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Intimamente presuntuosi

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Intimamente presuntuosi

Parabola che non funziona Trentesima domenica Tempo Ordinario C

(Alessandro Dehò)

Dehò

Non serve a nulla. Questa parabola dico, non serve a nulla. È la prima reazione onesta che possiamo avere alla lettura del testo. I due protagonisti sono così grezzi e così monolitici da non essere credibili. Sono caricature, parodie del paradigma del santo, caricature dell’immaginario del peccatore, sono personaggi e non persone, sono maschere. Il primo è perfetto, così perfetto nella sua ricerca di religiosità senza sbavature che esagera e risulta essere non credibile. Anche il peccatore esagera, anche nella conversione, non ci sono sfumature. Sono due ruoli interpretati alla perfezione. E infatti la parabola non funziona, la trappola non scatta. Non riusciamo a identificarci in nessuno dei due personaggi e se non ti identifichi non puoi rimanere impigliato nella logica delle parabole e quindi, semplicemente, la parabola non funziona.

Non c’è stupore, risulta essere solo un racconto edificante. Puoi essere il più santo del mondo ma se odi gli altri e sei presuntuoso sei il peggiore di tutti. Puoi essere il peccatore incallito ma se ti penti puoi diventare meglio di un santo. Tutto qui? Possiamo tentare di interpretare i gesti dei due personaggi, possiamo giocare con le parole, possiamo fare tutto quello che vogliamo ma la morale rimane questa e non ci sconvolge più di tanto, lo sapevamo già. Vien voglia di girare pagina e continuare la lettura. A meno che.

A meno che si carichi di maggior significato l’introduzione alla parabola che specifica essere raccontata per “alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”. E qui non è ancora parabola, è dichiarazione di intenti. Il Vangelo non dice di andare ad indagare i due personaggi della parabola, che infatti non presentano alcun tipo di complessità interiore, dice invece di interrogarsi su se stessi e sulle intime presunzioni di giudizio. Insomma, sul nostro modo di leggere il mondo. Non è il fariseo ad essere intimamente presuntuoso, e nemmeno il peccatore che spera di estorcere il perdono, sono io che leggo il presuntuoso. E infatti mi pare che in questo caso la trappola sia già scattata, ed è scattata ancora prima dell’inizio della parabola stessa, il suo suono è stato secco e deciso: “sei sicuro di saper interpretare quello che vedi? Come lo interpreti? Come credi che Dio osservi queste due tipologie di uomini?”. Ecco la trappola, Gesù non sta raccontando una parabola, Gesù mi sta interrogando, mi affida un compito, un esercizio per misurare la mia attitudine all’umiltà. “Chi si umilia sarà esaltato”. Colpito! Non resta che provare a smascherare il nostro sguardo.

I due uomini salgono a pregare, il primo è un fariseo ipocrita, chiuso in se stesso, non vede altro che il suo tentativo di perfezionismo, e disprezza pure gli altri. Non serviva Gesù a dirci che questo non è esempio da seguire, e fin qui ci siamo, infatti il compito è altro: provare a cercare di scendere con sguardo intimamente umile, prendendo ad esempio lo sguardo del Padre che tende alla giustificazione e non alla condanna “(il pubblicano) tornò a casa sua giustificato”. Umiltà e desiderio di giustificazione. E mentre mi chiedo se sia esercizio legittimo ecco che ripenso a un’altra pagina di Luca, penso a due fratelli, a due modi di vivere il mondo e ad un padre misericordioso che umilmente giustifica. Mi torna un po’ di coraggio, forse la strada è percorribile. Esercizio diventa: “guarda con profonda umiltà i due uomini del vangelo, immagina di essere il Padre misericordioso”.

E al primo allora chiederei: “ma tu sei felice?”. Solo questo. Non essere ladro, ingiusto e adultero, digiunare e pagare le decime più del dovuto ti rende felice? Continua così. Cosa ti importa degli altri, cosa ti importa se hai fratelli che vivono in modo diverso da te? Non ti chiedo di essere per loro un esempio, non ti chiedo di convertirli, non ti chiedo nulla se non: tu sei felice nel tuo modo di vivere? “Ciò che è mio è tuo”, smetti di essere in gara con gli altri. Esercizio per me, che credo di essere intimamente giusto, è quello di non condannare questo fariseo e invece di provare ad accudire questa grandissima insicurezza, provare a guardarlo come una vittima del catechismo moralistico che ogni religione impone. L’esercizio è mio: provare a chiedermi se intimamente sento compassione per quest’uomo che non riesce a liberarsi dal confronto e dal dubbio atroce che Dio sia un padrone esigente. L’esercizio è mio, provare, davanti ai farisei di ogni tempo, davanti ai tanti tradizionalisti che fanno perdere la pazienza, davanti a chi prega e ragiona e vive la fede in un modo diverso dal mio, davanti a chi non mi capisce e mi accusa… davanti ai loro volti riesco ad essere umile? Questa è la posta in gioco. Riesco a vedere in chi mi sembra così lontano dalla verità (ma chi sono io per deciderlo?) un fratello con le mie stesse paure? Riesco a essere seriamente interessato alla sua felicità? Riesco a giustificare il più possibile gli atteggiamenti di paura e di chiusura? Giustificare non significa banalizzare, non significa che è tutto uguale, non è il primo gradino verso il relativismo ma è l’assunzione di uno sguardo paterno, il tentativo di intuire le ragioni, interrogare le fragilità, accompagnare alla maturità. E piangere per questo fariseo che probabilmente non riesce a vivere con la dovuta saggia leggerezza.

E così per il peccatore, guardarlo con umiltà. Guardarlo come si guarda un figlio. Evitare di usarlo come si usano gli esempi, non trasformarlo in “caso esemplare”, non trattarlo da convertito. Non esaltarlo in nome della sua scelta. Ma amarlo sinceramente e provare ad andargli incontro, provare a riempire con la compassione quella distanza che lui ha posto tra sé e il divino, tra sé e sé. Provare a correre incontro, come farebbe il padre misericordioso, provare ad abbracciare e a sollevargli lo sguardo.

Questa parabola non funziona, e si capisce il perché, manca un personaggio fondamentale, è come la parabola del figlio maggiore e del figlio minore ma senza il padre. In questa parabola manca colui che sorprende tutti, manca lo sguardo umile che esalta, manca chi si umilia per esaltare l’umanità altrui. Manca la sorpresa perché manca lo sguardo divino. Questa parabola è inutile fino a quando non comprendiamo che è un appello rivolto al lettore: diventa tu il terzo, fai irruzione nella parabola, fai funzionare la parabola, diventa tu lo sguardo che sorprende!

Edda CattaniIntimamente presuntuosi
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La sofferenza salva

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DALL’ALBUM DEI RICORDI

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 ed ora, amato mio, posso ricordare ed annunciare che questo mi hai lasciato!

Accettare il dolore

“Tu sei venuto a piangere, perché ciò che ti mancava era il pianto”

 Riflettiamo:

“Portare i pesi gli uni degli altri” (Gal 6,2). La legge di Cristo è una legge del “portare”. Portare vuol dire sopportare, soffrire insieme. Il fratello è un peso per il cristiano. Solo se è un peso, l’altro è veramente un fratello e non un oggetto da dominare. Il peso degli uomini per Dio stesso è stato così grave che egli ha dovuto piegarsi sotto questo peso e lasciarsi crocifiggere. Nel portare gli uomini Dio ha mantenuto la comunione con loro. È la legge di Cristo che si è compiuta sulla croce. E i cristiani partecipano a questa legge. Essi devono sopportare il fratello; ma quello che è più importante, essi sono anche in grado di portare il fratello, sotto la legge che è compiuta in Cristo.
La Scrittura parla spesso di “portare”. Essa esprime con queste parole tutta l’opera di Cristo: “Erano le nostre malattie che egli portava; erano i nostri dolori quelli di cui si era caricato”
(Is 53,4) (10).

AIUTIAMOCI A SPERARE!

Una storiella che si narra nella vita di Abba Bishoi, un monaco copto del IV-V secolo (morì nel 417 d.C.), dice che, poiché egli fruiva di frequenti visioni di Cristo, alcuni monaci gli chiesero di guidarli a incontrare Cristo. Avendo egli ricevuto un messaggio dal Signore, disse ai monaci di recarsi in un certo posto nel deserto, dove avrebbero trovato Cristo ad attenderli. Lungo il cammino essi videro, ai lati della strada, un uomo anziano, malato e sfinito, che chiedeva loro di portarlo perché non ce la faceva più a camminare. Ma essi, desiderosi di incontrare Cristo, ignorarono le suppliche dell’anziano. In coda al loro gruppo giunse Bishoi che, quando vide l’anziano malato, se lo caricò sulle spalle portandolo lungo la strada. Giunto là dove i monaci attendevano Cristo, sentì il peso dell’uomo farsi più leggero, poté rialzare la schiena e constatare che l’anziano era scomparso. Allora rivelò: Cristo era seduto lungo la strada, e aspettava qualcuno che lo aiutasse. Nella loro fretta di vedere Cristo, gli altri monaci si erano dimenticati di essere cristiani. Lui, portando di peso l’anziano malato, aveva portato Cristo stesso.

 

Portare il malato, portare il fratello

Insegnare ai bambini cosa significhi il rispetto per gli anziani e gli ammalati è educarli all’amore per il prossimo.

È frequente, nei vangeli, l’annotazione che dei malati “vengono portati” a Gesù. Se essi hanno una certa autonomia di movimento, se riescono a camminare dovendo tutt’al più essere sostenuti, essi sono semplicemente “accompagnati”, “condotti”, “guidati” fino a Gesù. È così che gli vengono presentati “malati oppressi da varie malattie e sofferenze” (Mt 4,24) e “molti indemoniati” (Mt 8,16). In alcuni casi si può esitare circa il significato esatto del verbo utilizzato, potendo questo designare sia l’atto di “condurre”, “accompagnare”, sia quello di “portare”: dipende dal livello di autonomia del malato in questione. Questo vale per il verbo phérein (letteralmente “portare”) usato in Marco 1,32 (tutti i malati e gli indemoniati), in 7,32 (una persona sorda e muta), in 8,22 (un cieco), in 9,17. 19-20 (un giovane che ha uno spirito muto). Ma in alcuni casi è assolutamente certo che il malato viene portato, essendo egli steso su un giaciglio, su una barella. In Marco 6,55 si annota che, giunto Gesù a Genesaret, gli abitanti della zona “cominciarono a portargli malati sulle barelle”. Interessante è soprattutto il brano di Marco 2, 1-12 (con i paralleli in Matteo 9, 1-8 e Luca 5,17-26). Dice il testo di Marco:

Essendo entrato di nuovo a Cafarnao, alcuni giorni dopo, si seppe che era in casa. E si radunarono molti, così che non c’era più posto neppure davanti alla porta; ed egli annunziava loro la Parola. E vennero, portando a lui un paralitico, sorretto da quattro persone. E non potendolo presentare a lui a causa della folla, scoperchiarono la terrazza dalla parte dove era [Gesù] e, fatta un’apertura, calarono la barella dove giaceva il paralitico. E Gesù vedendo la loro fede, disse al paralitico: “Figlio ti sono rimessi i tuoi peccati” (Mc 2,1-5).

… e ancora un invito alla pace e … alla speranza

Albero dall’ombra lieve…

Di P. David Maria Turoldo


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Albero ramato di voti e speranze come non altro,
pianta dell’uomo che sogna olio fluente,
olio da versare sopra le ferite, olio
che consácri sempre un messia: olivo,
non del tuo legno son fatte le croci!
Albero di Cristo: “Anche gli olivi piangevano
quella Notte, e le pietre erano più pallide
e immobili, l’aria tremava tra ramo
e ramo: e Lui, tutto un sudore di sangue
– la bocca senza voce – mentre abbracciava la terra”.
Ma gli stessi olivi lo vedranno salire in alto
e sparire nel sole: gli stessi olivi
dai quali i fanciulli avevan strappato i rami
per corrergli incontro: una selva di rami
e di voci a cantargli d’allora l’osanna e alleluia.
Olivo, albero essenziale, dall’ombra lieve come
una carezza; e pure ossuto, e nodoso, e carico
di ferite, uguale alla vita: immagine
di ciò che più amiamo! Sempre un tuo ramo
trovi la colomba in volo dopo i diluvi! E siano
i figli virgulti d’olivo intorno a ogni
mensa; e perfino la cenere fatta
di sue foglie d’argento plachi
le tempeste; come le stesse
del mercoledì delle ceneri mettano
in fuga anche la nostra morte.
E papa Giovanni, il padre del mondo, torni
col suo ramo d’olivo in mano

Edda CattaniLa sofferenza salva
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La preghiera dei Precari

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La preghiera dei Precari

 

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(Luca 18,8-1)
XXIX domenica del Tempo Ordinario C

“Dove, Signore?”. Dove la vedi questa vita? 
Dove la vedi questa quotidianità da abitare evangelicamente? 
Ma, soprattutto, dove lo vedi questo Dio di cui parli 
e che noi non riusciamo a sentire?
Gesù raccoglie quella domanda “Dove?” 
e risponde che il luogo dell’incontro con il Signore è il quotidiano, 
è il tempo vissuto come preghiera.
E quando parla di “pregare sempre” 
non sta consigliando di “recitare” formule, 
la vita non si recita, la vita si interpreta: 
preghiera secondo Gesù è interpretare la vita secondo verità (A. Dehò).

…si interpreta…la preghiera come verità… ” Pregare è sentire la precarietà della solitudine (vedova) che grida il suo bisogno di Amore. Non stancatevi mai di gridare a Dio il vostro urgente e quotidiano bisogno di essere amati e custoditi.” Solo il Suo Amore può dare risposte di Verità.

Per la riflessione di questa domenica, il cui tema è la preghiera, una semplice ma intensa poesia

di David Maria Turoldo:

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” ma questo è un tempo senza preghiera,
Onu, tempo di solitudine
Onu tempo d’infinite paure.
Voi non sapete cosa avete perduto:
Il dono più grande è pregare,
Saper pregare.
“parlare” con lui, o tacere,
Tariffa silenzio
E capire.
Immersi tutti nel suo oceano,
E tornare poi grondanti di luce.
Preghiera, tempo di contemplazione,
Tempo del giusto sulle cose, workers
E sentire la luce posarsi sulle mani…
Tariffa silenzio, senza franare nel vuoto,
mettersi in ascolto,
Sentire lui che parla nel silenzio.
Per questo nessuno ascolta nessuno:
L ” aria, il cielo, gli spazi
Sono una foresta assolo di rumori.
L’ anima è puro, frastuono
Ho cervelli sono tamburi:
Nostra civiltà del vuoto e del fracasso.
Questo è tempo senza silenzio,
Tempo senza preghiera,
Senza gioia e speranza.
Domeniche senza festa,
Anche nelle chiese è difficile pregare,
Anche le chiese, a volte, sono grancasse.
Ma Dio non è nel rumore,
È nel tuono, nel turbine,
Mai nel rumore.
Dio è solo, e tu sei solo:
Cristo, vero orante dentro
L’ infinito silenzio dei tabernacoli.
(David. Maria Turoldo)

 

Edda CattaniLa preghiera dei Precari
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Mente sana in corpo sano

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MENTE SANA IN CORPO SANO

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Impegnati a nutrire la mente con pensieri che danno luce, energia ed armonia; esempio:

Vivi il presente con consapevolezza e gratitudine.

Apprezza ciò che c’è metti armonia in ciò che vivi.

Tu sei ciò che pensi, dal pensiero torbido viene l’azione torbida che crea sofferenza e ti seguirà come le ruote del carro seguono gli zoccoli del bue. Dal pensiero limpido viene l’azione limpida che ti seguirà come l’ombra inseparabile”. (Dhammapada – IV Sec. A.C.)

Mente e Corpo sono due amici che si aiutano a vicenda… se sai come fare.

Quando la mente è sofferente, mettila a riposare. Sfiata lo stress dei pensieri pesanti col respiro vigoroso. Evita la pigrizia stagnante con attività fisiche muscolari: lavoro manuale, cammino, attività artistiche, canto…

Quando il corpo è sofferente chiedi aiuto alla mente: essa è medico, medicina e terapia.

I pensieri sani aiutano la salute del corpo. Il pensiero muove energia, crea realtà, dispone i neuroni del cervello e conduce alle azioni corrispondenti… I pensieri ti modellano!

Il pensiero di stare bene produce benessere, l’effetto placebo è confermato dai neuroscienziati. I farmaci aiutano il corpo, ma non possono insegnarti a vivere meglio.

C’è bisogno di luce che orienti e volontà che dia coraggio a esistere e amore per la vita.

La realtà è quello che è, l’interpretazione dipende da te: la vita è per te ciò che immagini che sia. Dove una persona si dà risposte di malessere un’altra può trasforma le ferite in perle. Esplora pratiche che danno luce, energia e serenità al tuo stile di vita; esempio:

1) coltiva l’arte meditativa per pulire la mente e arredarla con pensieri positivi.

La meditazione pacificante e la scrittura biografica aiutano a chiarirti, a prenderti cura e a farti compagnia. Coltiva il quaderno dei pensieri importanti: nel silenzio meditativo puoi consultare l’intimità della coscienza, il buon consigliere interiore.

2) frequenta il gruppo degli amici sicuri e perseveranti, il confronto e il dialogo ti migliora.

3) apriti al volontariato, per aprirti alla solidarietà sociale e all’amicizia civile.

Qualcuno dice: Sono libero di pensare quello che voglio, nessuno può frugare nel mio cervello e spiare quel che penso…

Invece… guarda bene i tuoi pensieri… diventeranno le tue parole… diventeranno le tue abitudini…diventeranno il tuo destino”. (Gandhi)

RACCONTA PENSIERI CHE TI DANNO SALUTE FISICA, PSICHICA E SPIRITUALE esempio:

  1. Il tuo cuore è contento quando accogli ogni persona come messaggio per te: ogni uomo è una stella e ogni stella ha il suo splendore…
  2. Il passato se n’è andato, il futuro non è ancora arrivato, vivi la fioritura del presente più armoniosamente che puoi, è il tesoro a tua disposizione. Qui, ora tocca la vita che scorre dentro e attorno a te.

 

Da “La scuola del villaggio” D.G. Gastaldello

Edda CattaniMente sana in corpo sano
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Parole che nutrono

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Parole che nutrono

(dalla Scuola del Villaggio di P. G.Gastaldello)
 

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Sii consapevole delle parole che rivolgi a te… l’inconscio ti ascolta!

Le parole dette o pensate: muovono energia, costruiscono realtà, dispongono i neuroni del cervello e conducono alle azioni corrispondenti… sono profezie che si auto-avverano. Questo messaggio viene dai neuroscienziati.

Se tu dici “sono sfortunato, stressato, depresso, non ce la faccio…” stai auto-limitandoti. Se dici “ho fiducia, speranza, apprezzo ciò che c’è, ce la farò…” regali energia positiva a te. Cambiando parole puoi cambiare stile di vita. Le parole che dici ti modellano. La realtà è quello che è, l’interpretazione dipende da te. Chi è positivo, consciamente o inconsciamente farà in modo che ciò accada; chi è negativo, inaridisce, incupisce, incattivisce, stressa e inquina l’ambiente. Perciò diventa consapevole e responsabile delle parole che partono da te o arrivano a te. Il timoniere decide la rotta!

Accogli le parole spiacevoli con distacco, non identificarti con emozioni di rabbia-risentimento, gelosia-invidia. Nella rabbia sii come morto. Puoi pensare: “Tu mi colpisci, ma io non esisto”. Con calma valuta ciò che accade e tieni quello che è giusto. Volgi l’ostilità in opportunità.

Accogli le parole belle con entusiasmo:

  1. Loda in pubblico, rimprovera in privato;
  2. Fa’ tre domande prima di un giudizio;
  3. Fa’ tre lodi prima di un rimprovero;
  4. Crea cielo dove altri possano volare.

La mente non conosce il negativo: se ti domando “come stai?” e tu rispondi “non c’è male”, “non mi lamento”, “non c’è problema”… la mente lavora con le parole ‘male’, ‘lamento’, ‘problema’. Invece posso dire “sto bene”, “sono sereno”, “ti incontro con gioia”, “dimmi una parola bella”. Quando usi parole di fiducia, speranza, apprezzamento, fai un regalo a te e un favore agli altri.

Puoi sostituire parole di comando con parole di invito. Esempio: proporre e non imporre, convincere e non vincere, analizzare e non giudicare.

IMPARA A MEMORIA: il silenzio dà valore alle parole; la calma dà valore ai gesti, il sorriso dà valore alla sincerità, quando guardi negli occhi ottieni fiducia.

Edda CattaniParole che nutrono
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4 Ottobre: S.Francesco D’Assisi

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Il 3 ed il 4 ottobre 2016 si svolgeranno a Santa Maria degli Angeli e Assisi le celebrazioni per commemorare San Francesco Patrono d’Italia.
Ogni anno una delegazione di una regione italians offre l’olio per la lampada votiva che arde davanti alla tomba del Santo.

San Francesco nella pittura di Giotto

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

    Mi è sempre piaciuto immaginare S. Francesco d’Assisi e Giotto come due buoni amici che, tenendosi per mano, si avviano lungo le parallele di un messaggio destinato, più che a trasfigurare, a puntualizzare la parabola umana.

     Se si parla di Giotto, infatti, scappa fuori subito S. Francesco e chi, viceversa, si muove alla ricerca di S. Francesco, si trova prima o poi faccia a faccia con Giotto.

     Tutto questo, perché il francescanesimo ha trovato nella dimensione artistica di Giotto l’espressione più esatta e il pittore, assimilando la realtà del messaggio francescano, è pervenuto ad una fusione dell’umano con il divino; punto d’arrivo che per molti altri artisti è rimasto semplice stadio di ricerca.

     Ci si trova immersi in uguale atmosfera, sia che si ascolti il “Cantico delle creature”, sia che, nella Basilica di Assisi, si assimili la narrazione pittorica di Giotto. Uguale limpidezza di ritmo, analoga chiarità di visione ci vincolano alla scoperta della verità, una verità che, mentre esprime il mistico, sottolinea l’umano, quasi a richiamare alle fonti prime di ogni evoluzione esistenziale.

     S. Francesco è certo il Santo più rivoluzionario della storia della Chiesa, nel senso che il suo messaggio, esploso in un periodo di particolare crisi, sovverte, direi meglio mina alle basi l’edificio di una società che aveva costruito l’egoismo e la lotta sull’acquiescenza dei deboli e la malvagità dei forti. Una rivoluzione totalmente nuova, sia nello spirito come nei mezzi: distruggere edificando, lottare instaurando la pace, condannare perdonando. Praticamente,  S. Francesco scavalcando le posizioni morali del suo tempo, richiamando ad una vita più vera, intesa nel migliore significato e, pur proiettandosi nel futuro, attinge ogni suo gesto dal passato, cioè torna alle origini dell’amore, uniformandosi pienamente al modello primo: Cristo. E la sua rivoluzione si compie nella calma, quasi nel silenzio, nella fedeltà di una missione ch’è poi umiltà di operato e semplicità di verbo.

 

Come in S. Francesco l’opera di rinnovamento morale improvvisamente scopre una sua poetica, un lirismo intenso e profondo, per via di quel contatto diretto con la natura, riportata alla purezza primordiale della creazione, la pittura di Giotto, pur rimanendo distesa ed essenzialmente vincolata alla realtà, spesso sconfina nel simbolo, in virtù di una forza metafisica inconsciamente rimasta alle basi del dialogo.

     Ho detto all’inizio che S. Francesco e Giotto li ho sempre immaginati come due buoni amici avviati sullo stesso itinerario, ma – a ripensarci – è più giusto immaginarli al megafono di una stessa verità, una verità che giorno dietro giorno, o meglio secolo dietro secolo, si è fatta sempre più scottante: la necessità che l’uomo ritrovi la sua essenza, la sua parte migliore. S. Francesco continua a lanciare il suo messaggio, chiamando fratello il sole e dialogando con gli uccelli, dando un’anima al vento e una mansuetudine al lupo. Giotto traduce in linee e colori il grande messaggio, con la purezza di chi crede senza richiedere prove.

     E per noi, alle soglie del duemila, persi fra corse astrali e disintegrazioni atomiche, per noi che ci scopriamo sempre più macchine (1969!!!)* e ci avviamo a diventare robot, è un messaggio quanto mai necessario, un appello quanto mai urgente.

* La nota in parentesi è aggiunta da Nino Pensabene

———–

Questo articolo è tratto da “Il Santo dei Voli”, Anno XXIII, N. 7, luglio 1969, periodo in cui, grazie alla direzione di P. Eugenio Galignano, la rivista del santuario “San Giuseppe da Copertino” si era culturalmente arricchita, cioè al suo carattere prettamente religioso e devozionale aveva – pur conservando i principi  di fondo – aggiunto quel tenore tematico-espressivo che le consentiva di affiancarsi alle riviste culturali dell’epoca. Noi (io e Giulietta), che in quel tempo operavamo a Roma, dirigendo “La Prora” e  pubblicando sui giornali e sulle riviste artistico-letterarie più in auge dell’Italia intera, non ci sorprendemmo affatto quando P. Galignano ci invitò a collaborare; intendo dire che quanto eravamo in grado di offrire non ci sembrò potesse essere non pertinente alla linea programmatica della rivista. Certo, nonostante tutto,  ricordo che per questo articolo Giulietta si pose il problema del linguaggio, di non dargli cioè un carattere eccessivamente critico – come il tema “Arte” invogliava-  e mantenerlo invece in una semplicità espressiva dolcemente fruibile anche da una categoria di lettori “non addetti ai lavori”, quale poteva trovarsi fra i devoti di un santo.

Successivamente, P. Eugenio – che saluto con immutata stima – è stato chiamato all’alta carica di Presidente Internazionale della Milizia dell’Immacolata, fondata nel 1917 da San Massimiliano Kolbe. (N. P.)

Edda Cattani4 Ottobre: S.Francesco D’Assisi
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Fraternità e speranza

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Fraternità e speranza

Dove c’è …

Dove c’è fede, c’è speranza..
Dove c’è speranza, c’è fede;
Dove c’è amore, c’è pace..
Dove c’è pace, c’è amore;
Dove c’è fratellanza, c’è condivisione…
Dove c’è condivisione, c’è fratellanza;
E dove c’è fede, speranza, amore,
pace, fratellanza e condivisione,
c’è prosperità e giustizia per tutti.

Jean-Paul Malfatti –

 

 

Stiamo preparando il convegno di settembre a Cattolica da cui torneremo con il cuore sereno, abbracciandoci così, in totale condivisione dei sentimenti di amore e fraternità. Mi auguro che questo nostro atteggiamento di disponibilità possa continuare e dare calore al nostro cuore e alle nostre famiglie!

Edda CattaniFraternità e speranza
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Buon rientro!

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Buon rientro dalle vacanze cari Amici navigatori!

 

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Vi raggiungiamo quando le vacanze sono terminate ed iniziano le scuole. Sappiamo quanti impegni hanno le famiglie in questi giorni ma ci auguriamo che la pausa estiva sia stata di conforto.

Naturalmente abbiamo tutti condiviso tanti eventi drammatici che sono accaduti e ci auguriamo che possa tornare la serenità e la pace, soprattutto per le nuove generazioni che sappiamo quanto bisogno hanno di speranza in un avvenire migliore.

Sono spesso mancati gli aggiornamenti sul sito in quanto è stata molto seguita la pagina FB a nome di ‘Edda Cattani’ che riceve più immediatezza per i molti contatti in tutte le ore della giornata, anche con messaggi privati.

Edda CattaniBuon rientro!
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La mia preghiera nel tempo

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LA MIA PREGHIERA NEL TEMPO

 

Ho pensato più volte a quanto gradita a Dio o quanto importante fosse la preghiera nella mia vita di ogni giorno. Pregare significa trovare il tempo per farlo. Il tempo è sempre quell’entità astratta eppur così concreta con cui fare i conti. E’ uno degli elementi che oggi non basta mai!

 

Sempre tante cose da fare … forse troppe, troppi oneri, sempre di corsa, sempre maggiori richieste! Una giornata finisce e già una ricomincia … il riposo non é sufficiente e i “conti” non tornano. Alle volte mi dico che la mia giornata dovrebbe essere di trentasei ore, ma forse, nell’organizzarmi non basterebbero nemmeno quelle. La suora che mi ha seguito fin da bambina mi ripeteva: “Ringrazia Dio che tu abbia tanto da fare … Verrà il tempo che anche tu ti ritroverai a “non potere fare”. Saggia testimonianza … Mentore ha percorso tante scale, tutte in salita … ma quando si è fermato non c’era più il tempo …

 

Mi hanno sempre affascinato le parole dell’abate Quoist che trovai nella mia antologia scolastica:

 

Sono uscito, Signore, fuori tutti andavano venivano camminavano correvano.

Correvano le bici, le macchine, i camion, la strada, la città, tutti…

Arrivederci…scusi…non ho tempo.

Non posso attendere, ripasserò…non ho tempo.

Termino questa lettera perché non ho tempo.

Avrei voluto aiutarti…ma non ho tempo.

Non posso accettare perché non ho tempo.

Non posso riflettere, leggere non ho tempo .

Vorrei pregare, ma non ho tempo.

Tu comprendi, Signore, vero?… non abbiamo tempo…

 

Riposo sul cuscino e tengo vicino il crocefisso … E’ un reperto importante, di quelli che sogliono tenere appesi alla corona i francescani. Lo lasciò ad un convegno un religioso che era venuto a spiegarci la vita di Sant’Antonio … Lo dimenticò sotto il tavolo e Mentore mi disse di tenerlo, che era un “segno”. Ora il corpo del Cristo di ferro si va staccando dal legno, ma lo rimetterò in sesto (ci sono tanti collanti che servono allo scopo) e terrò questo simbolo di un percorso lungo, di una strada difficile e tortuosa …

 

Il mattino presto ho da una parte sul cassettone una copia del “La preghiera dell’abbandono” di P.Charles de Faucould:

 

Padre mio,

Io mi abbandono a te:

fa’ di me ciò che ti piace!

Qualunque cosa tu faccia di me,

ti ringrazio.

Sono pronto a tutto,

accetto tutto,

purché la tua volontà si compia in me

e in tutte le tue creature.

Non desidero niente altro, mio Dio.

Rimetto la mia anima

nelle tue mani,

te la dono, mio Dio,

con tutto l’amore del mio cuore,

perché ti amo.

Ed è per me un’esigenza d’amore

il donarmi,

il rimettermi nelle tue mani

senza misura,

con una confidenza infinita,

poiché tu sei il Padre mio.

 

Edda CattaniLa mia preghiera nel tempo
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Quando inizia il giorno

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Quando inizia il giorno

Non è la stessa cosa iniziare la giornata di corsa perché è tardi, o iniziarla con calma pregando e mettendo tutto nelle mani del Signore. E’ impensabile affrontare tutti i problemi della vita relegando all’ultimo posto Dio. Anche il tempo è nelle sue mani e mettere Dio al primo posto, significa conquistare il tempo.

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Ma come, quando e perché pregare? Mi sono spesso posta questa domanda e a chi l’ho rivolta mi ha risposto che la vita si sfascia giorno dopo giorno… rimane solo l’adorazione e la lode.

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E’ vero questo? Dove sta la mia adorazione? Quanto prego il Signore durante la giornata? Gli riserbo uno spazio, un tempo speciale? In tutta sincerità posso dire che nella mia vita non ci sono più programmi … Ho sognato di avere questo tempo, di ritagliarlo dagli impegni, anche nel momento presente, mentre sto scrivendo potrei fermarmi e dire:  “Signore voglio pregarti, voglio dirti che ti amo”.

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Ma il non farlo è forse venire meno a questo amore? Avrei potuto sabato scorso lasciare sola la madre che piangeva in associazione e ritornare a casa recitando il rosario? Eppure, mentre l’abbracciavo Dio era presente, vivo come non mai. Lo sentivo palpitante, tenero come solo un Padre può essere verso questa creatura che simile alla pecorella tenta di condividere un sentiero percorribile. Dio c’è anche quando non mi fermo per dichiarargli il mio amore … Lui non è come noi umani che vogliamo sentircelo dire … Lui sa, Lui vede, Lui comprende … grazie a Dio!!!

 

 

Edda CattaniQuando inizia il giorno
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