Esperienza di una terapista: Sig.Lorenza Ellena
Torino- Ospedale Maria Vittoria Sede staccata S.Vincenzo 15.6.1981
Dopo due anni di lavoro comincio ad intravedere più chiara la linea da tenere e che si manifesta via via l’unica che può condurre ad una vera e propria ri-abilitazione ed abilitazione dell’uomo dalla sua malattia.
Non ci sono stati casi clamorosi. A volte ho anche pensato che un buon esito ottenuto sia stato grazie alle infinite risorse insite nell’individuo e che, proprio perché ancora spesso sconosciute a noi operatori, possono portare di per sé dei risultati strabilianti. Essendo tuttavia questa convinzione nata durante un momento ancora chiaro della linea da intraprendere, ho avuto modo di ricredermi.
Sento di dover iniziare questa specie di “ diario di bordo”da questa fondamentale constatazione. Qualsiasi tipo di intervento terapeutico, nel mio caso, la riabilitazione, è guidato, è pilotato addirittura dal nostro stesso comportamento iniziale, dalla nostra presa di coscienza, dalle nostre aspettative e dal “piede giusto” o “sbagliato” con il quale noi partiamo in questa avventura di intervento sull’uomo.
Qualsiasi tipo di patologia ci troviamo di fronte esiste un primo momento, l’impatto, durante il quale noi decidiamo “a priori”, se quella persona uscirà fuori dal suo handicap in un tal modo o nell’altro. Nella misura in cui dentro noi stessi non abbiamo reciso traumi, sensi di colpa, paure, dettati dal nostro poco coraggio di vivere, non apporteremo certamente miglioramenti ma, rischieremo di far diventare il malato un pellegrino rassegnato a chiudere le imposte della sua vita al nuovo e al bello che ancora lo possono attendere..
Ciò non dimostra già inizialmente che un fatto di per sé molto semplice: il terreno della riabilitazione è purtroppo l’approdo ad una spiaggia di ricerca, di approfondimento di metodiche, tecniche sofisticate ( pur sempre da conoscere per la propria professionalità scientificamente seria), stipendi da colmare.
In tutto ciò l’uomo come mezzo per raggiungere questi miti è destinato a coincidere con il numero di una cartella clinica ed una patologia con caratteristiche che interessano la nostra sfera riabilitativa e niente più.
Il terapista diventa il trait d’union tra una classe gerarchicamente più in alto nella piramide ospedaliera dei ruoli ed il malato con il suo entourage di parenti quando esistono o sovente il malato da solo con la propria malattia.
In tutta questa dinamica di ruoli il terapista rischia di diventare il destinatario di un potere incontrollato, dopo i primi entusiasmi si dimentica dell’uomo e dell’uomo malato verso il quale all’inizio delle proprie scelte aveva rivolto il suo interesse.
Perché questa panoramica deludente? Perché se tutto ciò è realtà quotidiana del nostro rapporto di lavoro, è pur vero che esiste una molla dentro noi stessi tale da poter trasformare una realtà di dolore e di rifiuto di esso, in una fase di condivisione totale.
Ogniqualvolta io accolgo un uomo malato pienamente, in tutta la sfera motoria, intellettiva, emotiva, esperienziale, senza fare una scala di valori di esse, già ho compiuto il primo passo del mio iter riabilitativo.
Quindi: accoglienza, che significa prendere l’altro con sé nel suo insieme, senza etichette che lo dividano in compartimenti stagni.
Come una scintilla fa scoppiare un incendio, così succede nel malato.
Il malato accolto dall’operatore terapista scegli di vivere e non abbandonarsi ad un fatale destino. Sulla base del meccanismo del bio feed-back il mio stimolo suscita una risposta: l’accoglienza umana, e poi vedremo non solo umana, porta ad una scelta personalissima di vivere la malattia con occhi e volontà del tutto nuovi da parte del malato.
Quindi accoglienza prima fase e scelta, secondo momento. Ora il malato dopo questi passaggi preliminari rispettosamente ed opportunamente guidati, si trova quasi senza accorgersene pronto ad iniziare il suo lavoro. Poiché è lui stesso a lavorare in prima persona e al terapista va il compito di guida e orientamento come una bussola che serve per tenere giusta la rotta. Egli stesso deve sentirsi la prima persona in causa, il motore cha fa andare avanti la macchina ed il mio comportamento deve rispettare questa ricerca a volte difficile dell’essere del malato altrimenti si cade nella deresponsabilizzazione e nella prevaricazione della volontà.
Ogni difficoltà che nasce diventa sotto la mia guida uno stimolo al superamento di ostacoli e mai deve sfociare nella delusione o peggio ancora frustrazione per non avere raggiunto la meta prefissata. Ogni progresso, seppur minimo, deve fungere da incentivo e momento gratificante per non fermarsi a ciò che si è raggiunto.
All’inizio affermai l’importanza della globalità dell’individuo. Ne consegue che anche la sfera intellettiva ed emozionale resti coinvolta dalla novità apportata dalla riabilitazione. Quindi attenzione va rivolta ad ogni diminuzione o aumento dell’umore e del livello di autostima. E, se ci si trova di fronte ad una persona che più ne vuol sapere della nostra volontà di vivere e trasmettere ciò al malato tramite il mezzo della fisioterapia, utile può essere valutare la possibilità di risposta che dev’essere sincera e coraggiosa.
Ma tutto ciò che viene dopo è una conseguenza di quella molla iniziale di cui parlai all’inizio. Qual è questa molla? Un’accoglienza non solo umana del malato bensì, paradossalmente divina, come di un ostensorio consacrato che racchiude un tesoro inestimabile e da pochi, soprattutto dagli operatori sanitari, tenuto in considerazione: il dolore incarnato del Cristo stesso sulla croce. E, una cosa ho sentito forte avvicinandomi fin dal primo momento al malato: che io, in particolare con il mio lavoro, ero chiamata a fare da Cireneo nel portare quella croce perché come malato avesse la forza di arrivare al culmine della crocifissione e con il mio aiuto fisioterapico partecipasse qui in terra ad una resurrezione del corpo tramite il miglioramento e le varie funzionalità acquisite.
Far arrivare il malato, con la mia vita, a trasformare la sua messa di dolore quotidiano in sacrificio eucaristico d’Amore offerto a Colui che gli donò la vita in riparazione del male dilagante sulla terra che tutto vorrebbe intaccare.
Invece così malato e terapista si diventa tutt’uno: una cosa sola per fare da barriera e diventare come un argine d’amore purissimo, purificato e purificante.
|