa a un villaggio perduto
tra rogge e viti: ed era pura luce.
Mio fratello partì, in un mattino muto
di marzo, su un treno, clandestino,
la pistola in un libro: ed era pura luce.
Visse a lungo sui monti, che albeggiavano
quasi paradisiaci nel tetro azzurrino
del piano friulano: ed era pura luce.
Nella soffitta del casolare mia madre
guardava sempre perdutamente quei monti,
già conscia del destino: ed era pura luce.
Coi pochi contadini intorno
vivevo una gloriosa vita di perseguitato
dagli atroci editti: ed era pura luce.
Venne il giorno della morte
e della libertà, il mondo martoriato
si riconobbe nuovo nella luce…
Quella luce era speranza di giustizia:
non sapevo quale: la Giustizia.
La luce è sempre uguale ad altra luce.
Poi variò: da luce diventò incerta alba,
un’alba che cresceva, si allargava
sopra i campi friulani, sulle rogge..
Illuminava i braccianti che lottavano.
Così l’alba nascente fu una luce
fuori dall’eternità dello stile…
Nella storia la giustizia fu coscienza
d’una umana divisione di ricchezza,
e la speranza ebbe nuova luce.

Pier Paolo Pasolini

 

Edda CattaniLa luce della Resistenza
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La Casa Comune

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Perle di saggezza indiana

Ancor prima di Papa Francesco…

Vi e’ molto di folle nella vostra cosiddetta civilta’. Come pazzi voi uomini bianchi correte dietro al denaro,  fino a che non ne avete così tanto, che non potete vivere abbastanza a lungo per spenderlo.  Voi saccheggiate i boschi e la terra,  sprecate i combustibili naturali,  come se dopo di voi non venisse piu’ alcuna generazione, che ha altrettanto bisogno di tutto questo.  Voi parlate sempre di un mondo migliore, mentre costruite bombe sempre piu’ potenti, per distruggere quel mondo che ora avete.  (Bufalo che Cammina, Stoney)

«Laudato si’, mi’ Signore», cantava san Francesco d’Assisi. In questo bel cantico ci ricordava che la nostra casa comune è anche come una sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, e come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba».

Questa sorella protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi. Per questo, fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e devastata terra, che «geme e soffre le doglie del parto» (Rm 8,22). Dimentichiamo che noi stessi siamo terra (cfr Gen 2,7). Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora.

(da Laudato sì del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune)

 

 

 

Edda CattaniLa Casa Comune
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La chiesa del “grembiule”

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La chiesa del “grembiule”

 

Ancora oggi, a distanza di tanti anni, la personalità, la testimonianza e gli innumerevoli scritti di Don Tonino, rimangono fonte inesauribile di ammirazione ed ispirazione. La freschezza del suo linguaggio, la vicinanza ai bisogni dell’uomo e soprattutto degli ultimi e la volontà di superare la monotonia dell’ovvio rappresentano un patrimonio di valori da trasmettere e soprattutto da incarnare nel nostro tempo.

 

Vediamo un tratto delle sue parole a commento del Vangelo:

 

“…Io amo parlare della chiesa del grembiule che è l’unico paramento sacro che ci viene ricordato nel Vangelo. ‘Gesù si alzò da tavola, depose le vesti si cinse un asciugatoio’, un grembiule l’unico dei paramenti sacri. Nelle nostre sacrestie non c’è e quando uno viene ordinato sacerdote gli regalano tante altre belle cose, però il grembiule nessuno glielo manda. E’ il grembiule che ci dobbiamo mettere come chiesa, dobbiamo cingerci veramente il grembiule. Sapete che significa ‘Si alzò da tavola?’ Significa che se noi non partiamo da qui, dall’altare, da una vita di preghiera è inutile che andiamo a chiacchierare di pace. Chi ci crede ? Non siamo credibili, se non siamo credenti. E credere significa abbandonarsi a Cristo, non significa soltanto accettare le Sue parole, le Sue verità. Quindi, anche noi, se vogliamo parlare di pace e di carità dobbiamo alzarci da tavola…”

 

Parole innovative, ancora oggi, che il Servo di Dio ci propone e l’indossare il “grembiule”  significa aprirsi al dialogo con i fratelli anche delle diverse confessioni religiose, facendo in modo che la parola del Signore non diventi una barriera di divisione o uno scudo difensivo bensì un mezzo di unione e di apertura all’altro.

 

Lo sentiamo perciò anche vicino al nuovo Papa che ha fatto sua questa prerogativa, scegliendo il nome Francesco come segno di un ritorno al Vangelo e simbolo di partecipazione e carità. D’altro canto, il proposito di una istituzione ecclesiastica povera, amante de poveri non è una scelta demagogica ma evangelica. Condivisa in principio da don Tonino, oggi la Chiesa deve anche essere serva perché non rappresenta l’assoluto ma deve essere subordinata all’assoluto, cioè a Dio, un Dio che “serve” in quanto si manifesta come “servitore” nostro (pensiamo alla lavanda dei piedi prima dell’ultima Cena).  Probabilmente l’ammirazione e la vicinanza fraterna all’attuale Vescovo di Roma scaturisce dal fatto che rappresenti appieno il volto visibile di quella che don Tonino ha definito Chiesa del “grembiule”.

 

 

In occasione delle celebrazioni si è anche pubblicata un’opera: “UNA Croce con le ali” che nasce dalla lettura e dall’analisi approfondita del ricco ed articolato patrimonio di scritti lasciato in eredità da don Tonino Bello e pubblicato in sei volumi con l’edizione diocesana “Luce e Vita”.

 

La sfida di tradurre in drammaturgia gli scritti di don Tonino ha comportato la selezione dei tanti testi e l’adattamento degli stessi alla messa in scena. Aderenza alle Sacre Scritture e fedeltà assoluta alle sue parole sono state le linee metodologiche seguite, unitamente alla ‘licenza’ di ricodificare alcuni scritti in una diversa tipologia testuale.

 

Attraverso la sinergica combinazione di ogni forma d’arte, dalla poesia al teatro-danza, dall’immagine alla grafica con effetti multimediali, dalla composizione musicale alle combinazioni vocali e sonore, i testi prendono vita in dieci quadri scenici incentrati su altrettante tematiche ‘Forti’ del suo appassionato apostolato.

L’incontro con gli “ultimi” e l’icona della “Chiesa del grembiule”; Maria e la centralità della Croce; l’impegno attivo ed infaticabile contro la guerra e contro ogni forma di violenza; la pace e la cultura non violenta; la “mistica arte” della politica; l’emergenza dello sbarco degli albanesi; la “marcia dei cinquecento” a Sarajevo: questi alcuni tra i temi trattati nell’opera.

 

Infine, affinché questa commemorazione non rimanga sterile esposizione ricordiamo la parte conclusiva di Don Tonino in “PER COLORO CHE NON TROVANO PACE”:

 

“…E ora, visto che mi sono messo ad assicurare preghiere un po’ per tutti, vorrei rivolgermi anche a voi che, pur non essendovi mai allontanati da Dio, non riuscite ugualmente a trovar riposo nella vostra vita.

Per sè parrebbe un controsenso. Perché Dio è la fontana della pace, e chi si lascia da lui possedere non può soffrire i morsi dell’inquietudine. Però sta di fatto che, o per difetto di affido alla sua volontà, o per eccesso di calcolo sulle proprie forze, o per uno squilibrio di rapporti tra debolezza e speranza, o chi sa per quale misterioso disegno, è tutt’altro che rara la coesistenza di Dio con l’insoddisfazione cronica dello spirito.

Mi rivolgo perciò a voi, icone sacre dell’irrequietezza, per dirvi che un piccolo segreto di pace ce l’avrei anch’io da confidarvelo.

 

A voi, per i quali il fardello più pesante che dovete trascinare siete voi stessi. A voi, che non sapete accettarvi e vi crogiolate nelle fantasie di un vivere diverso. A voi, che fareste pazzie per tornare indietro nel tempo e dare un’altra piega all’esistenza. A voi, che ripercorrete il passato per riesaminare mille volte gli snodi fatali delle scelte che oggi rifiutate. A voi, che avete il corpo qui, ma l’anima ce l’avete altrove. A voi, che avete imparato tutte le astuzie del «bluff» perché sapete che anche gli altri si sono accorti della vostra perenne scontentezza, ma non volete farla pesare su nessuno e la mascherate con un sorriso quando, invece, dentro vi sentite morire. A voi, che trovate sempre da brontolare su tutto, e non ve ne va mai a genio una, e non c’è bicchiere d’acqua limpida che non abbia il suo fondiglio di detriti.

 

A tutti voi voglio ripetere: non abbiate paura. La sorgente di quella pace, che state inseguendo da una vita, mormora freschissima dietro la siepe delle rimembranze presso cui vi siete seduti.

Non importa che, a berne, non siate voi. Per adesso, almeno.”

Ma se solo siete capaci di indicare agli altri la fontana, avrete dato alla vostra vita il contrassegno della riuscita più piena. Perché la vostra inquietudine interiore si trasfigurerà in «prezzo da pagare» per garantire la pace degli altri.

 

O, se volete, non sarà più sete di «cose altre», ma bisogno di quel «totalmente Altro» che, solo, può estinguere ogni ansia di felicità.

Vi auguro che stasera, prima di andare a dormire, abbiate la forza di ripetere con gioia le parole di Agostino, vostro caposcuola:

 

«O Signore, tu ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te».

 

 

 

 

 

 

Edda CattaniLa chiesa del “grembiule”
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Gli animali hanno un’anima?

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Ricevo da comuni amici la partecipazione per la perdita dei loro amici animali… Ripropongo allora queste storie vere… e anche qualcosa di più

 

Gli animali hanno un’anima?

Era il 25 settembre 1989. Lo ricordo benissimo perché ero tornata a casa dal lavoro molto provata. Oltre alla stanchezza per i numerosi impegni, un mio collaboratore era stato ricoverato con una sindrome che lasciava poco ben sperare e la cosa mi aveva lasciato confusa ed addolorata.

Loro, Andrea e Vanessa, erano in camera con un batuffolo di pelo rosso in mano che, a stento, riuscivano a trattenere. Ridevano i miei ragazzi cercando di nasconderlo fra le coperte del letto. “Un gatto in casa? Non ne abbiamo avuto abbastanza dell’altro? Non se ne parla nemmeno. Portatelo via subito!”

Ricordavo di avere cambiato da poco tende e tappezzeria dopo che era scomparso e finito non so dove un altro esemplare della specie che, un mattino, dopo essere stato la notte in giardino, non aveva fatto ritorno.

Tutto sommato mi ero affezionata a quella presenza, come al cricetino Tino, agli uccellini, alle tartarughe, al pesce rosso e, poiché uno alla volta se ne erano andati tutti, lasciando in me, dal momento che ero costretta ad accudirli, una naturale amarezza,  avevo giurato a me stessa: “Mai più bestie in casa mia!”

Invece non c’era stato nulla da fare. Andrea diceva che “quel pallottolino” gli si era attaccato ai calzoni mentre passava da una strada dove era abbandonato e che era stato proprio lui a sceglierlo.

Così dovetti abituarmi al nuovo giro: tende da rifare, poltrone sdrucite, tappeti e moquette da ripiegare. A dire il vero ci provai a trovargli un padrone, ma Andrea, appena lo seppe, se l’andò a riprendere trattando anche male la persona che si era offerta di tenerlo.

Lo chiamavano Pub Music, i miei ragazzi, o meglio Pelo Rosso, Mix e tante altre cose, giocando con lui che sembrava veramente aver trovato il suo ambiente ideale. A dire il vero sapeva comportarsi bene: non sporcava in casa, era regale e rispettoso ad un tempo, ma quando vedeva Andrea impazziva. Facevano corse, si arrotolavano sul pavimento, saltavano di qua e di là.

La sera Mix scendeva in giardino e risaliva il mattino. Quando mi affacciavo alla finestra e tiravo su la tapparella lo vedevo sotto, con gli occhioni verdi spalancati: “meo, meo, meo…”, scendevo le scale e lo portavo su. Ormai mi ero rassegnata a quell’intruso, come avevo fatto le altre volte. Era un compito mio. In questo mi aiutava anche Elena che faceva colazione con lui sulle ginocchia, dandogli qualche pezzetto di plumcake; così Mix divenne il gioco di tutti.

Ogni sera, al cancello aspettava i suoi padroni: prima arrivava Elena dal lavoro e saliva le scale con lei, poi tornava sotto con Andrea e con lui andava in fondo al viottolo, dove c’erano i ragazzi della “compagnia” e si strusciava sulle gambe di tutti. Era divenuto il boss dei paraggi, ormai: un bel gattone rosso “da pubblicità”. Tutti conoscevano il gatto di Andrea e lui sapeva farsi rispettare ed accarezzare da coloro di cui si fidava.

Poi Elena andò via di casa e Mix l’aspettò invano. Una sera, dopo diverso tempo, la vide arrivare e le corse incontro con tanta gioia che si incespicava dappertutto e addirittura, mentre la seguiva, per l’emozione, se la fece addosso. Lei rideva e anch’io a dire il vero, ero commossa nel vedere la capacità di ricordare e di sentire di una bestiola che, in fondo, era pur sempre un animale “senz’anima”…

Andrea però era ancora in famiglia ed ogni sera, verso le undici, come un orologio, il gatto rosso si appostava sul cancello di casa e lo aspettava. Freddo, pioggia o neve non lo smuovevano; al suo arrivo, veniva di sopra con lui e andavano a letto insieme. Dormiva ai suoi piedi o intorno al suo collo.

Era commovente vederli abbracciati. Non posso dimenticare quei quadretti “da poster”: un ragazzone bruno con un peluche rosso fiamma intorno al viso, attorcigliato come una ciambella.

Poi Andrea partì per il servizio militare e furono lunghi mesi di attesa: ogni sera ad aspettarlo al cancello, finché un pomeriggio, mentre faceva la siesta sull’erba del prato, lo vide sopraggiungere dal viottolo, in fondo. Arrivava dalla stazione il mio Andrea, in congedo per la sua prima licenza. Chi si accorse del suo arrivo fu proprio lui, il gatto Mix o Pelo Rosso che, in quattro balzi, gli fu accanto e gli saltò addosso. Andrea rideva e lo accarezzava, così pure erano commossi gli altri ragazzi della compagnia, accorsi dal circondario, per aver saputo della sua venuta.

Andrea era partito con le scarpe da tennis, la maglietta e i calzoni di jeans ed era tornato in divisa, ma Mix lo sentiva ugualmente come il suo, solo padrone ed amico e, in quel rapporto univoco, c’erano tutti i loro giochi, le loro intese, i loro complotti, il loro scambiarsi affettuosità esclusive.

Così continuò la storia finché Andrea fu assegnato al corpo della scuola Trasporti e Materiali di Padova ed essendo stato nominato ufficiale capo della Regione Nord Est, poteva tornare a casa a dormire tutte le sere.

Dalle undici a mezzanotte, una palla di pelo rosso stanziava vicino al cancello di casa, ogni sera, attendendo l’arrivo dell’amico; con lui saliva e con lui scendeva il mattino alle cinque quando Andrea si recava in caserma per l’alzabandiera.

Ma una sera, era il 5 dicembre 1991, Andrea non tornò a casa e Mix lo attese invano. Lo attese a non finire, incurante del tempo e dell’avanzare degli anni, ogni sera, alla stessa ora.

I primi tempi, io, sempre di corsa e affannata per il mio dolore, non avevo altro luogo dove dare sfogo al mio pianto irrefrenabile che recarmi giù in garage e chiudermi dentro la macchina di Andrea, rimasta parcheggiata, per piangere liberamente, accarezzando le sue cose.

Una sera a cui seguirono tante altre sere, mi accorsi che fuori dal garage venivano tre, quattro, cinque gattini al seguito di Mix e mi guardavano silenziosi.

Così presi ad andare di sotto portando loro qualcosa da mangiare; ogni giorno, per tutti questi anni, la stessa cerimonia. Quelli del condominio cominciarono a vedermi un po’ come “la mamma dei gatti”, o meglio, a compatirmi per non avere più nessuno da accudire, se non quattro gatti randagi.

Mix sapeva bene quale fosse la sua casa, ma difficilmente saliva le scale. Viveva di sotto ormai, nel suo regno di gatti senza padrone e primeggiava su tutti. A volte lo sentivo giù, nell’ingresso lamentarsi: “ meo, meo, meo…” tre volte, mentre saliva e allora gli aprivo la porta e lui si accomodava sulla sedia della cucina dove rimaneva fino al mattino.

Non andò più in camera, non salì più su in mansarda, luogo dei giochi e delle  capriole. Elena ci regalò un persiano bianco e quindi Pelo Rosso e Pelo bianco non amarono frequentarsi: uno stava sotto, in giardino, ed uno sopra.

Sono passati otto anni quasi, da quella notte del ‘91 e mai Mix ha cessato di attendere. Poi, per lui ci sono stati un rincrudirsi di episodi che, data la condizione in cui ha vissuto, sempre di sotto in giardino, l’hanno fatto ammalare e così si è sfinito un po’ alla volta.

Ha subito tre interventi e l’ho curato con ogni tipo di medicinali, cambiando anche medico, ma un giorno dello scorso settembre, prima di partire per il 13° Convegno del Movimento della Speranza, ho capito che non c’era più nulla da fare.

L’ho messo nella gabbia, mentre lui mi guardava con i suoi occhioni verdi e tristi, povera palla spelacchiata, ormai tutto ossa, senza un lamento e l’ho lasciato dal veterinario: “Faccia lei dottore, quello che crede, ma non mi chieda cosa deve fare. Mi telefoni fra qualche giorno se riuscirà a guarirlo, altrimenti non dica nulla. Mi farò viva io.”

Passarono i giorni, ritornai da Cattolica e non ebbi il coraggio di telefonare. Capivo quel silenzio, ma speravo. Poi, sabato, 25 settembre, mentre eravamo alla Messa, alla riunione mensile della nostra ACSSS, durante la comunione, alle cinque e mezza, sentii distintamente quell’inconfondibile “meo, meo, meo..” nell’ingresso dell’istituto… Gatti non ce n’erano in quel luogo e capii che qualcosa doveva essere avvenuto.

Tornammo nel salone e mentre facevamo una registrazione, distintamente, si ripeté il miagolio… Non c’erano dubbi: un gatto, il mio Pelo Rosso, il gatto Mix di Andrea mi era accanto e non potendo esserci da vivo, voleva pur dire che in qualche modo mi aveva raggiunto.

L’avevo chiesto ad Andrea: “Aiutalo, prendilo con te… sono otto anni che ti aspetta ogni sera… E’ l’ultima cosa vivente che mi resta di te, figlio mio, ma non posso vederlo soffrire così!”

Il lunedì successivo ho telefonato al medico: “Signora, sabato scorso mi sono deciso. Non c’era più niente da fare ormai. Soffriva e null’altro. Ho fatto in modo che si addormentasse per sempre, senza soffrire”.

“L’ho saputo dottore, l’ho saputo. Alle cinque e mezza, vero?”

Ho sognato il gatto Mix che faceva salti da un divano all’altro con il suo padrone ed una grande pace è subentrata allo sconforto. Mi è caro pensare ad una palla di pelo rosso che si rotola fra le nuvole, in braccio al mio Andrea, finalmente uniti, lassù, in Paradiso.

                                                               Edda Cattani

 

Ed ora vi aggiorno su “Martino” l’ultimo arrivato in casa mia proprio il giorno di San Martino … un po’ di allegria… tante capriole, fusa, rincorse che mi facevano sorridere… Piccolo Martino, gatto rosso come un suo precedente inquilino di cui trovate la storia più sotto… ha fatto un volo troppo alto… ed ha battuto il nasino … anche lui … piccolo birichino farà le fusa con Mix, Max in braccio ad Andrea…

Ed ora la storia di “Un cavallo da corsa in un mondo senza piste”

A tutti capita di essere per lo meno una volta nella vita, cavalli da corsa in un mondo senza piste. Che vuol dire che ci sentiamo dei puro sangue in un luogo che non ci contempla. Cerchiamo le piste, vorremmo le piste, ma non ci sono, per lo meno per noi. E allora non ci resta che adattarsi al pascolo. 

I più fortunati trovano la prateria, un’unica immensa distesa dove dispiegare la propria corsa e dunque la propria libertà. Infinito e cielo. 

Ho pensato a questo sentendo di Vale, il cavallo di HELGA che se n’è andata dopo aver donato l’ultima passeggata alla sua grande amica:

 

Questa è una leggenda indiana…
THE RAINBOW BRIDGE
(il ponte dell’arcobaleno)



Questa del ponte dell’arcobaleno è un antica leggenda che si tramanda dalle tribù degli indiani d’america ed è dedicata a tutte quelle persone che soffrono per la morte di un loro caro amico e tutti gli animali che sulla terra hanno amato gli uomini. Davanti all’entrata del Paradiso c’è un luogo chiamato Ponte dell’arcobaleno per i bellissimi colori da cui è formato. Quando muore una bestiola che è stata particolarmente cara e speciale a qualcuno, questa bestiola va sul ponte dell’arcobaleno. Questo è un posto meraviglioso ci sono prati, grandi alberi, e colline verdi dove l’erba è sempre fresca e profumata per tutti i nostri amici tanto speciali e là corrono e giocano tutti insieme. C’è tanto cibo (il loro preferito) ruscelli con acqua fresca con la quale dissetarsi e il sole che splende, tutto a volontà e i nostri amici sono al caldo e stanno bene. Tutti i piccoli che erano ammalati e vecchi sono tornati ad essere in salute, giovani e pieni delle loro forze. Quelli che erano feriti e mutilati sono tornati ad essere nuovamente integri e forti, così come li ricordiamo nei nostri sogni di giorni e tempi passati. Gli animali sono felici e contenti, tranne che per una piccola cosa: ad ognuno di loro manca qualcuno di speciale, molto amato, che si sono lasciati alle spalle, indietro, lontano verso l’orizzonte. Corrono e giocano insieme, ma verrà il giorno in cui uno di loro si fermerà improvvisamente e guarderà lontano. Tutti i suoi sensi saranno all’erta, i suoi occhi splendenti, luminosi e lucidi saranno attenti, il suo corpo palpiterà e tremerà dall’emozione, per l’eccitazione e impazienza. Improvvisamente si staccherà dal gruppo, inizierà a correre sull’erba verde, le sue zampe sembreranno volare sempre più veloci sul prato. Ti ha visto e ti riconosciuto. E quando finalmente vi raggiungete, incontrerete e sarete insieme vi stringerete in un abbraccio gioioso, unico, per non separarvi mai più. Baci felici pioveranno dal tuo viso, le tue mani accarezzeranno nuovamente la testina tanto amata e potrai finalmente fissare ancora i suoi fiduciosi occhietti, stati lontani tanto tempo dalla tua vita ma mai lontani ed assenti dal tuo cuore. Allora insieme attraverserete il ponte dell’arcobaleno…

Gli animali hanno un’anima?

Dopo l’uscita dell’articolo sul libro che sottopongo alla vostra attenzione, in cui il giornalista pubblicò la storia del mio gattino Mix, ho visto soprattutto da parte dei giovani un grande interesse per questo argomento. Ho pensato perciò di pubblicare gli articoli con le mie storie personali ed altri che mi sono giunte. Ringrazio i coordinatori di:

http://it.unitedcats.com/forum/312/fl/2051/t/45008  che si sono premurati di pubblicare il mio articolo facendone gradevoli commenti. Propongo quindi, oltre alle mie,  nuove storie appena giunte ed invito, chi voglia, di inviarne altre a  edda.cattani@alice.it

 

 

Anche gli Animali Vanno in Paradiso

Storie di cani e di gatti oltre la vita

Questo libro aiuterà ad amare gli animali di più e con maggiore generosità, proprio come loro amano noi. Le testimonianze e le storie che raccoglie, scritte da famosi medium, da mistici e teologi ma anche da persone comuni, saranno di sicuro conforto per chi ha perso il proprio fedele compagno a quattro zampe. Questo libro aiuterà a ritrovare l’amico cane o gatto, a continuare ad amarlo, a parlargli, perché la vita sulla Terra non è che un passaggio che ci prepara alla vera vita.

 ANCHE GLI ANIMALI HANNO UN’ANIMA 

(espressioni di esponenti della Chiesa)

 

Padre Luigi Lorenzetti, teologo ,di Famiglia cristiana, spalanca le porte del Paradiso agli animali : “Hanno ricevuto un soffio vitale da Dio , scrive e sono attesi anch’essi dalla vita eterna”.

Paolo VI disse : “Un giorno rivedremo i nostri animali nell’eternità di Cristo”, e rivolto ai Medici Veterinari: “Vi esprimiamo il nostro compiacimento per la cura che prestate agli animali, anch’essi creature di Dio, che nella loro muta sofferenza sono un segno dell’universale stigma del peccato e dell’universale attesa della redenzione finale, secondo le misteriose parole dell’apostolo Paolo.”

Gaspare Gherardini , canonico di Santo Spirito di Roma , nella metà del Settecento affermò:
“Scopersi nella macchina degli animali un fine savissimo, un fine degnissimo della Divinità”

Papa Giovanni Paolo II nel 1990 si espresse in tali termini: “La Genesi ci mostra Dio che soffia sull’uomo il suo alito di vita. C’è dunque un soffio, uno spirito che assomiglia al soffio e allo spirito di Dio.   Gli animali non ne sono privi.”
Non sono solo animali , cioè non è solo un cane, un gatto, una tartaruga o un criceto etc.: Fanno parte del valore affettivo dell’uomo, a sua volta questo strano animale che non si arrende all’idea che tutto finisca, e che aspira all’immortalità per sé e per tutti i suoi cari.

 

Da http://www.amicianimali.it/paradiso/index.html

 Gli animali hanno un’anima? La storia del gatto Mix

Anche le piccole cose non andranno perdute. La storia di Max 

 

 

Anche le piccole cose non andranno perdute!

 

 

In questi mesi di grande calura estiva può far piacere occuparci di piccole cose che pur circondano la nostra vita e diventano importanti nei nostri affetti. Vorrei parlare dei piccoli animali, dei quali ebbi già modo di scrivere tempo fa in occasione della pubblicazione del testo “Gli animali hanno un’anima” ediz. Mediterranee.

Ebbene, in questo ultimo periodo segnato dalla sofferenza e da grandi prove che hanno mutato il volto della mia famiglia, mi sono trovata anche ad affrontare la scomparsa di Max, fedele amico della mia esistenza da oltre quindici anni.

Era un gatto bianco dal lungo pelo folto, un siamese simile a quello reclamizzato dalla Gourmet, che faceva parte del nostro contesto da quando Andrea se n’era andato. Era entrato come un dono all’interno della casa,acquistato a Milano da Elena che l’aveva notato in un cestino dentro una vetrina. Ogni sabato, venendo a casa nostra, lo portava con sé; Mentore lo prendeva con delicatezza in braccio e lo cullava come un bambino, chiamandolo: “…piccino, piccino…”.

Elena aveva capito che nella nostra solitudine quel piccolo animale avrebbe portato un po’ di calore ed un sabato finse di dimenticarlo; così Max rimase da noi. Abitavamo allora in un appartamento con mansarda e lui si divertiva a saltare dal terrazzino sul tetto per rincorrere gli uccellini. Una sera addentò un pipistrello e lo depose in camera, fra le urla di Alessandra e la meraviglia di quel piccolo essere che pensava di dimostrarle il suo affetto con quel dono prezioso.

Così Max visse i suoi anni migliori, guardando il mondo dall’alto e tentando qualche volo spericolato: una volta dal terzo piano si buttò sull’albero sottostante e non pago dell’esperienza, continuò a camminare sul davanzale guardando il giardino. Poi cambiammo casa e venimmo in questa villetta dove Max conobbe la vita vista da sotto. Potè correre nel prato, arrampicarsi sugli alberi, ma soprattutto rincorrere i gatti del vicinato che si permettevano di affacciarsi al nostro cancello. Dispotico ed esclusivista di temperamento, non tollerava nessuna intromissione nella sua proprietà, ma con noi, soprattutto con Mentore, era di una dolcezza infinita. Quando si guardavano sembravano dipendenti l’uno dall’altro e vivevano in una sorta di simbiosi che commuoveva. Era Max che aveva colmato i silenzi delle lunghe mie assenze dovute al lavoro ed era Max che accorreva sentendo il motore della macchina, al mio ritorno. Si mostrò incuriosito quando a casa nostra cominciarono a venire i piccoli Simone, Tommaso e Giulio i quali lo guardavano con altrettanto stupore e lo rincorrevano cercando di afferrarlo per la coda. Quante gare di velocità… e infine un nascondiglio sicuro, al riparo dai monelli!

E venne il tempo in cui Simone si ammalò mentre io correvo impegnata con Tommaso ormai ospite fisso a casa nostra, dove tutti cambiammo umore ed abitudini. Mentore proseguiva nel suo silenzio e nella sua amnesia, ma all’ora stabilita, non mancava di preparargli la ciotola. Io non mi accorsi che entrambi erano molto ammalati, che Max ormai beveva solo acqua e rimaneva a dormire troppo a lungo.

Quando Simone tornò dall’ospedale e anche Tommaso raggiunse la famiglia, capii che Max non era più lo stesso e decisi di portarlo in clinica. Mi dissero di lasciarlo lì perché c’erano vari esami da fare e dopo qualche giorno la diagnosi fu drastica: non vi era più funzionalità renale e poco ci sarebbe stato per farlo sopravvivere. Feci di tutto per salvarlo: lo portai a casa con iniezioni, pappe di ogni genere, cure omeopatiche… Max ormai era a pezzi, senza forze, né equilibrio. Mentore lo guardava silenzioso senza nulla chiedere. Una sera mi appoggiò la testina su una spalla e fece un lungo lamento quasi a chiedermi di lasciarlo andare. Scesi a pian terreno e gli feci una lunga toeletta: doveva essere bello per il grande salto! Poi lo fotografai con il cellulare, più e più volte; guardando le foto notai subito che intorno a lui si era formata un’aura prima verde, poi rosa, poi luminosissima. Tutto era compiuto e Max era atteso, piccola creatura, dolce ricordo della mia famiglia al completo, del mio tempo migliore. Il mattino successivo lo portai dal veterinario: “Le lascio un pezzo del mio cuore, tenga pure la cassetta, non mi serve più… “ e Max mi guardò a lungo, riconoscente per aver compreso la sua sofferenza… ma quanto strazio. Mi vergogno a dire che piansi lasciando quel piccolo battutolo peloso, ormai tutto pelo e ossa che mi guardava con i suoi incantevoli occhi tristi. Il pomeriggio pensavo: ”Dove sei piccolo Max? Forse mi starai guardando da una nuvoletta!”. In quel momento giunse un MMS da una mia amica sul cellulare: senza nulla sapere aveva scattato una immagine del cielo; era una nuvola soffice e in alto c’era la testina di Max.

Non bastò questo segno… il giorno successivo scattai una foto in giardino e sull’albero di susine, di fianco, dove si metteva Max c’era lui accovacciato.

Il mio piccolo Max, fedele amico delle pareti domestiche che hanno visto tanti mutamenti e trasformazioni, a volte gioiose, a volte dirompenti mi raggiunge ogni sera e, all’ora della pappa sento spostare la ciotola o fregare la zampina sulla poltrona e sulla mia testa. Ci sono momenti in cui mi giro sicura di vederlo perché lo sento correre, fermarsi, saltare sui mobili;  sento il suo tenue, delicato miagolio, il suo richiamo. Mentore non mi ha detto, né chiesto nulla; ora che il suo caro amico non c’è più ha rari motivi di interesse e di compagnia… solo una sera l’ho sentito mormorare: “Andrea sta bene, è in cielo che gioca con i suoi gattini”.

la testina di Max

sulla nuvoletta

ecco Max a destra

come ogni giorno

seduto sul ramo

dell’albero

il mio caro Max con me l’ultima sera insieme

      Jazz e la sua famiglia. La storia del cane Jazz

 

Jazz e la sua famiglia

 

 Vi presento jazz ,un bracco ungherese che per 11 anni ha rallegrato la nostra vita con sguardi dolci con cui ci comunicava il suo star bene insieme a noi. Anche i nostri tre gatti erano suoi amici ed era felicissimo di poter giocare con loro. Seguiva attentamente i nostri discorsi e i nostri atteggiamenti e ci faceva capire se li condivideva oppure no. Il 18 novembre scorso cominciò a manifestare inappetenza e portato dal veterinario, gli venne diagnosticato un linfoma maligno dei più devastanti, pochi mesi di sopravvivenza…. Ma il giorno 11 dicembre le sue condizioni precipitarono senza scampo e con il cuore a pezzi dovemmo percorrere quella strada che si chiama “eutanasia” (terribile esperienza). Poco tempo per renderci conto che tutto era finito, il sollievo di non vederlo più soffrire ma un immenso vuoto dentro di noi. Anche gli animali hanno un’anima e saperlo vivo in una dimensione parallela alla nostra anche se invisibile, ci dà un po’ di sollievo. Sappiamo che ogni volta che penseremo a lui c’è…… senza più sofferenze ma con grande amore; siamo stretti per sempre in un legame energetico, un filo che non viene tagliato neppure dalla morte. Ci rende sereni immaginarlo  correre e saltare nel nostro giardino che tanto amava e sicuramente continuerà a farlo insieme a noi…

                                                                               la famiglia di jazz     aldo enza helga

Gentilissima sig. Edda, ho trascritto questo breve sunto della vita di jazz, se le fa piacere farlo conoscere. La ringrazio molto della sua dolcezza e gentilezza, se per caso ha 10 min di tempo provi con il registratore e se dovesse manifestarsi e comunicarle qualcosa ci piacerebbe avere questa meravigliosa testimonianza. Ho letto il libro di Kate Solisti “Parola di cane” che con telepatia parla con loro e ne riceve le risposte perché tutti gli esseri sono partecipi della coscienza divina.

un abbraccio Enza

 

… e ci puoi credere…

“   Bu…bau…si spezza il filo per strada, ma non moriamo…. “

 

                                                                                     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                              

 

 

 

 

 

 

 

Edda CattaniGli animali hanno un’anima?
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La morte giovane

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Propongo questo documento di un grande medium, quale è tuttora Corrado Piancastelli, che vale la pena di rivisitare. E’ un laico che parla… e termina: “… In questa chiave di lettura ha ragione Teillard De Chardin quando dice che “noi non siamo esseri umani che vivono un’esperienza spirituale. Noi siamo esseri spirituali che vivono un’esperienza umana”. Sull’elaborazione del lutto io partirò da ben altro: “In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo perché noi avessimo la vita per mezzo di lui”.  (1Gv 4,9)

Sulla morte giovane


di Corrado Piancastelli

           Normalmente nei congressi di parapsicologia cerco di affrontare i problemi in chiave scientifica e i miei interventi possono anche apparire insoliti perché le persone – dal momento che sono anche un sensitivo – forse si aspettano da me racconti più o meno fantastici che non amo fare.

      Sono stato a lungo uno psicoterapeuta e come tale mi sono prevalentemente occupato di tossicodipendenze e di devianze giovanili, dei problemi legati alla droga: le sofferenze dei giovani si possono affrontare solo con metodi razionali, non con atti di fede o con invocazioni mistiche o affidandosi alla volontà di Dio. Questa esperienza ha stabilizzato la mia razionalità di fondo e mi ha trasmesso un metodo che, però, non ho mai usato in modo estremo, ma era comunque un metodo di lavoro che poi mi è servito anche nella ricerca del paranormale.

          Dalla pratica psicoterapeutica sono poi passato alla filosofia della mente e questo è il mio lavoro attuale. Ma, naturalmente, il contributo che ho dato alla parapsicologia (si pensi, per fare solo due esempi, al “Rapporto dalla Dimensione X, Colloqui con “A” e ad altri, scritti sul mio caso da Giorgio di Simone, fino al mio libro autobiografico “Il sorriso di Giano”) e il fatto di essere anche un sensitivo da quando avevo solo 15 anni, hanno inciso profondamente in tutto l’arco del mio lavoro. E’ un’intera esistenza, la mia, passata a cercare di dare alla parapsicologia qualche punto di appoggio solido. Questa modalità di lavoro, in filosofia come nelle scienze, viene rappresentata come ricerca epistemologica di un problema. Oscillando tra istinto per così dire medianico, con le sue possibilità di entrare in altri mondi e le esigenze legate ai metodi della scienza, sono diventato io stesso la maschera del Giano bifronte con la possibilità, cioè, di guardare verso lo stesso punto da due orizzonti diversi.

Credo che qualsiasi ricercatore, che sia anche filosofo, si trovi in questa situazione ambigua. Un maestro d’eccellenza quale fu Gustav Jung si trovò nella stessa situazione. Jung discorreva nel suo giardino con una voce interiore a cui aveva dato il nome di Filemone e nella vita fu un scienziato irreprensibile stimato in tutto il mondo.

“Filemone – ha lasciato scritto Jung – rappresentava una forza che non ero io [….] e mi diceva cose che io coscientemente non avevo pensato, e osservai chiaramente che era lui a parlare, non io.” […..]. “Per me era una figura misteriosa. A volte mi sembrava reale proprio come se fosse una persona viva. Passeggiavo con lui su e giù per il giardino ed era per me ciò che gli indiani chiamano un guru”.

          Dico queste cose non per ostentare un parallelismo con il grande Jung, ci mancherebbe altro, ma perché abbiate intero il quadro che fa da sfondo alla mia vita, vissuta continuamente tra dubbi, certezze e ipotesi di lavoro.

Questo tipo non facile di vita mi ha portato a dubitare e a confermare. Un’oscillazione culturale la cui lezione preziosa in tal senso, guarda caso, me l’ha data proprio il mio maestro spirituale, quell’Entità “A” per la quale il nostro lavoro umano deve consistere nel produrre continuamente domande anche se sappiamo che non a tutte possiamo dare risposte: è il lavoro principale della filosofia e della ricerca in generale e qualsiasi vero filosofo sarebbe d’accordo con questa impostazione.

         “Dubita sempre delle risposte troppo facili, di quelle retoriche o irrazionali, mi ha continuamente ripetuto “Andrea” , anzitutto perché sulla Terra non è possibile accedere alle verità assolute. Ciò nonostante interrogati ogni volta se c’è un senso nelle risposte che ottieni. Dopo averle ricevute riponi le stesse domande senza mai stancarti ma senza dimenticare che hai pure un cuore e anche il cuore vuole risposte”.

           Avere un cuore significa accettare anzitutto che la scienza ha i suoi limiti, oltre i quali bisogna dare un senso anche a ciò che, che per sua natura, non può essere esaminato al microscopio, come la coscienza superiore, la creatività, i desideri, l’immaginazione, i sentimenti, la poesia. Questa scelta di posizione tra rigore matematico e la invisibile ma egualmente reale vita interiore (alla quale pur bisogna dare voce) determina in noi una continua oscillazione tra il certo e l’incerto, tra il possibile e l’inverosimile, tra il vero e il falso, tra illusione e verità. Ciò è causa di tormento culturale e morale e di continua impossibilità a decidere tra ciò che è giusto e ciò che non lo é. Questa, però, come tutta la tradizione filosofica insegna, è la vera posizione del filosofo.

            Di questo comunque non parlerò stamani ma in un’altra conferenza che integrerà questa di oggi che terrò sempre a Napoli, in febbraio, in un altro convegno di parapsicologia parallelo a questo.

          Oggi voglio parlare con voi del dolore e della morte giovane. Ma devo fare subito una premessa: sono un laico fin nelle ossa e odio la retorica e il sentimentalismo quando sono fini a se stessi. Ho fede principalmente nella ragione illuministica ritenendo questa un dono di Dio. Quindi vi dirò le cose che molti di voi vorrebbero dire ma non osano perché ingabbiati in una visione fideistica che rifiuta la ragione e si abbandona alla sola speranza perdendosi dietro il desiderio. Mi prendo la responsabilità di parlare con la rabbia – come ho sentito fare a molti – di chi si vede sottratto un figlio innocente e si pone il terribile perché sia potuto accadere proprio a lui un evento così devastante. Spero, però, che le mie riflessioni servano anche a chi è venuto qui senza lutti personali, ma solo per capire come stanno le cose.

            Uno come me che ha passato la vita a interrogarsi, ad ascoltare il dolore degli altri che mi chiedono conforto e speranza, uno come me che per oltre 50 anni ha interrogato la propria sensitività e la propria coscienza a contatto con una Entità ormai mitica nella storia del paranormale, uno come me che è vissuto per tanto tempo con un maestro del genere, si è posto come voi le stesse domande come le formulai quando, bambino, vidi morire un mio piccolo amico di appena dodici anni e sentii le urla dei genitori davanti al figlio morto. Quel mio piccolo amico e i suoi genitori non avevano fatto nulla di male, erano finanche persone religiose che credevano in Dio e andavano a Messa tutte le domeniche. Leonardo, così si chiamava il mio piccolo amico, era finito sotto un tram e restai tramortito dall’insolente violenza della sorte verso un innocente. Così vissi quella esperienza terribile.

 Perché?, mi chiesi.

Perché proprio lui e non un altro? Perché non un boss che ha sulla coscienza diecine di morti? Perché non un killer che uccide a sangue freddo?

            Dove sono la giustizia di Dio, l’amore di Dio, la sua paterna misericordia, se davanti a noi, nel mondo, c’è solo morte, violenza, malattia e tormento di ogni specie?

           Perché deve morire un ragazzo lasciando nello squallore del dolore i genitori indifesi che non riescono a dare un senso a questa violenza della morte giovane e rischiano finanche di incattivirsi nella cupezza della perdita a cui non sanno dare una spiegazione?

           Così mi vissi la rabbia e il dolore quando morì il mio giovane amico tanto tempo fa.

           Lo ripeto, sono un laico che però ha avuto la fortuna di incontrare un maestro spirituale e da lui ho appreso che essere laici non significa essere atei e non riconoscere ciò che chiamiamo il senso del sacro e della divinità. Laico significa usare il dono di Dio della ragione. Perché la ragione è più importante della fede. Lo é per il solo fatto che la ragione l’abbiamo tutti, al contrario della fede che l’hanno solo alcuni e non certo per meriti personali. Lo so, dicono che la fede sia un dono di Dio. Io, invece, sono d’accordo con Pascal, il quale si chiedeva: se la fede è un dono di Dio perché alcuni ce l’hanno e altri no?

          Non sarebbe, questo dono, dato solo ad alcuni, una vera ingiustizia? Ma poi: la fede serve veramente a giustificare un immenso dolore o è solo utilizzabile come un sedativo?

         Vi risponderanno che non possiamo conoscere i disegni di Dio. Ma quali disegni? I disegni si vedono dagli effetti che producono e io mi rifiuto di pensare che Dio, nei suoi disegni, comprenda le morti innocenti di milioni di persone indifese e lo strazio dei sopravvissuti.

           Questo Dio biblico che semina morte non é il Dio amorevole di cui tutti abbiamo sentito parlare fin da quando siamo nati. Non può trattarsi dello stesso Dio che conserva la vita ad alcuni e, nel suo disegno, la toglie ad altri. E’ un disegno, se lo è, del tutto incomprensibile, talmente incomprensibile da somigliare a quello di un killer che spara da lontano nel mucchio preso da un raptus di follia.

 Io la vedo così e ne deduco che deve esserci un’altra spiegazione.

La vita umana vede continuamente il successo dei violenti e la morte dei deboli. Più si è vittime più si è perdenti, più si è ingiusti e accaparratori e più si vince. Dov’è Dio in questa vacanza della giustizia? Dov’è il suo amore, la sua pietas?

…fine prima parte…

 

Seconda parte

 

Ad Aushwitz furono annientati milioni di ebrei e ancora oggi, nel mondo, ogni anno muoiono letteralmente di fame almeno 10 milioni di bambini e non c’è nessun Dio e nessuno Stato che interviene per salvarli dall’atroce morte per inedia fisica.

          Wiesel, raccontando dell’impiccagione di tre prigionieri in un campo nazista, tra cui un bambino dagli occhi tristi, così scrisse: “Dov’è dunque Dio? Dov’è? Eccolo: è appeso lì, su quella forca!”.

         E ancora Adorno, ripreso da Jonas: “Nessuna parola risuonante dall’alto, neppure teologica, ha un suo diritto di essere immodificata dopo Aushwitz”.

         Un bambino di dieci anni trucidato dalla marmaglia nazista che ha disonorato la specie umana. Non riesco a pensare in modo logico e lucido ad una cosa del genere. Perdere un figlio giovane per malattia o incidente è tragico, vederlo addirittura impiccato per puri motivi ideologici è doppiamente tragico, è finanche spiritualmente intollerabile.

         Noi e i nostri figli siamo legati con un nodo inestricabile che nessuno può sciogliere. Forse dipenderà dalla nostra natura biologica, forse da quella spirituale e psichica o forse dall’intreccio di questi tre fattori. Qualunque ne sia la causa questo nodo esiste e ce lo viviamo in maniera emotiva sicuramente eccessiva, ma non riusciamo a sentire questo bene in modo diverso, per cui la morte di un figlio la sentiamo come un affronto alla logica naturale che prevede la morte dei vecchi e non quella dei giovani.

Diceva Rousseau che l’amore dei genitori è di tipo discendente, quella dei figli di tipo ascendente. L’amore ascendente è minore di quello discendente, ecco perché i genitori amano i figli in modo più forte che i figli i propri genitori. Questo amore dei genitori si associa sempre all’ansia di perderli. La psicoanalisi ha elaborato studi fondamentali su questa questione di cui, però, resta l’ansia e la pena che sono reali, sono qui, e per qui intendo proprio qui nelle nostre menti, nei nostri corpi, nella nostra natura vivente, in un rapporto ferocemente arroccato tra la nostra materia corporale e queste persone a noi care, tra le quali in modo speciale i nostri figli più delle nostre madri e dei nostri padri, più dei nostri amici che pure possiamo amare e che vorremmo non morissero mai.

        I figli ci fanno diventare egoisti, trasformando il dolore della loro perdita in una speciale perversione che talvolta incattivisce e che non vorremmo avere ma che è umanamente comprensibile.

       Perché è toccato a me e non ad un altro? Oppure: doveva proprio accadere  a lui di morire  e non al nonno che è già vecchio o allo scemo del paese che ancora campa nella più totale apparente inutilità, o ai delinquenti che imperversano nella nostra società?

           Ecco, questo è quanto può attraversare la mente di coloro che subiscono il lutto della perdita e io vi chiedo perdono se lo metto in luce brutalmente nella domanda di senso a cui la fede non può dare risposta se non è preceduta da un ragionamento. Non basta dire, sia fatta la volontà di Dio, perché noi chiediamo il senso della stessa domanda, non la pura affermazione della sua volontà, dal momento che siamo noi uomini a soffrire, non Dio, e una risposta come questa non ci chiarisce nulla, anzi esaspera il senso della sua retorica, incomprensibile quanto l’evento che ci ha colpito.

         Si può mai essere confortati da una risposta del genere? Che non dobbiamo sapere e non dobbiamo capire nulla come se fossimo dei mentecatti?

        Come si esce da questa posizione mentale che rende perverso il dolore della coscienza e dell’amore feriti? Come dobbiamo recuperare il rapporto col divino, questa necessità interiore pura, offesa dalla Sua assenza perché le nostre invocazioni e preghiere a Lui restano continuamente disattese come se Lui effettivamente non ci fosse?

        Naturalmente chi ha fede e non si pone domande, resti pure così se in questa posizione trova le risposte! Io provo sempre a rivolgermi a quelli la cui fede vacilla oppure è improponibile.

       Non ho la ricetta miracolosa, sono solo una mente che ha imparato a pensare da filosofo e ha avuto la fortuna di incontrare sulla sua strada la voce di un maestro molto speciale. Da questo incontro è nata una risposta di senso che, a mio avviso, merita ogni attenzione.

        La riflessione scaturita da questo straordinario rapporto fissa alcuni punti fondamentali:

        Punto primo: nonostante tutta la buona volontà – che si sia laici o credenti – è incontrovertibile che nel mondo non c’è alcuna visibile traccia di Dio. In questa affermazione, che si traduce nel concetto della morte di Dio, c’è però un paradosso, perché ciò nonostante vi sono persone che hanno iniziato un lavoro di ricerca e sono riuscite a portare la loro coscienza percettiva, al di là della negazione e del dubbio. Queste persone sono i mistici, i profeti, i poeti, i filosofi metafisici di tipo creativo, i maestri spirituali. Tutti costoro sono riusciti, attraversando la materia del corpo e sospendendo la ragione – come nella fenomenologia di Husserl – a raggiungere uno stadio mentale e intimo profondo e alto in cui si annulla il tempo e lo spazio e si entra nella dimensione sacrale dell’ineffabilità perdendo il contatto col proprio Sé corporeo e linguistico. In questa condizione si apre una seconda coscienza parallela di cui possiamo tutti fare esperienza a condizione che la smettiamo di rigirarci nelle nostre disgrazie e diventiamo attivi e propositivi.

Questa percezione trascendentale va cercata, non si vende in edicola e nei libri, ma si deve cercarla non solo per esserne consolati, va desiderata come necessità di conoscenza di sé e come ricerca interiore. Ciò significa che dobbiamo abbandonare la teoria del solo sapere cognitivo e della ricerca consolatoria o della curiosità intellettuale fine a se stessa, e passare alla pratica del fare intesa anzitutto come ricerca della nostra anima.

Se non ci poniamo come primo obiettivo il riconoscimento sperimentale che siamo una natura spirituale che vive in un corpo fisico, come potremmo riconoscere i segni del sacro e avvicinarci ad una possibile divinità?

         Noi siamo nel mondo per conoscere e sperimentare la corporeità e la vita, non per contemplare astrattamente. In questo momento in cui voi e io ci stiamo scambiando pensieri tutto è materia. I nostri sensi, il nostro linguaggio, voi udite la mie parole, io sento il vostro silenzio, la vostra attesa. I nostri corpi vivono, respirano, le vostre orecchie ascoltano, le vostre domande fremono nei vostri cervelli ed è quasi come se le udissi, immagino finanche cosa state pensando, ciò che vorreste chiedermi.

         Piano piano tra voi e me, tra i nostri corpi fisici, si crea un feeling, una cosa impalpabile che crea ascolto, partecipazione, unione. Ne deriva che ciascuno di voi non è solo carne umana seduta su una sedia. Che cosa consente a questa carne e ossa e sangue di capire il senso delle mie parole? Sono solo sensi e mente o c’è qualcos’altro che passa tra voi e me? E’ solo voce umana, sia pure denotata di senso, oppure stiamo percependo, attraverso il suono fisico della voce, altri significati che ci rinviano all’intuizione sacrale che ci stiamo scambiando anche anime pur nella fisicità spaziale dello stare insieme?

Quando cerchiamo, in un pur banale atto della vita, di dare un senso alle cose (per esempio perché lo stiamo facendo? Perché così e non in un altro modo? Cosa significa la mia azione? Come interpretare l’azione degli altri?), quando ragioniamo in siffatto modo, siamo già nel sacro. Il sacro non è una chiesa, una preghiera, un suono di campana o una musica: sacro è il senso della vita quando la nostra azione ci produce un surplus di conoscenza e ci conduce al processo di trasformazione per mezzo del quale utilizziamo, sì, la nostra materia corporale, ma la conoscenza corporale non può essere una conoscenza fine a e stessa, deve poter produrre un valore e questo valore è appunto il senso che dobbiamo dare all’azione e questo senso si accresce proprio perché è prodotto dall’esperienza concreta non dalle teorie, come dice il filosofo Gianni Vattimo, del credere di credere.

Questa riflessione ci dice che se Dio esiste non è nelle cose umane e nel mondo che fisicamente ci appare, ma nel valore aggiunto che nasce dal finalizzare i comportamenti e la corporeità a valori conoscitivi, indipendentemente dal credere o non credere, perché il Dio che cerchiamo è nel gap tra il pensiero teorico e la pratica spirituale del vivere. In questo modo il gap che viene a determinarsi è lo spazio astratto che si riempie di senso, cioè è proprio un valore aggiunto che la mente fa proprio. Si tratta di un valore metafisico, perché è l’ontologia dell’Essere che si riappropria di noi e trasforma il pensiero in sapienzialità, cioè lo connota proprio di quella sacralità che stiamo cercando

Se non si opera, il credere soltanto non serve a niente. Operando ci allontaniamo paradossalmente dal mondo perché sacralizziamo la nostra azione, innalzandola al di sopra del pensiero stesso.

             Questo paradosso ha bisogno, però, della complicità del corpo perché è attraverso di esso che noi pensiamo e operiamo. Ma il paradosso ci apre la strada all’inverosimile, perché se diamo continuamente un senso all’azione noi ci impadroniamo della sacralità mentre operiamo e la riconosciamo (quando l’azione è finita) perché siamo diventati più ricchi, più saggi, più tolleranti, più giusti o semplicemente più consapevoli della nostra esistenza . In termini psicologici questa è la strada per radicare l’identità, la coscienza di sé, il valore dell’esistenza che noi identifichiamo quando cessa il clamore delle cose del mondo.

Questo fatto straordinario ci conferma che di Dio non si ha traccia nel mondo perché noi, spinti dal bisogno e dal dolore, vorremmo incontrarlo là dove Lui non può stare, per cui la traccia comincia quando diamo un senso e una finalità concreta al nostro desiderio. Quando, invece, utilizziamo il desiderio e l’immaginazione solo per pensare senza farli diventare azione, restiamo imbrigliati nella teoria o nel nostro stato fissativo e restiamo soli perché il resto del mondo è come se non esistesse. Rendiamoci conto che la politica, l’economia, il lavoro, le disgrazie dei corpi, le malattie, la morte e i riti per esorcizzare il dolore appartengono solo al regno della vita umana, non a quello dello Spirito o a quello del divino. E quindi, se vogliamo pensare al sacro dobbiamo, sia pure attraverso queste necessarie fasi umane, salire di livello, cioè il pensiero quotidiano deve diventare attenzione trascendentale.

             Questa operazione non è irrazionale, anzi è esattamente il contrario. Infatti noi partiamo da una procedura razionale quale la volontà e il ragionamento e da lì giungiamo in un’area metafisica fino ad allora del tutto sconosciuta. Insomma l’idea di Dio, del trascendente, della sopravvivenza, della sacralità, rappresentano un progetto di verifica e di riconoscimento che implica un lavoro: non sono verità concesse per fede solo a qualcuno, ma l’esito, per così dire, di una ricerca (come è giusto che sia) che sottintende un merito.

            Tutto ciò che possiamo definire trascendente: Dio, l’ontologia della metafisica, la dimensione dell’oltre, la percezione mistica e simbolica del divino, le tracce di coloro che sono trapassati, cioé i figli e gli amici che sono morti, sono là in questo stadio ultrapercettivo che chiamiamo trascendenza sacrale.

           L’anima (o Spirito) deve trovarsi, verosimilmente, in quel punto che si realizza solo nelle condizioni mistiche dell’ineffabile abbandono trascendentale, nel luogo dove, appunto, si costituisce la dimensione della seconda coscienza che può pensare a sé non come corpo ma come punto di incontro col mistero. Perché è solo in quel punto che si cominciano a scorgere le tracce del sacro se, come diceva Empedocle, che visse 450 anni prima di Cristo, forse “la natura di Dio è un cerchio il cui centro è ovunque e la cui circonferenza non è da nessuna parte”.

…fine seconda parte…

 

Terza parte

…terza parte…

Secondo punto – Se riusciamo a vivere il precedente progetto di ricerca interiore, tutta la riflessione precedente di colpo diventa anche un lavoro che conferma l’esistenza in noi di alcune verità metafisiche. Tra l’altro gli effetti a cascata di questo nuovo modello interiore sono subito visibili finanche nella vita ordinaria. E’ dimostrato che, ad esempio, se riusciamo a creare uno stato di conformità tra il corpo e i desideri inconsci, questo stato non solo ci apre (con opportune tecniche) uno sconosciuto universo trascendentale, ma ci procura finanche un benessere fisico che innalza le difese immunitarie contro i virus, il cancro e varie malattie, ed agisce positivamente su tutte le tensioni psichiche riducendo gli stati nevrotici o abolendo l’ansia. Tutto ciò ha un carattere oggettivo come è dimostrato dal fatto che in questo nuovo stadio mentale si modificano le onde cerebrali e rallentano i segnali di attivazione in entrata degli stimoli esterni provenienti dall’ambiente, compreso gli stressori che ci producono ansia.

           Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un nuovo paradosso.

           I filosofi e gli scienziati ancora oggi non sanno spiegarsi come mai percezioni astratte possono interferire con gli stati corporei e mentali che appartengono al regno fisico. Però interferiscono. Essi non postulano il sospetto che insieme al corpo e alla mente noi possediamo una esistenza spirituale che è regolata da leggi non fisiche, ma tuttavia sono costretti a riconoscere che senza il pensiero superiore, noi stiamo male.

         Ovviamente non è che non conosciamo le caratteristiche della coscienza, ma in un certo senso procediamo al contrario perché del sistema nervoso conosciamo quasi tutto, quel che non sappiamo è come sia possibile che un cervello fatto di cellule e neuroni di tipo fisico, possa concepire e produrre ciò che fisico non è, per cui in realtà noi sappiamo cosa la coscienza non è, piuttosto che cosa la coscienza é.

Si aprirebbe un lungo discorso che non è possibile sviluppare nel limitato tempo che abbiamo. Filosofi, neuroscienziati, psicologi e ricercatori in genere devono ancora capire come sia possibile che l’essere umano abbia la capacità intenzionale di pensare per astrazioni e simboli come se fosse in possesso di codici estranei al mondo dei neuroni. Questo fatto è addirittura emblematico. Il nostro cervello possiede 100 miliardi di neuroni, ma nessun neurone è intelligente. Il DNA di uno scimpanzè differisce solo l’1,6 da quello dell’uomo. Ancora non sappiamo in che modo lo schema dei circuiti funzionali del cervello dia origine ai fenomeni mentali: sui fenomeni mentali superiori non abbiamo neppure un’ipotesi. L’arte è uno di quei casi emblematici ancora sconosciuti e così anche la matematica intuitiva.

Terzo punto: Ma c’è di più: le nostre pulsioni, i nostri desideri, le vocazioni a fare o non fare, i nostri istinti spirituali e creativi, le nostre intenzionalità, tutta la gamma delle nostre idee più alte e metafisiche, provengono esclusivamente dall’inconscio, cioè da una parte di noi di cui non abbiamo coscienza, per cui dobbiamo ribaltare il concetto che noi siamo soltanto la nostra coscienza e la nostra storia personale, perché senza l’inconscio noi saremmo in possesso solo della coscienza animale, del sistema nervoso e della cultura. L’inconscio è un iceberg sotterraneo, una montagna potenziale che è al di sotto della coscienza la quale, diceva Freud, è solo un piccolo rigagnolo che fuoriesce da questo grande fiume nascosto che scorre a nostra insaputa dentro di noi. Siamo più inconscio che coscienza; se è lì che avvengono le principali transazioni metafisiche, lì dove le regole dello spazio-tempo e del linguaggio non funzionano più, è allora più chiaro che, quando parliamo di sacralità e di divino, è solo là che lo possiamo incontrare.

          Forse Dio e l’Anima non sono scomparsi e le tracce sono in quest’area interna che la storia del mondo ha cancellato in omaggio alle leggi dei poteri e del mercato che hanno trasformato gli uomini, specie noi occidentali, in merce di scambio in robot obbedienti e passivi.

         Ora possiamo tornare alla domanda iniziale.

         Perché la morte e perché la morte giovane? Supponiamo che l’anima (ne diamo per scontato, in questo discorso, la sua realtà) esista non dal momento del concepimento, ma sia antecedente e che vivere in un corpo rappresenti per essa un esperimento di conoscenza. Perché non potremmo percorrere questa ipotesi? Chi può dire quando l’esistenza dell’anima cominci? Attenzione: nel parlare di anima noi non ci riferiamo ad una simbologia, o ad una metafora (come si fa in psicologia) ma ad una cosa reale, vera, esistente. Nella nostra ipotesi di lavoro l’anima è una struttura complessa, una struttura costituita da energia che vive di esistenza propria, di una realtà reale come è reale il pensiero, una musica, un respiro, un profumo. Ci rifiutiamo di definire l’anima l’inganno metaforico di un discorso che parla di lei, per noi l’anima è una forza reale come è reale la luce di una lampadina.

Non è ragionevole ipotizzare che se quest’anima è una sostanza eterna perché proveniente dalla stessa eternità di Dio, il principio eterno di cui è costituita non si misura solo sul suo futuro ma anche sul suo passato? Meditate bene su questo punto; è importante. In una linea geometrica infinita, qualcuno può forse stabilire quale ne è il centro o dove cominci l’infinito? Se l’anima ha l’eternità nel suo futuro perché non dovrebbe essere possedere l’eternità anche nel suo passato?

           Poiché nessuno può dimostrare – dico dimostrare – il contrario di questa tesi, ne deriva un corollario della massima importanza e cioè che l’anima precede il corpo. Se l’anima precede il corpo, e se tutto quanto abbiamo detto sulla natura inconscia della mente è vero, e se ciò che chiamiamo intenzionalità, creatività, percezione metafisica e trascendentale contraddistinguono la vera natura di ciò che definiamo Persona Umana che si differenzia dalla pura natura biologica, se non siamo simili a una pianta e non siamo solo un ammasso di sangue, muscoli come la carne che si vende in macelleria, allora noi non siamo solo molecole o cellule, ma siamo anche anima e quest’anima, ricca di proprietà metafisiche, vive il corpo come un involucro provvisorio e la vita umana rappresenta lo specifico in cui si realizza un progetto dell’anima stessa. Se non esistesse una progettualità per quale motivo dovremmo vivere? In assenza di progettualità la nostra vita non avrebbe più senso di quanto ce l’abbia un formica.

         Se, però, come noi riteniamo estremamente probabile, l’anima ha un progetto questo non può che essere individuale e intenzionale, cioè nel progetto è sottintesa una precisa volontà, e quindi è il corpo a servizio dell’anima, non viceversa.

          Ma se c’è un progetto spirituale che usa un corpo per realizzarsi, poiché il corpo è un meccanismo finito, cioè soggetto a nascere e morire, il progetto pur essendosi costituito su finalità e su valori non umani, è giocoforza costretto ad uniformarsi ad un tempo e a uno spazio che invece sono umani pur senza perdere la propria specificità.

          Questo adeguamento quasi fisiologico è per l’anima una trappola che è costruita dalla natura con i criteri della finitezza di cui conosciamo solo i due estremi rappresentati dalla nascita e dalla morte.

   Ne deriva che il tempo dello spirito non si misura col tempo umano scandito dall’orologio e dal calendario, ma col mistero della sua progettualità che noi, con la mente umana non solo non possiamo conoscere, ma che neppure umanamente condividiamo perché è intriso di una logica alla quale la nostra mente non può partecipare perché il nostro pensiero è legato alla Storia e al tempo di questo mondo, ai suoi bisogni, alle sue contraddizioni, ai suoi limiti.

Per l’anima non può esistere la Storia del mondo e degli umani. L’anima è un soggetto individuale che vive in funzione della sua storia spirituale e individuale, per cui ciascuno è responsabile di sé e non degli altri. Non ci sono percorsi sentimentali, ma percorsi progettuali.

Quando il progetto si è esaurito l’anima se ne va ed a noi tocca accettare questa volontaria decisione e paradossalmente anche assecondarla. Non è Dio che toglie la vita, ma l’anima che decide l’ora del suo ritorno. Per noi questa logica è spesso terribile, ma non dobbiamo dimenticare che tutti noi vi siamo assoggettati. Per noi la morte è separazione, per l’anima è liberazione. Per noi la morte è dolore, per l’anima è la fine di un incubo perché ritorna al suo stato primario che lasciò per entrare nella limitata trappola del corpo e alla fatica del vivere.

Nel suo non-tempo la morte non è, quindi, una violenza, ma l’esito naturale di un evento a sua volta naturale che pone termine ad un programma stabilito da ciascuno di noi nel momento che nasciamo.

         Vorrei avere il tempo, il mio tempo umano, per parlarvi del tipo di esperienza che un’anima immateriale può fare in un corpo materiale e rispondere all’interrogativo che molti mi rivolgono: ma che esperienza può fare un ragazzo di pochi anni? La sua anima cosa può aver capito del mondo in così poco tempo?

          Dirò solo due cose.

          Il progetto dell’anima è un progetto conoscitivo attraverso il percorso sperimentale della vita. Se è così il progetto può essere eseguito in pochi o in molti anni. Qualunque sia la lunghezza temporale della vita per l’anima si tratta pur sempre di un soffio, di un istante. Tutti noi siamo assoggettati a questa regola. Non ci sono orologi e calendari che possono misurare il tempo dell’anima . Questo per noi umani è un dramma, lo capisco bene, ma non per l’anima, perché essa non conosce il tempo umano! Può lasciare il corpo presto o tardi, a venti come a novanta anni. La sua misurazione è conforme all’esperienza che ha progettato, non può riferirsi alle aspettative ed agli affetti del mondo, dei genitori, degli amici, della società. E’ per tutti così. Anche i genitori se ne possono andare prima che i figli siano cresciuti e li lasciano soli. E’ in atto una reciprocità il cui senso è l’attesa che l’evento della vita si compia quando il tempo della conoscenza si è esaurito.

          Ma – ripeto la domanda – cosa può sperimentare l’anima di un giovane che non ha ancora vissuto la vita?

La vita non è fatta solo di azioni visibili, come il lavoro, la famiglia, lo studio, il bene o il male. La vita non è solo una costruzione di affetti che vorremmo non finissero mai. La vita è il vivere cose che il corpo sociale nemmeno immagina. Si vivono le sensazioni, gli odori, le attese, le speranze, i desideri, si vive l’apprendimento, la comunicazione con gli altri, si vivono finanche le depressioni, le paure, i silenzi, la musica, il conforto dell’amore, l’amicizia, le prime voglie sessuali, le percezioni di sé, gli inganni, i compagni di scuola, i genitori, i fratelli. Si vivono i dolori e i piaceri. Si vive finanche la percezione del solo respiro, si vive il mal di pancia, la pioggia sulla testa. Si vivono finanche i sogni e le piccole carezze sui capelli.

Sono queste cose la vita.

          Quante cose si vivono senza che ce ne accorgiamo! Ma l’anima sì. Per l’anima queste cose del mondo apparentemente volatili sono conoscenze che lì, nell’esistenza primaria dell’anima non potrebbe mai conoscere se non vivesse il corpo. L’anima oscilla tra il Sé come sostanza divina, e il Sé che guarda il mondo delle cose materiali fatte di una sostanza, appunto la materia, che è cosa diversa dal suo essere cosa divina.

         In questo incontro tra Sé-anima e il mondo-altro, si realizza l’esistenza di ciascuno di noi, misurata al di fuori di ogni tempo, come è giusto che sia ciò che da un lato vorremmo eterno e dall’altro conformato ai nostri bisogni temporali e umani.

        E’ un incontro che costringe l’anima e la mente a indossare maschere: l’anima per potersi adeguare al corpo, la mente per poter essere accettata dalla società. La maschera domina tutto. Ma “maschera” in greco vuol dire tragedia. E perciò noi corpo e noi anima ci viviamo continuamente la falsificazione di un incontro che, senza le maschere, non potrebbe avvenire. E ciò produce drammi e sofferenze.

         Noi soffriamo ogni perdita perché essa è una ferita inferta alle maschere che ci impediscono di scorgere l’altra verità nascosta: non solo quella del divino, ma anche quella della propria natura autentica e, con essa, la propria eternità.

         Però se avessimo la coscienza profonda di tutto ciò, se potessimo disporre di questa sapenzialità soffriremmo enormemente di meno e ci adegueremmo alla volontà dello spirito con ben diverso abbandono e con ben altra comprensione. Ma forse senza il dramma e la messa in scena della morte, non vi sarebbe vita, perché se non c’è dramma quasi mai si cerca una qualche verità che lo plachi.

         Perché? E’ un filosofo materialista, Nietzsche, che ci dà la risposta.

        Ha scritto Nietzsche:

        “In verità, vi dico: un uomo deve avere il caos dentro di sé per poter generare una stella danzante. Non il motivo e lo scopo della tua azione la rendono buona, bensì il fatto che nell’azione la tua anima trema e luccica”.

           Se accettiamo questa logica essa diventa un modo nuovo non solo per cominciare a svelare il mistero, ma per riprendere il discorso col Padre sconosciuto, ed a capire perché si è così nascosto da diventare umanamente invisibile. C’è in Meister Eckhart, il grande mistico e filosofo tedesco vissuto intorno al 1260, l’eguale stupefazione che prende ancora noi quando meditiamo su tutto ciò.

               Eckhart così tradusse il testo evangelico “Surrexit autem Saulus de terra apertisque oculis nihil videbat”: Paolo si alzò da terra e, con gli occhi aperti, vide il nulla e questo nulla era Dio”. Che significa tutto ciò. Ce lo spiega lo stesso Eckhart con straordinaria intuizione mistica: “Poiché…la natura di Dio è quella di non essere simile ad alcuno, noi dobbiamo necessariamente giungere al punto di essere niente, per poter esser trasportati in quello stesso essere che Egli è”.

            Svuotarsi della mente e del corpo, abolire lo spazio e il tempo, congiungere la visione con l’azione e, dice Eckhart, “stare all’esterno come all’interno, abbracciare ed essere abbracciati, contemplare ed essere la stessa cosa contemplata, tenere ed essere tenuti in quel silenzio e in quella sospensione della coscienza umana dove Dio e creatura si possono incontrare e diventare la stessa cosa.”

In questa chiave di lettura ha ragione Teillard De Chardin quando dice che “noi non siamo esseri umani che vivono un’esperienza spirituale. Noi siamo esseri spirituali che vivono un’esperienza umana”.

 

Edda CattaniLa morte giovane
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Cristo è risorto!

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LA NOSTRA PASQUA

“Cristo Risorto invita tutti, cristiani ma anche chi è alla ricerca, a non scoraggiarsi nelle difficoltà della vita”.

Simili a colombe i nostri cari Figli volano liberi nella Luce. Lasciamoli

godere del miracolo della Resurrezione; certezza per tutti noi

della vita eterna!

Durante il tempo pasquale noi credenti, uniti ai nostri figli, angeli di Luce, ricordiamo il significato della santa Comunione, facendo in modo che tale rito sia il punto fermo di una partecipazione eucaristica che deve interessare tutta la nostra vita. L’Eucaristia è sacramento del sacrificio pasquale di Cristo. Dall’incarnazione nel grembo della Vergine fino all’ultimo respiro sulla croce, la vita di Gesù è un olocausto incessante, un perseverante consegnarsi ai disegni del Padre. Il culmine è il sacrificio di Cristo sul Calvario: «ogni volta che il sacrificio della croce, “col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato” (1Cor 5,7), viene celebrato sull’altare, si effettua l’opera della nostra redenzione» (Lumen Gentium, 3; CCC, 1364).

Ad esso noi, Mamme della Speranza,  associamo il nostro sacrificio, per divenire un solo corpo e un solo spirito con i nostri Figli in Cristo. Partecipare all’Eucaristia, obbedire al Vangelo che ascoltiamo, mangiare il Corpo e bere il Sangue del Signore vuol dire fare della nostra vita un sacrificio a Dio gradito: per Cristo, con Cristo e in Cristo. In questo periodo di grandi tribolazioni per l’umanità, di guerre in ogni territorio, di faide, di miserie e di gravi perversioni, rivolte soprattutto a chi non ha colpa, ai bambini, agli anziani, ai più deboli, sentiamoci ancora una volta Chiesa militante, come lo sono i nostri Figli e vivendo nell’impegno e nella preghiera celebreremo, uniti a Loro, degnamente la nostra Pasqua. L’incontro con Cristo non è un talento da seppellire, ma da far fruttificare in opere e parole. L’evangelizzazione e la testimonianza missionaria si dipartono dunque come forze centrifughe dal convito eucaristico (cf. Dies Domini, 45). La missione è portare Cristo, in modo credibile, negli ambienti di vita, di lavoro, di fatica, di sofferenza, facendo in modo che lo spirito del Vangelo sia lievito della storia e “progetto” di relazioni umane improntate alla solidarietà e alla pace.

Conviene ritornare a ciò che è più essenziale. In effetti, tutte le cose che potremo fare avranno un senso se poste dentro l’ottica del dono di Dio. Le iniziative non dovranno essere che sentieri aperti, perché la grazia, sempre offerta dallo Spirito di Dio, scorra con abbondanza, accolta dai singoli e dalla nostra comunità. L’eccomi della Vergine Santa dovrà ancora una volta dare il tono all’eccomi di tutte noi che continuamente, con il corpo e il sangue di Cristo, riceviamo anche il dono della maternità di Maria: “Ecco tua Madre!”

Da primo messaggio ricevuto Andrea ci disse di essersi buttato ai piedi della Madre Celeste dicendole: “Madre poni fine a tanto dolore”! Così Dio, nella Sua misericordia, ci ha fatto ritrovare questo Figlio benedetto e ci ha ridato la Sua pace.

Che Dio benedica le nostre famiglie e la certezza della Sua Resurrezione ci sia di conforto e di aiuto. E’ l’augurio che faccio a tutti per un tempo di pace e di serenità!

 

“Gesù Cristo, morto in croce, è risorto. Questo il messaggio. Essere il testimone di questa lieta notizia, che dagli apostoli ad oggi viene proclamata nel mondo. Dire che Cristo è risorto, è dire tutta la nostra speranza nella vita. La vita che è la sconfitta del peccato, di quelle situazioni di miseria che ogni uomo porta con sé. Il Signore è venuto a farci dono della vita nuova che si deve tradurre in una pace interiore, in uno stile di vita nei confronti degli altri. Io ho voluto scrivere questo messaggio: Cristo risorto unica speranza del mondo doni giustizia e libertà agli oppressi. In questo momento il mio pensiero è rivolto agli uomini e alle donne che vivono la tragedia della guerra e dalle coste africane arrivano da noi in Sicilia, come primo approdo, e cercano di essere accolte. Per loro vorrei annunziare di non perdersi di animo, perchè possano realizzarsi per loro condizioni di giustizia, condizioni di potere condurre con dignità la propria vita, condizioni di libertà, ogni uomo è chiamato a vivere nella responsabilità. Come Chiesa annunciamo la Risurrezione di Cristo, ma la fede si può condividere con tutti gli uomini di buona volontà. Dobbiamo impegnarci per assicurare condizioni di maggiore giustizia e libertà agli oppressi. La Risurrezione di Cristo sia pace e salvezza per tutti gli uomini. Il mio augurio è rivolto ai cristiani ma anche alle persone che vanno alla ricerca della verità e del senso della vita”.  (Mons.Salvatore Pappalardo – Arcivescovo)

  Liturgia e tradizioni

La riforma della Settimana Santa, con il ritorno di ciascuna liturgia del Triduo Sacro ad un orario più consono non fu promossa dal Concilio, ma dal pontefice Pio XII, di venerata memoria.
L’uso di lavarsi la faccia e in particolare gli occhi a me sembra decisamente e tipicamente battesimale (l’acqua è evidente e lo sciacquarsi gli occhi mi ricorda tanto il cieco nato giovanneo!), più che vagamente pasquale.
 

Quando ero bambina al sabato santo,  si slegavano le campane a mezzogiorno, poi vi era la consuetudine di bagnarsi gli occhi “per allontanare i malanni”.

Le campane, che fino a quel momento erano rimaste in silenzio (sostituite dall’arcaico “crepitacolo”) suonavano a stormo, e la gente correva a bagnarsi gli occhi con l’acqua, compiendo una sorta di rito di purificazione…forse allo scopo di togliere il “velo” funebre che ancora copriva gli occhi e vedere il Cristo Risorto, non solo con gli occhi “fisici”, ma anche con gli occhi della fede!….

Tutto questo accadeva circa una cinquantina di anni fa…

 
Era una vecchia usanza preconciliare, me la raccontava anche mio nonno. A mezzogiorno del sabato si scioglievano le campane che si suonavano a festa e la gente correva al fiume per lavarsi gli occhi, simbolo del peccato vinto dalla Risurrezione di Cristo.
 

 

Mia mamma mi dice che la Pasqua si festeggiava a mezzogiorno del sabato. Suonavano le campane e la gente usciva per strada ad abbracciarsi.
 

La ricordo anch’io da bambino nella mattinata del sabato.
In effetti era una cosa che lasciava un po’ perplessi. Mio nonno diceva sempre:
“L’han faa resucitaa in anticip”.

Attualmente la Veglia giustamente si fa all’inizio liturgico del terzo giorno, cioè nella serata del sabato.

 

 

Edda CattaniCristo è risorto!
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