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Dalia, vittima della Terra dei fuochi

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Una grande testimonianza in un incontro a Caivano

che desidero riproporre.

 

Dalia, vittima della Terra dei fuochi

Una telefonata disperata…ed ho conosciuto lei…che non si dava pace per la scomparsa della sua piccola… Sono passati pochi anni ed ancora ti vedo con il fazzoletto in mano, smarrita, non sapendo che fare…. Ed oggi combatti una battaglia quasi impossibile, con la tua disperazione e tanto amore! Grazie MAMMA CORAGGIO, un esempio per tutti noi!

Auguri, piccola stella!!!…proteggi Mamma Tua!

Cominciavano due anni fa i giorni di passione per la mia Dalia che il 31 ottobre 2012 andava via per sempre stroncata da un maledetto linfoma non hodkibg.
Chiedo a chiunque voglia ricordarla e renderle omaggio di condividere in questi giorni e fino al 31 questo post per far si che il mio messaggio possa toccare e svegliare piu’ coscienze possibili.

Sono due anni ormai che io con altre mamme e tante persone comuni come voi gridiamo l’assurdità di queste morti che nella nostra terra sono ormai un aberrante routine.
Tra le cause del cancro leggo da wikipedia “cause ambientali occupano un posto importante come l’esposizione a radiazioni o a certe sostanze chimiche”
Dalia viveva a Casalnuovo,terra dei fuochi.

Nella nostra terra da oltre un ventennio sono confluiti materiali di scarti industriali di ogni tipo,discariche abusive e pseudo legalizzate il cui percolato risulta da tempo inclassificabile e indisturbato si insinua nelle falde.
Da anni i roghi tossici con i quali le aziende locali smaltiscono indisturbate gli scarti delle loro produzioni fatte in regime di evasione fiscale appestano l’aria che respirava lei e che continuiamo a respirare noi.
A pochi metri in linea d’aria da dove viviamo un obsoleto mostro chiamato termovalorizzatore da oltre 800 MW continua a funzionare, in maniera illegittima, e a diffondere sostanze tossiche ad Acerra e non solo, nonostante l’autorizzazione in deroga per la cessata emergenza rifiuti sia scaduta da oltre un anno.
Il termovalorizzatore funziona inoltre senza che le sue emissioni siano oggetto di controllo da parte dell’ ARPAC o di qualsiasi altro ente terzo;per cui, unica fonte di dati relativi a quantità e qualità delle sue emissioni, resta la società che gestisce l’impianto, che continua così indisturbato la sua “opera” ignorando totalmente anche il principio di precauzione.

E mentre il governo ancora ignora il nostro dramma, mentre adduce l’aumento di patologie neoplastiche ai nostri stili di vita, mentre il decreto sblocca Italia prevede la costruzione di nuovi inceneritori, mi chiedo quando si parlerà di bonifiche controllate, tracciabilità di rifiuti industriali, lotta all’evasione e lavoro sicuro ed ecosostenibile.

 Per ora nella mia terra il principio di precauzione resta dunque un sogno, andato in fumo sotto la spinta di mafia,industriali senza scrupoli, stato assente e colluso.
In fumo,come la mia vita e quella della mia Dalia, il cui diritto di vivere doveva essere sacrosanto anche in Campania. Tina Zaccaria Mamma di Dalia

Edda CattaniDalia, vittima della Terra dei fuochi
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Un paese in maschera

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Dopo il Coronavirus imperversa il Carnevale!

Un paese in maschera

 

Siamo in pieno carnevale mentre le emergenze e le sofferenze non si sopiscono mai nel mondo e in Italia. Stridono le notizie del telegiornale che accomunano femminicidi e festival di Sanremo, carri allegorici e maschere di Venezia.

Sappiamo che il carnevale è una festa che si celebra nei paesi di tradizione cristiana (ed in modo particolare in quelli di tradizione cattolica) nel periodo di tempo immediatamente precedente alla Quaresima; i principali eventi si concentrano comunque tra febbraio e marzo. I festeggiamenti si svolgono spesso in pubbliche parate in cui dominano elementi giocosi e fantasiosi; in particolare l’elemento più distintivo del carnevale è la tradizione del mascheramento.

La maschera è principalmente un oggetto usato per celare la propria identità, per esempio durante la festa; è usata con lo stesso scopo da molti personaggi immaginari della narrativa e dei fumetti. I nostri bambini amano imitarli e in questi giorni ne abbiamo visti travestiti da Uomo-Ragno, da Batman o semplicemente da principe o da pulcino, da bruco, da orsetto… una meraviglia guardare tanti piccoli innocenti lanciare minuscole palline di carta per le strade mentre soffiano con trombe di cartone, in un fracasso divertente, la loro gioia di vivere.

In psicologia indossare una maschera può indicare l’atto di essere momentaneamente un’altra persona, solitamente per sfuggire alla propria personalità. Ne sappiamo qualcosa noi, quando a seguito di un grave lutto indossiamo gli occhiali scuri e assumiamo quell’atteggiamento reticente, schivo e raccolto che ci rende incapaci di comunicare. Di fronte all’evento che non abbiamo potuto evitare rimaniamo impietriti e ci copriamo dietro la maschera quotidiana che ci fa essere nel lavoro e con gli altri simili alle statue di marmo. Questo non ci aiuta a sconfiggere le nostre piaghe quando vi sono tante emergenze simili alla nostra da condividere e in cui possiamo impegnarci per sentirci ancora utili.

I circuiti mediatici, come dicevo, tendono a trasmettere più la notizia che fa spettacolo e le altre necessità restano attutite, ai confini della nostra conoscenza ma non sono meno presenti e devastanti: non solo lontane da noi, ma dietro l’angolo di casa nostra c’è chi soffre e muore ogni giorno ed ha bisogno del nostro impegno.

Fra i tanti episodi del mio quotidiano, spesso cosparso di grandi lacerazioni, non mancano le conferme che vengono dall’alto, dai nostri Cari, sempre presenti in quella realtà di Luce verso la quale tutti siamo in viaggio. Il canale privilegiato è sempre quello di qualche anima provata nel cuore e nel fisico; in questo caso si tratta di una mia conoscente che mi è stata vicina in tutti questi anni e che ora è gravemente ammalata. Da tempo si trova a vivere episodi sconcertanti di comunicazione con entità che le danno prove certe della loro esistenza e come non poteva esserci fra queste il nostro Andrea che non può abbandonarci nella difficile realtà che stiamo attraversando? Ebbene una notte intera le ha dato ragguagli e prove certe della sua identità e del suo carattere e per non turbarmi ha detto di parlarne alla sorella che ne è rimasta felicemente esterrefatta.

La cosa che mi ha fatto enorme piacere è l’avermi confermato che con lui sta tutta la schiera dei parenti di cui lui è “l’ultimo anello” (infatti con Andrea si esaurisce la generazione dei Cattani) e che la spada che brandisce è molto più luminosa di quella che è appesa alla parete. A questo proposito debbo far sapere che la persona non sa che noi abbiamo messa in cornice sulle scale della nostra abitazione la sciabola che gli fu data quando fu nominato ufficiale dell’esercito. Questo conferma inoltre quello che ci ha sempre detto e che ha ripetuto: che lui è messo a difesa dei deboli, dei soldati che muoiono in guerra, dei bambini che soffrono…

Mi torna in mente l’immagine di San Michele Arcangelo con la spada sguainata che difende dal maligno, di cui sono sempre stata devota: il mio angelo di Luce, i nostri Angeli si occupano dei grandi problemi di cui noi sentiamo parlare fugacemente alla televisione: della fame nel mondo, della disoccupazione, della pace, del terrorismo; queste sono le quattro emergenze mondiali più preoccupanti.  E non posso, in questa circostanza, dimenticarmi di tanti ragazzi, ancora fra noi, che hanno fatto gli angeli “spazzini” fra le strade di Napoli per mettere ordine laddove un cattivo governo non ha saputo colmare le lacune e ad un tempo la povera gente che vive nei quartieri inquinati dove degrado e povertà ogni giorno aggiunge vittime alla dirompente condizione di vita.

Speriamo che questo carnevale, ormai giunto al termine, non lasci coscienze obnubilate, ma col riposo dello spirito giunga un reale risveglio e la volontà di compiere nella volontà di Dio, il proprio dovere e di impegnarci tutti a utilizzare i nostri talenti nel posto che occupiamo.

Papa Luciani, quando era ancora cardinale, scrisse qualcosa sulla biblica scala di Giacobbe: diceva che c’erano angeli con le ali, ma non volavano, salivano adagio, scalino su scalino. E commentava, cosa che può farci grande piacere, che le piccole cose, le azioni a volte meno importanti sono sovente così impegnative da costituire la via maestra per il cristiano. A noi dunque, piano, piano… il nostro compito…

 

 

 

Edda CattaniUn paese in maschera
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Testimoni del tempo

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P. Davide Maria Turoldo

 

 

Energia, tenerezza, forza, leggerezza, assenza: «Io non ho mani che mi accarezzino il volto» Quanta vita si esprime attraverso le mani! Ci sono mani che si “allenano” ad una appassionata ricerca del bene, che salvano, pregano, curano e comunicano. Oppure, al contrario, mani che uccidono, infangano, violentano e sprecano, in una sorta di danza del bene e del male che intrecciano le loro radici in modo spesso inestricabile. «Perché sono stanche le mie mani di pregare; stanco il mio cuore di perdonare; la mia bocca di benedire Tu mi perdonerai». «Tengo le tue mani e le stringo al mio petto. Tento di riempire le mie braccia della tua bellezza…». Attraverso la metafora delle mani e la forza della musica, tra i lasciti dell’eredità di David Maria Turoldo, la contemplazione e la lotta, la solidarietà e il dialogo, passi indispensabili per una convivenza non solo possibile ma felice e fruttuosa. «Forse è la musica, il suono puro che ti conviene: cantare con libera voce e lasciare i salmi tumultuosi perché non vale dire quanto di te soffersi…» (O sensi miei…, p. 628).

 L’ideale di tutta la mia vita
fu quello di servire e testimoniare
tanto da fratello di chi crede
quanto da fratello di chi cerca.

    D. m. Turoldo

A oltre XX anni dalla morte di padre David Maria Turoldo, avvenuta il 6 febbraio 1992, vi proponiamo l’articolo-intervista di Roberto Vinco al poeta friulano della povera gente, pubblicata da un quotidiano locale il 1 novembre 1991 e presentata anche nel corso dell’annuale incontro-memoriale su Turoldo che si tiene alla Pieve di Colognola ai Colli (Vr). Una intervista per tutti, credenti e non credenti, sul dolore, la malattia, la sofferenza e la morte. 

IL POETA DI DIO SFIDA LA MORTE
Intervista a Padre Davide Maria Turoldo sul dolore, la malattia, la sofferenza e la morte, di Roberto Vinco

(L’intervista è stata pubblicata sul giornale «Il Gazzettino» – edizione di Verona «Il nuovo Veronese» del 1 novembre 1991)

Gli avevano dato non più di sei mesi di vita. Lo avevano operato ad un tumore all’intestino. Dal punto di vista medico non c’era nessuna speranza. Dopo tre anni, padre David Maria Turoldo, il poeta di Dio, il monaco ribelle ma fedele, lo abbiamo risentito qualche settimana fa (settembre 1991, vedi foto) ancora una volta in Arena con i «Beati i costruttori di pace» a cantare la sua speranza di pace e il suo amore per l’uomo.
Dopo ben tre operazioni, il corpo smagrito, visibilmente stremato dalla malattia, non ha ancora perso il suo vigore e la sua straordinaria forza e carica umana. Ha vissuto sempre “fuori delle mura”, sempre in diaspora, sempre in cammino… in conflitto con il potere, con le istituzioni, con la Chiesa. La vita di Turoldo è insieme un canto e un pianto. Il canto di chi crede e il pianto di chi soffre.
A Verona padre David ha molti amici. Come monaco servita è stato ospite per alcuni mesi della comunità dei Servi di Maria della chiesa cittadina di Santa Maria della Scala. Proprio con un gruppo di amici veronesi siamo andati a trovarlo nella sua meravigliosa abbazia di Sant’Egidio a Sotto il Monte in provincia di Bergamo. É visibilmente stanco, ma quando incontra gli amici, quasi si ricarica, recupera tutte le sue antiche forze, ritrova tutto il suo profondo spirito profetico. Della sua malattia parla con serenità. Il suo tumore lo chiama «Il drago che si è insediato nel ventre». Con il cancro ha imparato a lottare e a convivere.
«La mia malattia – ci dice – è un’esperienza consapevole, giocata a carte scoperte. Alle pietose menzogne dei medici ho preferito la verità. In un primo momento è tremendo, è crudele. Ma accettare il cancro è già metterlo a disagio, sfidarlo». Da tre anni sfida con il canto e la poesia anche la morte, accettata con serenità come l’altra faccia della vita.
«Per me la morte è sempre stata come una fessura attraverso cui guardare i colori della vita, apprezzarne i valori. La morte è una presenza positiva, fa apprezzare meglio il tempo, fa giudicare meglio le cose. Ogni mattina dico, se questo è il mio ultimo giorno non posso perderlo. Vivo ogni giorno, non come fosse l’ultimo, ma il primo. Penso che non ci sia nemmeno un di qua e un di là, ma semplicemente un prima e un dopo. Una continuità. Questo certamente è il senso misterioso della nostra fede, ma non è assolutamente un discorso che si fa soltanto per chi ha fede. Il discorso sulla continuità della vita, si può farlo anche con chi non crede, con chi non ha fede. Non è un discorso consolatorio, ma di constatazione. Io posso anche dire «non so come sarà dopo», ma nessuno mi può dire che non ci sia».
Il tema di tutta la sua poesia è Dio. Un Dio che non è ricerca astratta, ma ricerca che si coniuga con la vita, con la realtà umana di tutti i giorni. Un Dio che non ti dà sicurezze e certezze, ma la speranza di guardare sempre avanti con coraggio. Un Dio che non è lì per controllarti e punirti, ma un Dio che ti è vicino, ti capisce, ti ascolta, ti ama.

– Ma come si può conciliare questo Dio con la sofferenza, con la malattia?

«Io penso che il dolore, la malattia, la morte, non siano soltanto il dramma dell’uomo, ma anche il dramma di Dio».

– In che senso?

«Nel senso che il limite di Dio è la libertà dell’uomo. Mi spiego. Dio ha un amore tale per l’uomo, per la sua creatura, che non può non lasciarla libera. Se accettiamo un Dio che vuole che l’ordine della creazione e della storia abbiano una loro valenza autonoma; se Dio vuole che gli uomini siano liberi: liberi di usare e di abusare, liberi di fare il bene o di fare il male, Dio, per primo, deve rispettare questa autonomia e questa libertà. Perciò se tu vuoi che per ogni caso Dio intervenga, tu annulli quello che si chiama il gioco delle cause seconde, gli spazi per la libertà umana».

– Ma allora, secondo questa logica, a Dio non si può nemmeno chiedere la guarigione.

«Io non penso che sia giusto pregare perché Dio mi guarisca. Proprio perché è impossibile che Dio abbia a che fare con la mia malattia. É impensabile che il Dio di Gesù Cristo voglia il cancro. Se fosse stato veramente Dio a mandarmi il tumore, come potrei curarmi? Dovrei andare contro la volontà di Dio».

– Allora sbagliano quelli che pregano perché Dio li guarisca?

«Li posso capire, ma solo a livello umano. Lo posso ammettere come sfogo necessario, come rimedio all’angoscia. É stata anche per me una scoperta di questi anni di malattia, una scoperta terribile, ma consolante».

– E nei momenti di sconforto, di disperazione, quando si rivolge a Dio, cosa gli dice, cosa gli chiede?

«Io non prego perché Dio intervenga. Chiedo la forza di capire, di accettare, di sperare. Io prego perché Dio mi dia la forza di sopportare il dolore e di far fronte anche alla morte con la stessa forza di Cristo. Io non prego perché cambi Dio, io prego per caricarmi di Dio e possibilmente cambiare io stesso, cioè noi, tutti insieme, le cose. Infatti se, diversamente, Dio dovesse intervenire, perché dovrebbe intervenire solo per me, guarire solo me, e non guarire il bambino handicappato, il fratello che magari è in uno stato di sofferenza e di disperazione peggiore del mio? Perché Dio dovrebbe fare queste preferenze? Perché dire: Dio mi ha voluto bene, il cancro non ha colpito me ma il mio vicino! E allora: era un Dio che non voleva bene al mio vicino? E se Dio intervenisse per tutti e sempre, non sarebbe un por fine al libero gioco delle forze e dell’ordine della creazione? Per questo per me Dio non è mai colpevole. Egli non può e non deve intervenire. Diversamente, se potendo non intervenisse, sarebbe un Dio che si diverte davanti a troppe sofferenze incredibili e inammissibili. Ecco perché, come dicevo prima, il dramma della malattia, della sofferenza e della morte è anche il dramma di Dio».

– Di fronte al dolore quindi, anche per un credente, ci può essere solo rassegnazione?

«Non rassegnazione, ma pazienza, che è tutt’altra cosa. Per il credente l’unica risposta al dolore e alla morte è la resurrezione di Cristo. La sua resurrezione infatti è la vendetta di Dio sul male del mondo. Quindi la risposta migliore è sempre quella di Cristo, che alla fine dice: «Padre, nelle tue meni rimetto il mio spirito». Una risposta però da non dire solo alla fine, ma dirla sempre; e forse così si riuscirà ad essere perfino “beati nel pianto”».

– Spesso ci si trova di fronte ad amici colpiti da qualche malattia grave o dalla morte di qualche persona cara. Cosa si può dire in questi casi?

«Ci sono dolori per cui non esistono parole in nessun dizionario. Dolori e angosce davanti alle quali la risposta migliore è il silenzio. Di fronte a certe tragedie, a certe sofferenze non servono né filosofie, né prediche.E il rimedio migliore, dico rimedio, non risposta, sarà semplicemente la tua partecipazione di amico, la tua presenza amorosa, il tuo «essere con» la persona sofferente, l’ammalato. La migliore risposta pratica quindi è «l’essere con», è il silenzio, l’accettazione per quanto possibile. Anche se questo non deve significare rinuncia a lottare, a cercare ogni sforzo per guarire. L’importante è non darsi mai per vinti e ricominciare ogni volta da capo». 

 

FA’ DI ME UN FIUME

Fa’di me, Signore, un fiume
un fiume ampio, disteso,
che dal Monte si snodi flessuoso:
e poi si allarghi sulla pianura
e sfoci e ritorni a perdersi
dolcemente nel tuo mare.
Un fiume che raccolga tutte le acque
della tua divina Ispirazione,
le impetuose acque cui si dissetarono
i profeti, le calme
amate acque della Vergine e dei santi:
l’acqua della fonte zampillante…
E sia un unico fiume: il fiume
irrorato dal fiotto
ininterrotto di sangue e acqua
che scorre dalla ferita
sempre rossa del tuo costato.
E raccolga l’infinito sangue
che scende dagl’innumeri patiboli,
il pianto muto delle madri
dietro gli stendardi dei figli uccisi
– nuove icone sul mondo -,
in processione da capitale a capitale.
Sia così, Signore!

NOTA BIOGRAFICA

PADRE DAVID MARIA TUROLDO
Un profeta che canta la speranza degli ultimi.

Nato a Coderno nel Friuli nel 1916, David Maria Turoldo, diventa sacerdote e frate dei Servi di Maria. Di origini contadine, si laurea in filosofia alla Università Cattolica di Milano con una tesi su «Per una ontologia dell’uomo» discussa con il filosofo Gustavo Bontadini. Per 15 anni vive a Milano nel convento di San Carlo. Partecipa alla Resistenza fondando un giornale clandestino: «L’uomo».
Successivamente, insieme con Padre Camillo De Piaz, dà il via al Centro Culturale «Corsia dei Servi» a Milano. Divennero famose la sue omelie tenute per dieci anni dal 1943 al 1953 nel Duomo di Milano. Strinse amicizia e collaborazione con i protagonisti della vita culturale ed ecclesiale degli anni del concilio Vaticano II°. In particolare con don Lorenzo Milani, padre Ernesto Balducci, don Zeno Saltini, il sindaco di Firenze Giorgio La Pira, il rettore della Cattolica Giorgio Lazzati.
Si ritira poi nel convento di Sant’Egidio a Sotto il Monte in provincia di Bergamo, e di lì ha diretto fino alla morte, avvenuta a Milano il 6 febbraio del 1992, il Centro Studi Ecumenici Giovanni XXIII. Le sue opere sono principalmente di poesia, di teatro, di saggistica e di riflessione biblico-teologica. Ha scritto anche lavori di drammaturgia, sacre rappresentazioni contemporanee, come «La terra non sarà distrutta» del ’51, «La passione di san Lorenzo» del ’78, rappresentata anche a San Miniato, un «Oratorio in memoria di Frate Francesco» dell’82 e «La morte ha paura» e «Sul monte la morte» entrambe dell’83.
Ha inoltre scritto la sceneggiatura di un film sul suo Friuli, «Gli ultimi», realizzato nel ’62 per la regia di Vito Pandolfi. Come traduttore ha dato alle stampe una versione esemplare dei Salmi del breviario e della liturgia dal titolo «La chiesa che canta», in sette volumi, edizioni Dehoniane. Con il biblista Gianfranco Ravasi ha curato una traduzione e commento ai Salmi pubblicata da San Paolo «Lungo i fiumi. I Salmi» 1987. Moltissime le sue opere di riflessione biblico-teologica. Tra queste: «Non hanno più vino», «Tempo dello spirito», «Laudario della Vergine», «Bibbia storia dell’uomo», «Il diavolo sul pinnacolo».
Le sue poesie dal 1948 al 1988 sono state raccolte nel volume pubblicato da Rizzoli, «Oh sensi miei.» (1990). L’editrice Garzanti ha pubblicato nel 1991 «Canti Ultimi» e nel 1992 «Mie notti con Qoelet». Per le Edizioni Piemme è stato pubblicato nel 1991 «Anche Dio è infelice», nel 1992 «Il fuoco di Elia profeta», nel 1994 «Dialogo tra cielo e terra» nel 1995 «Inquietudine dell’Universo», nel 1996 «Oltre la foresta delle fedi».

 


 


Edda CattaniTestimoni del tempo
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La Candelora

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2 Febbraio  “LA CANDELORA”

 Buon Compleanno Elena!!!


            Il 2 Febbraio, nacque la mia  Elena e due anni dopo, il mio primo figlio maschio, di nome Marco, che volava via troppo presto e che oggi penso come un angelo protettore della mia famiglia. Tutti i miei figli, anche l’ultimo, Andrea, che se andò a 22 anni, sono nati in un giorno dedicato alla Madonna. Mi è stato perciò sempre caro questo anniversario legato alla profezia di Simeone.

Vediamolo insieme. Il Bambino aveva quaranta giorni quando fu portato nel Tempio dove lo ricevette il vecchio Simeone nelle sue braccia e gli apparve il futuro che comunicò a Maria: “ Vedi, questo Bambino è destinato ad essere causa e rovina di molti in  Israele e a diventare un segno di contraddizione. A te stessa una spada trafiggerà l’anima!”. (Lc 2,34-35).

Pensiamo a quello che avrà provato Maria che fin dall’inizio della vita del suo bambino, ha sofferto per la profanazione della giustizia, per l’amore offeso di Suo Figlio. Anche noi abbiamo pianto per leggi violate, per il nostro amore calpestato, per la nostra sventura, per la morte dei nostri cari. Vediamo di fare come Maria, il cui dolore fu fecondo, perché santo. Il mondo e l’umanità, in quest’epoca di contraddizioni viene redento anche attraverso la nostra sofferenza ed il nostro dolore sarà fecondo se si tramuterà nell’amore per il prossimo, nella compassione per la miseria degli altri, nella sofferenza per la giustizia e l’onestà. Non ci sarà nulla di amaro e terribile allora, ma qualcosa di straordinaria dolcezza.

Noi accenderemo i nostri ceri benedetti e, per ogni luce, pensiamo ai nostri Cari, Luce radiosa di conforto, di speranza e d’amore.

Oggi Elena è una donna, una piccola grande madre anche lei … Ho fermato questa istantanea sul cellulare e ne ho fatto un quadretto perché mi dava l’idea di una “madonnina”. Ora Elena sa cosa vuol dire essere “mamma”. Questa parola magica che si attende pronunciare dalle labbra del proprio piccolo quando inizia a balbettare, le fa tremare il cuore ogni qualvolta lo raggiunge all’uscita dalla scuola ed io rivivo con lei gli stessi passi, le tante notti insonni, le prime parole scritte, le dolci attese, le prime inquietudini … La storia si ripete dalla nascita e ancora e ancora … perché le mamme ci sono, restano e rimarranno nel  presente, nel soccorso e nella memoria.

 LA MADONNA DELLA CANDELORA

 

La Candelora ha origine nel bacino del Mar Mediterraneo, come per Imloc e i Lupercalia anche la Candelora è la celebrazione dell’arrivo della Luce, della purificazione, della rinascita e la fertilità.
Inizialmente era celebrata il 14 Febbraio, ovvero 40 giorni dopo l’Epifania ma, successivamente fu spostata al 2 Febbraio, ovvero 40 giorni dopo il Natale.
Infatti la Candelora commemora la presentazione di Gesù al Tempio e la purificazione di Maria.
Era usanza ebraica che i bambini maschi fossero presentati e circoncisi al Tempio 40 giorni dopo la nascita, nella stessa occasione le madri erano purificate dal sague che le aveva tenute impure dopo il parto.

Si racconta che quando il bambino Gesù fu presentato al vecchio Simeone questi lo abbia chiamato luce per illuminare le genti.
Per questo motivo, il giorno della Candelora è usanza benedire le candele e i ceri che saranno adoperati durante l’anno nelle liturgie o per le offerte in chiesa o a casa propria.

 

Madonna della Candelora: opera della prima metà del Cinquecento.

(CHIESA DELLA MADONNA DELLE GRAZIE – TOCCO DA CASAURIA – PE)

“Statua di legno, alta m.1,45. Rappresenta la Madonna della Candelora.  E’ seduta con le mani giunte e col Bambino ignudo sulle ginocchia , il quale,  col braccio sinistro, si appoggia a un cuscino ed ha la mano destra elevata, in atto di benedire. La scultura è dipinta. L’abito della Madonna è rosso, il fazzoletto che le copre il capo è giallo ed il manto che copre tutta la persona  è turchino con doratura nell’orlo. Ovale il viso della Madonna  ed anche del Bambino. Chi studia le diverse fasi dell’arte anche nei paesi remoti, non può trascurare l’opera di questo autore a me ignoto. Sta in una nicchia scavata nella parete a destra della stessa chiesa. La sua ubicazione non pare che sia originaria. E’ ben conservata. E’ opera del cinquecento inoltrato, la quale non pare sia stata presa in considerazione”.

 L’inquadramento prospettico della statua lignea  della Madonna della Candelora  in trono è una creazione artistica realizzata  a scopo devozionale. P.S. Iovenitti ne precisa molto bene tale funzione indicando che veniva  esposta il 2 febbraio giorno della purificazione della Madonna e, con benedizione e distribuzione di candele, lo stesso giorno, in penitenziale processione, la Madonna veniva portata dalla chiesa della Madonna delle Grazie a quella di S. Eustachio. La festa della Purificazione aveva particolare importanza per quelle donne che, desiderose di  prole, imploravano l’intercessione della Vergine. Le candele benedette erano apposte sia presso il letto, sia alle finestre la sera in segno di devozione e di protezione.

Tradizioni e proverbi

«Per la candlora, o ch’u piov o ch’u neva da l’inveren a sem fora; ma s’un piov, quaranta dè dl’inveren avem ancora.
(Per la Candelora, se piove o nevica, dall’inverno siamo fuori; ma se non piove, abbiamo ancora quaranta giorni di inverno.)
»

Antico Proverbio


Candelora

 

Presentazione di Gesù al Tampio – Fra Angelico
San Marco

La presentazione di Gesù al Tempio è il simbolo della Luce che ormai si presenta al mondo, la vittoria della luce sulle tenebre è fuori da ogni dubbio, cosí come è ormai evidente che le ore di luce aumentano di giorno in giorno. La vittoria della luce e l’approssimarsi del periodo luminoso è in questo mito sottolineata dalle parole del vecchio Simeone che rappresenta appunto l’inverno, il vecchio, il passato che annuncia il nuovo.

La purificazione di Maria dopo il parto è un chiaro riferimento alla fertilità ma anche al ritorno della madre Terra. Presso gli Ebrei, infatti, era usanza che nei 40 giorni precedenti la purificazione la madre e suo figlio vivessero isolati.
Con la purificazione Maria torna alle genti, torna al mondo dopo l’isolamento nella grotta-ventre-oltremondo. La verginità di Maria, nonostante la sua maternità, rappresenta la purezza della Madre Terra che ancora non conosce dolore e brutture, non conosce il superfluo, la civetteria, la cattiveria, non conosce né il bene né il male; ella conosce solo l’amore, un amore infinito, sconcertante, terribile e meraviglioso che feconda ogni cosa, che genera ogni cosa solo esistendo. Ama poiché non conosce altro modo d’essere, non può essere diversamente. Ella non fa mai del bene a nessuno, non fa mai del male a nessuno, ella Ama, costantemente.

Candelora – Festa di Mezzo Inverno!

La Candelora è una ricorrenza conosciuta in tutto il mondo e celebrata persino negli Stati Uniti. Ovunque la si festeggi e comunque la si chiami fin dalla Notte dei Tempi l’1 Febbraio è considerato il giorno in cui il Sole ritorna a vivere, la Terra torna giovane e fertile.
Le diverse celebrazioni della festa hanno tutte le stessa funzione, quella di prevedere l’esatto arrivo della Primavera attraverso l’interpretazione dei comportamenti degli animali e delle forze della Natura.

LA CANDELORA
di Justine Bellavita

         La Candelora, ricorda il rito di purificazione che la Vergine Maria seguì dopo aver dato alla luce Gesù Cristo, in conformità con la legge mosaica. Nel Levitico è infatti prescritto che ogni madre, che avesse dato alla luce un figlio maschio, sarebbe stata considerata impura per sette giorni, e che per altri trentatré non avrebbe dovuto partecipare a qualsiasi forma di culto. La commemorazione del rituale di purificazione, effettuato da Maria Vergine, dal Vicino Oriente passò a Roma, e, già dal VIII secolo d.C., la festa aveva raggiunto una solennità imponente. A Roma, nel Medioevo, si compiva una lunghissima processione che partiva da Sant’Adriano e attraversava i fori di Nerva e di Traiano, attraverso il colle Esquilino, per raggiungere infine la basilica di Santa Maria Maggiore. In tempi più recenti, la processione si accorciò, svolgendosi intorno alla Basilica di San Pietro. In quell’occasione, all’interno della Basilica, sull’altare venivano poste delle candele, con un fiocco di seta rosso e argento, e con lo stemma papale. Erano scelte tre di queste e la più piccola era consegnata al Papa, mentre le altre due andavano al diacono e al suddiacono ufficiali. Una volta benedetti i ceri, il Papa consegnava la sua candela al cameriere segreto, insieme con il paramano di seta bianca, che gli era servito per proteggersi le mani dalla cera calda, e passava alla benedizione dei ceri.

In molte regioni italiane la Candelora viene ancora oggi rievocata attraverso la messa in scena della Madonna con Gesù e San Simeone. A Chiaromonte, in Sicilia, alla vigilia della festa, le donne del paese effettuavano una processione che le portava in cima alla montagna dove si purificavano bagnandosi con la rugiada. Nel resto d’Italia, la festa della Candelora resta legata ai ceri benedertti. Questi ceri vengono custoditi nelle case, e si ritiene tengano lontani gli influssi maligni. In alcuni paesi costieri si riteneva che i ceri benedetti la Candelora servissero a ritrovare gli annegati. Gettati nell’acqua si sarebbero fermati dove si trovava il corpo dell’annegato.

          

Edda CattaniLa Candelora
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Dal diario di un malato.

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Dal diario di un malato

Tutto me stesso prima di morire.

Un gentile navigatore del nostro sito che sempre porge un erudito contributo alle nostre modeste pagine, mi ha inviato un capitolo tratto da un libro del giornalista Carlo Massa. L’autore muore il 19 agosto 2007 e le ultime note sono del 16. Quando il tumore si fa davvero “ingombrante”, l’autore decide di scrivere di questo “ingombro”, di raccontare sia i nudi fatti (gli ospedali, i medici, le cure), sia la vicenda interiore fatta di speranze e di paure, d”indignazione e di riflessione sulla figura e sul trattamento del “paziente”. Nel tempo, questi temi restano sullo sfondo e viene sempre più in primo piano l’interrogazione della morte e della malattia, come problemi esistenziali, e la relazione con l’altro e con se stessi, come palestra dove fino all’ultimo è doveroso, opportuno, significativo esercitarsi. Forte è il richiamo etico: di come si debba, si possa, si cerchi di vivere e morire secondo un’etica forte, densa di valori e di stoicismo.

Ringrazio P.V. per questo prezioso inserto che pubblico con emozione e gradimento, in quanto tanti sono stati gli spunti per meditare sul mio percorso, sulla realtà della vita e della morte, e come dalla sofferenza possa nascere il grande bisogno di “amare”.

La malattia e la sofferenza sono sempre state tra i problemi più gravi che mettono alla prova la vita umana. Nella malattia l’uomo fa l’esperienza della propria impotenza, dei propri limiti e della propria finitezza. Ogni malattia può farci intravedere la morte. Essa può condurre all’angoscia, al ripiegamento su di sè, talvolta persino alla disperazione e alla ribellione contro Dio. Ma può anche rendere la persona più  matura, aiutarla a discernere nella propria vita ciò che è essenziale e far tornare la persona a Dio, il solo che può guarirla da tutto.

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Ho paura, sono felice. Sono felice, ho paura. L’una cosa marcia di pari passo con l’altra.

È anche in qual­che modo visibile fisicamente. Da una parte la Bestia avanza, silenziosa e sotterranea – in buona parte sot­tocute come una talpa maligna che scava notte e gior­no, colpisce improvvisa, provoca danni più o meno rovinosi. Ho perso l’occhio e l’orecchio sinistri e sen­to che fra non molto, se non cambia qualcosa, toc­cherà al braccio. Dall’altra parte, l’appetito da tempo è tornato, mangio, provo un piacere infantile nel buon cibo, ho ripreso a passeggiare, godo dell’aria, degli alberi, del verso degli uccelli, della terra dei parchi che calpesto, dell’odore della pioggia.

Godo degli altri, specie di quelli che, standomi più vicini, mostrano attenzioni che mi riscaldano e che provocano anche in loro dei cambiamenti.

Sono loro grato perché non c’è pietismo, non c’è retorica, non c’è nessuna gara di buoni sentimenti. Tant’è che la vita continua anche con i fastidi quotidiani, con le piccole incomprensioni, con gli scontri attorno ai vecchi motivi del contendere che, in qual­che modo, mi danno la rassicurante conferma di non essere stato isolato sotto una campana di vetro.

Godo di tutto questo come di una scoperta, come di un nuovo inizio, pur sapendo che è una fine.

Com’è possibile che ciò avvenga? Non lo so e mi limito a constatarlo. Mi limito a rimanere aderente alla mia esperienza, senza tentare di razionalizzare né dì teorizzare niente. Sento semplicemente che il mio corpo e la mia mente sono campo di battaglia di due opposte forze che, poi, opposte forse non sono ma, semplicemente le facce della stessa medaglia. Diffici­le da accettare ma è così.

Mi viene spesso in niente l’immagine dì un film che ho già precedentemente citato e che, più passa il tempo, più mi appare come una metafora perfetta della mia condizione: la partita a scacchi che il cava­liere al ritorno dalle crociate ingaggia con la morte, nel Settimo sigillo di Bergman. L’uomo sa che per­derà, ma tenta ugualmente, chiedendo al suo avver­sario, in caso di vittoria, una semplice dilazione per avere il tempo di rivedere la donna amata. In realtà è il tempo stesso della partita il gioco degli scacchi, si sa, può anche durare molto a lungo per legittime pause – a concedere al cavaliere ciò che vuole. In una notte di orrore e di magia riscoprirà che l’unico sen­so che offre la vita è l’amore. L’amore tra esseri uma­ni e per la natura, con il mistero che sottende. Que­sta scoperta o ri-scoperta fa in realtà di lui il vincito­re della partita.

Anch’io sono impegnato in una lunga partita a scacchi, anch’io so di perdere, ma, avendo accettato di giocarla, sto scoprendo l’amore così come non mi era mai capitato prima. Un amore di cui mi viene continuamente di parlare perché mi sembra che ri­vesta caratteristiche nuove e per me sconosciute. Un amore che, giorno dopo giorno, cresce attorno a me, suscitato anche da una mia attenzione per gli al­tri che non è mai stata così forte. Un amore che ge­nera amore, al di là della paura e della morte o for­se proprio perché tutte le persone che mi amano ti­fano per me in questa partita, iniziando a compren­dere che la vera posta in gioco non è la mia soprav­vivenza fisica.

Da qui e solo da qui scaturisce la forza che mi aiu­ta a combattere la paura, una paura che non si può mai sconfiggere una volta per sempre e che, quando meno me l’aspetto, mi afferra alla gola. E questa for­za che cresce anch’essa parallela, sempre più produ­ce gioia perché mi allontana dall’incubo nel quale sa­rei immerso se non avessi trovato queste risorse.

L’incubo che vedo vivere ad altri compagni di strada più sfortunati.

Mi lascio andare alla corrente, per così dire, alla corrente nella quale confluisce il mio istinto vitale e che mi suggerisce di non oppormi a qualcosa che ap­pare ineluttabile, perché il dolore nasce essenzial­mente dalla non accettazione, dalla recriminazione, dalla rabbiosa rivolta dell’io che tende a non vedere limiti all’appagamento dei propri desideri e bisogni.

Quante volte nel corso della vita ho remato con­tro, facendomi del male e adesso mi appare improv­visamente liberatoria questa mia nuova visione delle cose. Il fiume che va verso il mare ed io con esso. Non voglio sottraimi ad un inevitabile ciclo in cui i binomi si incontrano e si fondono, dolore e gioia, vi­ta e morte. Tutto qua.

Suggestioni poetiche di una mente che “vuole”, che “deve” trovare pace, per non farsi travolgere dal­l’angoscia e dall’orrore? Tutto è possibile, natural­mente, per chi si esercita come me da tanto tempo a stare in guardia contro le suggestioni, le mistificazio­ni e i deliri della mente. Tutto è possibile quando, in qualche modo, c’è “convenienza” a pensare una cosa piuttosto che un’altra. Quando, principalmente, non c’è autorità esterna a fornire appoggio o conferma.

Eppure una sorta di istinto vitale, una voce che parte dal profondo, una voce che rispecchia una “sua” verità mi suggerisce dì andare avanti così, di seguire con calma e con serenità ciò che il cuore, pri­ma della mente, mi suggerisce. Confido nel fatto, tut­to umano, di essere stato riconosciuto sino ad oggi come intellettualmente onesto. È sufficiente, non è sufficiente? Me Io farò bastare.

Riflettevo in questi giorni sul fatto che il cortisone

che mi stanno somministrando e che è alla base della mia “rinascita” fisica ha, come tutti Ì medicinali, del­le pesanti controindicazioni. Si può fare finché i van­taggi superano gli svantaggi, mi ha spiegato il mio buon medico. Ma non è così per ogni cosa della vita? Non hanno tutte le cose belle sempre delle “con­troindicazioni”? Che forse l’amore stesso di una ma­dre – per dire il massimo della bellezza e della dedi­zione – non ne ha? E, se così accade per tutto ciò che ci circonda, non ci sarà in questo un significato profondo da cogliere e sul quale riflettere?

Questa mia lotta quotidiana contro il dolore e le menomazioni che avanzano, contro la paura che tut­to ciò provoca, contro la morte, in definitiva, che diventa un’immagine sempre più concreta, rafforza in me la capacità e la voglia di resistere. L’amore che ve­do negli occhi, prima ancora che nelle parole, di chi mi sta vicino, si trasforma lentamente in gioia e, a tratti, inspiegabilmente, in allegria. In paradossale voglia di giocare, di lasciarmi andare, di far emergere quell’io-bambino soffocato da anni di “maturità” e che adesso, timidamente e con imbarazzo, bussa alla porta.

Qualche sera fa, mentre ero già a letto e mia figlia mi consolava per un improvviso attacco di dolore, ho visto nei suoi occhi un sorriso diverso dal solito. Un sorriso se­reno e tranquillo di chi ha intuito che ce la facevo a vin­cere quel momento e che, per questo, era felice.

Vivo, insomma. Essendomi adattato anche stavol­ta alle nuove botte, ai nuovi colpi di catapulta – per continuare nella metafora della fortezza assediata –che mi stanno smantellando pezzo a pezzo.

Vivo anche e sempre con la curiosità delle fron­tiere che continuamente sono costretto ad attraversa­re in una geografia del dolore e della paura che non avrei creduto possibile affrontare.

La prua di una nave che scompare sotto ondate di schiuma in un mare affollato di giganteschi iceberg, un gruppo di inuit siberiani che si intravedono dietro a una montagna di aringhe, cavalli ai galoppo in una nuvola di polvere, un raggio di sole carico di pulvi­scolo che fende l’ombra di un vicolo della vecchia Istanbul, un bambino che mi osserva dietro un vetro rigato dalla pioggia, immagini, frammenti di immagi­ni che si mescolano a una fitta di dolore, a un mo­mento di paura. La malattia è per me anche questo, un frequente contrappunto tra ciò che il mio vissuto mi offre di bello e di vitale e la negatività che mi si ro­vescia contro, in un assalto sempre più serrato. È come se, nel momento in cui il mio essere rischia di es­sere travolto dalla sua fragilità, gli venisse in soccor­so con queste immagini la sua parte onirica. Quella parte di sogno-avventura che, in un periodo della mia vita, sono riuscito a realizzare. Quel sogno che ha risvegliato ogni volta il mio io-bambino: la molla principale per rispondere all’insorgere della malattia con la scrittura. Scrittura terapeutica senz’altro, per­ché senza di essa non sarei riuscito a vivere bene que­sti ultimi anni e a fare il percorso che credo di aver fatto. Ed è così che mi viene da pensare, con emozio­ne, che dal sogno di un bambino ormai alle soglie della morte si è dipanato un filo lungo una vita che ha prodotto realtà capaci di contrastarla.

Avevo lasciato da qualche giorno queste pagine per tornarci ancora sopra, quando la situazione è ul­teriormente peggiorata. Tanto da rendere consiglia­bile un breve ricovero all ‘hospìce dove mi curano amorevolmente. Oltre ad essermi indebolito tanto da fare molta fatica nel sollevarmi da solo, oggi la bocca mi si è ulteriormente chiusa. Faccio sempre più fati­ca a mangiare e, quindi, anche a parlare. Ma la voglia di scrivere non mi abbandona e vorrei testimoniarla finché è possibile. Perché è in questo scrivere il mio conforto e la mia forza, la sicurezza di sapere che non resterò veramente solo finché sarò in grado di comu­nicare. Il peggio è tutto avanti a me e allora ho biso­gno di pensare alle persone a me care che mi stanno intorno perché è da loro che nasce in definitiva il nu­trimento della mia scrittura. Da mio figlio che a giorni si laurea, da mia figlia che ha finito oggi la sua ses­sione estiva di esami, dalla mia ex-compagna che mi sta vicino e mi legge con amore un libro, dalla mia ex- moglie che mi ha riempito il freezer con i suoi buoni piatti. Dai miei amici tutti che telefonano e mi vengono a trovare e mi raccontano storie. Da tutte queste persone care insomma che mi danno il senso prezioso di una vita che continua, così grande e ge­nerosa da accogliere come sua “logica” componente anche la mia morte.

 


13 luglio 2007

 

 

 

 

 

Edda CattaniDal diario di un malato.
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Per non dimenticare: 27 gennaio

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Una coscienza sul passato per un futuro migliore

Nel 2000 venne istituito dal Parlamento italiano il Giorno della Memoria, il 27 gennaio, per ricordare quel giorno del 1945, in cui furono aperti i cancelli della città polacca di Auschwitz e fu svelato l’orrore del campo di sterminio, delle deportazioni, del genocidio nazista che causò la morte di milioni di persone, soprattutto ebrei.

Passare dalla memoria alla storia è il percorso che molti studiosi stanno compiendo ormai da anni nella lettura nella Shoah e dello sterminio nazista.

 La storia europea degli ultimi 60 anni è stata connotata dalla terribile tragedia della seconda guerra mondiale e dallo sterminio nei lager. Una storia vissuta in prima persona anche da chi è nato dopo la guerra, perché troppo fortemente quella vicenda ha segnato tutti coloro che l’hanno vissuta, anche se non hanno subito direttamente la deportazione. Il dramma dei sopravvissuti, la testimonianza di chi ha visto ed è tornato dall’orrore e dall’inferno per raccontarcelo ha coinvolto anche chi non c’era. La letteratura, il cinema, il teatro, le mille forme della comunicazione e della narrazione hanno attinto alle stesse fonti della storia.

 Con il passare del tempo, per ragioni anagrafiche, i testimoni cominciano a scomparire e corriamo il rischio che con essi scompaia anche la memoria di quei fatti, lasciati appunto allo studio della storia.

 E invece la memoria è importante non solo perché tiene vivo il ricordo di quei fatti. Ma, come ricorda David Bidussa, “la memoria è un atto che si compie tra vivi ed è volto […] alla costruzione di una coscienza pubblica, essa ha un valore pragmatico, serve per fare qualcosa”.

Coltivare la memoria di ciò che è stato non è allora solo il rituale dovuto ogni anno per celebrare il 27 gennaio. Questa data, ricorda sempre Bidussa, non è il giorno dei morti. La memoria ha un senso se coltivata al futuro, se ci consente, interrogandoci su ciò che è stato, di trovare il modo di prevenire, di sviluppare gli anticorpi sociali e culturali dello sterminio, del razzismo, dell’annientamento di popoli e culture. Osservando quanto sta succedendo nel nostro mondo e purtroppo anche in Italia, siamo in crisi di memoria e gli anticorpi democratici si stanno indebolendo. Ecco perché è importante che il 27 gennaio non sia una celebrazione rituale. (da siti internet)

  

Il senso del Giorno della Memoria

 Il 27 gennaio 1945, venivano aperti i cancelli di Auschwitz. Le immagini che apparvero agli occhi dei soldati sovietici che liberarono il campo, sono impresse nella nostra memoria collettiva. Ad Auschwitz, come negli innumerevoli altri campi di concentramento e di sterminio creati dalla Germania nazista, erano stati commessi crimini di incredibile efferatezza. Tali crimini non furono commessi solo contro il popolo ebraico e gli altri popoli e categorie oppressi, ma contro tutta l’umanità, segnando una sorta di punto di non ritorno nella Storia. 

 

NUOVI LIBRI DELLA SHOAH
La ricorrenza
Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche dell’Armata Rossa, nel corso di un’offensiva in direzione di Berlino, arrivarono presso la città polacca di Auschwitz, scoprendo l’orrore del campo di concentramento e svelando per la prima volta al mondo le stragi del genocidio nazista. Dal 2000 anche il nostro Paese ha scelto questa data per commemorare le vittime dell’Olocausto, che si stimano fra i 13 e i 19 milioni di persone, uccise e cremate nell’arco di quattro anni.
libri della Shoah
 
24 Gen 2011
Il profumo delle foglie di limonedi Clara Sanchez

Il profumo delle foglie di limone di Clara Sanchez Uscito in sordina in Spagna, ha ben presto ha scalato le classifiche vendendo migliaia di copie grazie al passaparola del pubblico. Poi è venuta la consacrazione della critica: la vittoria del Nadal, il premio letterario spagnolo più antico e prestigioso, e la stampa che gli ha dedicato pagine e pagine. A metà strada tra storia di iniziazione e thriller psicologico, iL PROFUMO DELLE FOGLIE DI LIMONE fa incrociare le vite di Fredrik e Karin, una coppia di ex criminali nazisti rifugiatisi nella Costa Blanca spagnola, di Julian, un anziano repubblicano spagnolo che fu imprigionato nel campo di Mauthausen, e di Sandra, una giovane donna sulla trentina che ha scelto di trovare rifugio sulla costa alla ricerca di un angolo di mondo in cui sentirsi ancora viva.
 

23 Gen 2011
Il segreto della casa sul cortile di Lia Levi

Il segreto della casa sul cortile di Lia Levi

Giornalista e sceneggiatrice, oltre che apprezzata autrice di romanzi per ragazzi, Lia Levi ha scritto libri davvero toccanti e profondi sulle vergognose leggi razziali del 1938, sulle sofferenze degli italiani di religione ebraica, ma anche sulla solidarietà che si è spesso creata nella popolazione italiana verso questi perseguitati. Il periodo nel quale si svolge IL SEGRETO DELLA CASA SUL CORTILE è quello tra il 1943 e il 1945. Siamo alla vigilia dei terribili rastrellamenti del ghetto di Roma che ha portato migliaia di persone verso la morte nei campi di sterminio.
 

22 Gen 2011

Ti racconto la mia storia di Tullia Zevi, Nathania Zevi

Ti racconto la mia storia. Dialogo tra nonna e nipote sull'ebraismo di Tullia Zevi, Nathania Zevi Scompare Tullia Zevi all’età di 91 anni, giornalista e scrittrice milanese che dedicò l’intera vita a favore dell’educazione, dell’arte e della cultura, e all’impegno nella comunità ebraica italiana. Quando uscirono i primi decreti razziali Tullia Zevi aveva solo diciott’anni e dalla Svizzera, dove si trovava in villeggiatura, non poté far ritorno in Italia fino alla fine della guerra. La sua vita, come quella di tanti altri, ne fu sconvolta. Dall’esilio in Svizzera, poi Parigi, l’America e infine Roma.
 

18 Gen 2011
Le valigie di Auschwitzdi Daniela Palumbo

Le valigie di Auschwitz di Daniela Palumbo

Nulla è più sconvolgente della guerra. Nulla lo è stato più dell’eliminazione in massa degli ebrei per volere di un solo uomo. Che lo aveva deciso. Che aveva deciso che così doveva essere. Perché era giusto. Ma nulla, davvero, è più atroce di una moria in cui le vittime sono annichilite e impotenti. Di fronte alla crudeltà, di fronte ad una forza distruttrice che non ha paragoni.
Se doveste mai fare una visita al campo di sterminio di Auschwitz, in questo venichtungslager, non potrete non rimanere colpiti dalla stanza 4 del blocco 5. Dietro la cui vetrata si erge una montagna. Quella dei nomi e dei cognomi, quella delle città e delle vie scritte in tutta fretta. Con la segreta speranza, l’incosciente e la cosciente consapevolezza del non-ritorno. La montagna di valigie dei deportati nel campo. Quelli che appena arrivati venivano subito eliminati perché considerati più deboli dei deboli. Così, senza un vero perché, senza una vera ragione. Solo perchè diversi. Questa è la storia raccontata daDaniela Palumbo nel suoLE VALIGE DI AUSCHWITZ Attraverso racconti e testimonianze. “Ho saputo che è esistito un tempo in cui dei bambini venivano costretti a partire con una valigia riempita in fretta, per una destinazione che non conoscevano e non facevano ritorno a casa, mai più”. Le storie racchiuse in questo libro sono la traccia di un passaggio. Quello di 5 bambini: Carlo, Hannah, Jakob, Dawid, Emeline. Ognuno con la propria dolorosa quotidianità e accompagnata da un viaggio nella sofferenza della diversità. Ma che va ricordata e raccontata. “Il luogo che conserva la memoria di quei bambini e delle loro piccole valigie , si chiama Auschwitz”.
E’ la storia di questi bambini che innocenti vittime hanno percorso un breve tratto della loro vita. Alcuni l’hanno proseguita. Altri si sono persi per sempre.
Per tutti il comun denominatore è una stella. Quella gialla della diversità. Quella luminosa che brilla nel cielo e che ce li fa ricordare.
Purtroppo sempre troppo poco. Purtroppo sempre più raramente.
Ecco il motivo per cui esistono libri come questo. Per mantenere questo scintillio vivo. Brillante.
Ha vinto il Premio Letterario Il Battello a Vapore, dedicato a romanzi inediti per ragazzi e indetto dalle Edizioni Piemme.

“In questo libro racconterò una storia, anzi più storie, di bambini che sono esistiti tanti anni fa, quando non ero ancora nata”. Dove ha sentito le storie di questi cinque bambini? 
Le storie narrate  sono frutto di invenzione letteraria. Eppure sono vere. Sono vere nella misura in cui la scrittura, il raccontare le storie della vita, permette allo scrittore di dare corpo e anima all’umanità rarefatta (in questo caso) che è nei libri di storia, nei ricordi dei testimoni, nella didascalie di una foto. Sono vere perché Jakob, Hannah, Carlo, Emeline e Dawid, rappresentano tutti quei bambini che sono scesi dal treno ad Auschwitz e sono stati messi nella fila degli inutili: quella che andava direttamente alle docce, ovvero nelle camere a gas e ai forni. I tedeschi chiamavano i prigionieri dei lager haftling che vuol dire pezzo. I pezzi inutili erano tutti i bambini fino ai 13 anni, perché non potevano lavorare e venivano immediatamente gasati.

Scrivere per non dimenticare o scrivere per insegnare?
Scrivere per non dimenticare. La shoah non riguarda solo gli ebrei, ma l’umanità tutta. Perché è una pagina della Storia che ha segnato un confine: dopo Auschwitz è come se l’umanità avesse persol’innocenza, non abbiamo più potuto rappresentarci allo stesso modo. È come se il peso di quell’insensata catastrofe sia dentro tutti noi. L’uomo, ieri e oggi e domani, dovrà sempre tremare di vergogna conoscendo la verità perché, come ha scritto Primo Levi, se è accaduto una volta, può riaccadere. Il silenzio e l’indifferenza, solo in parte giustificati con la paura che il regime nazista incuteva, sono stati complici del sistema-lager. Moltissimi sapevano ma potevano fare finta di non sapere perché i tedeschi cercavano di nascondere la verità. E allora la memoria è consapevolezza, l’ignoranza è viltà. E oggi che stanno scomparendo i testimoni diretti assumono sempre più importanza due cose: gli oggetti dei prigionieri, come le Valigie, dove sono scritti indelebilmente nomi e cognomi di chi è esistito, prima di essere inghiottito ad Auschwitz. E le persone, non solo di origine ebraica, che credono nel passaggio del testimone: sapere e raccontare, anche senza aver vissuto, diventa un’assunzione di responsabilità di fronte alla ferita insanabile subita da un’umanità inerme. Ma è anche un atto di responsabilità verso le generazioni future: che non possano mai dire, io non c’entro, non mi riguarda.

Quanto può essere dolorosa una scrittura sul tema dell’Olocausto?
C’è un dolore privato in cui metti in gioco la tua sensibilità, la tua formazione, la storia personale di essere umano, di donna, di madre anche. E c’è un dolore più profondo forse, il dolore dell’appartenenza a un’umanità che ha potuto strappare i figli dalle madri per gettarli nei forni. Poi tornare a casa, suonare il pianoforte con i figli accanto, portare fiori alla moglie, mettere la mantella al cane per la pioggia, accompagnare a scuola i figli e, finiti i giorni di congedo, tornare sereno al lavoro, nel lager.

Valeria Merlini

 

 

Edda CattaniPer non dimenticare: 27 gennaio
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“Schindler’s list”

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“Schindler’s list”

“Chiunque salvi una vita salva il mondo intero”

Schindler’s List è un film del 1993 diretto da Steven Spielberg, interpretato da Liam NeesonBen Kingsley e Ralph Fiennes.

Ispirato al romanzo La lista di Schindler di Thomas Keneally, basato sulla vera storia di Oskar Schindler, permise a Spielberg di raggiungere la definitiva consacrazione tra i grandi registi, vincendo l’Oscar per la “miglior regia” e il “miglior film”.

Il film è stato girato interamente in bianco e nero, fatta eccezione per quattro scene: la prima è la scena iniziale, in cui si vedono due candele spegnersi, così come, simbolicamente, la fiammella di altre due candele riacquista colore verso il termine della storia, la seconda e la terza, dove appare una bambina con un cappotto rosso, la prima durante il rastrellamento del ghetto e la seconda durante la riesumazione delle vittime, e l’ultima durante la scena finale.

La bambina con il cappotto rosso (dal film di Steven Spielberg)

Da FB il commento di F.S. 

“perchè non potrebbero rubarci l’amore…” L’amore, quello che ci fa perdonare, quello che ci sostiene,salva, sempre e comunque, l’unica vera ricchezza che , non si quantifica, nè , come di ci tu si ruba, ma si dona e si riceve… non salvi solo la tua di anima, ma anche quella di chi ti legge… l’amore quello infinito che varca i confini della vita e della morte… L’amore quello che ci fà essere persone migliori, che ci unisce, nonostante diversità o distanze… L’amore, quello con la A maiuscola,che un caro amico del cyberspazio ;),mai conosciuto di persona ti dimostra scrivendo cose meravigliose, quello di cui spesso mi nutro leggendo le tue note, e quello che goffamente cerco di “donarti”, con i miei commenti , e messaggi nei momenti per te più bui …l’amore, quello che mi unisce ai tuoi alti e ai tuoi bassi di uomo e padre… l’amore l’unico mezzo di resurrezione per chi è morto dentro… l’amore…. 
Edda Cattani“Schindler’s list”
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I confini della misericordia

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I confini della misericordia

Ma davvero la famiglia della dottrina ecclesiastica corrisponde al disegno di Dio? 

Vito Mancuso su Repubblica del 23 gennaio 2016

 

Contrariamente a molte altre volte, il Papa non ha sorpreso nessuno con il discorso di ieri al Tribunale della Rota Romana, un testo del tutto secondo copione, il medesimo che non solo Benedetto XVI e Giovanni Paolo II ma anche tutti gli altri 263 Papi avrebbero potuto tenere. Francesco ha detto che «non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione», perché la famiglia tradizionale (cioè quella «fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo») appartiene «al sogno di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità». Vi è quindi un modello canonico di famiglia, rispetto al quale tutte le altre forme di unione affettiva e permanente sono livelli più o meno intensi di quanto il Papa ha definito «uno stato oggettivo di errore». È per questo che solo la famiglia della dottrina ecclesiastica merita il nome di famiglia, mentre a tutte le altre spetta il termine meno intenso di «unione».

Ma è proprio vero che la famiglia della dottrina ecclesiastica corrisponde al disegno di Dio? Oppure è anch’essa una determinata espressione sociale, nata in un certo momento della storia e quindi in un altro momento destinata a tramontare, come sta avvenendo proprio ai nostri giorni all’interno delle società occidentali? Penso che il referendum della cattolicissima Irlanda con cui è stata mutata la costituzione per permettere a persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio sia una lezione imprescindibile per il cattolicesimo, della quale però a Roma ancora si fatica a prendere atto. In realtà che la famiglia evolva e cambi lo mostra già il linguaggio. Il termine “famiglia” deriva dal latino familia e sembra quindi dotato di una stabilità più che millenaria, ma se si consulta il dizionario si vede che il termine latino, ben lungi dall’essere ristretto al modello di famiglia della dottrina cattolica, esprime una gamma di significati ben più ampia: «Complesso degli schiavi, servitù; truppa, masnada; compagnia di comici; l’intera casa che comprende membri liberi e schiavi; stirpe, schiatta, gente». Lo stesso vale per il greco del Nuovo Testamento, la lingua della rivelazione divina per il cristianesimo, che conosce un significato del tutto simile al latino in quanto usa al riguardo il termine oikia, che significa in primo luogo “casa” (da qui deriva anche il termine “parrocchia”, formato da oikia + la preposizione parà che significa “presso”). Anche nell’ebraico biblico casa e famiglia sono sinonimi, dire “casa di Davide” è lo stesso di “famiglia di Davide”: si rimanda cioè al casato, comprendendo mogli, figli, schiavi, concubine, beni mobili e immobili.

Quindi le lingue della rivelazione di Dio non conoscono il termine famiglia nel senso usato dalla dottrina cattolica tradizionale e ribadito ieri dal Papa. Non è un po’ strano? La stranezza aumenta se si apre la Bibbia. È vero che in essa si legge che «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno un’unica carne» (Genesi 2,24), ma se si analizzano le esistenze concrete degli uomini scelti da Dio quali veicoli della sua rivelazione si vede uno scenario molto diverso con altre forme di famiglia: Abramo ebbe 3 mogli (Sara, Agar e Keturà), Giacobbe 2, Esaù 3, Davide 8, Salomone 700. A parte Salomone, che in effetti eccedette, non c’è una sola parola di biasimo della Bibbia a loro riguardo. Che dire? La parola di Dio è contro il disegno di Dio? Oppure si tratta di testi che vanno interpretati storicamente? Ma se vanno interpretati storicamente i testi biblici, come non affermare che va interpretato storicamente anche il modello di famiglia della dottrina ecclesiastica?

Ciò dovrebbe indurre, a mio avviso, a evitare affermazioni quali «stato oggettivo di errore». La vita quotidiana nella sua concretezza insegna che vi sono unioni ben poco tradizionali di esseri umani nelle quali l’armonia, il rispetto, l’amore sono visibili da tutti, e viceversa unioni con tanto di sacramento cattolico nelle quali la vita è un inferno. Siamo quindi davvero sicuri che la dottrina cattolica tradizionale sulla famiglia sia coerente con l’affermazione tanto cara a papa Francesco secondo cui «il nome di Dio è misericordia»? Io ovviamente mi posso sbagliare, ma mi sento di poter affermare che Dio non pensa la famiglia, meno che mai quella del Codice di diritto canonico. Pensa piuttosto la relazione armoniosa alla quale chiama tutti gli esseri umani, perché il senso dello stare al mondo è esattamente la relazione armoniosa, che si esplicita in diversi modi e che trova il suo compimento nell’amore. Ogni singolo è chiamato all’amore: questo è il senso della vita umana secondo il nucleo della rivelazione cristiana. Sicché nessuno deve poter essere escluso dalla possibilità di un amore pieno, totale, anche pubblicamente riconosciuto. Ed è precisamente per questo che ci si sposa: perché il proprio amore, da fatto semplicemente privato, acquisti una dimensione pubblica, politica, in quanto riconosciuto dalla polis. Questo amore è definibile come integrale, in quanto integra la dimensione soggettiva con la dimensione pubblica e oggettiva dell’esistenza umana.

La nascita di alcuni esseri umani con un’inestirpabile inclinazione sessuale verso persone del proprio sesso è un fatto, non piccolo peraltro: essi devono strutturalmente rimanere esclusi dalla possibilità dell’amore integrale? In realtà l’aspirazione all’amore integrale deve essere riconosciuto come diritto inalienabile di ogni essere umano acquisito alla nascita. L’amore integrale è un diritto nativo, primigenio, radicale, riguarda cioè la radice stessa dell’essere umano, e nessuno ne può essere privato. Spesso nel passato non pochi lo sono stati, e ancora oggi in molte parti del mondo non di rado continuano a esserlo. Oggi però il tempo è compiuto per sostenere nel modo più esplicito che tutti hanno il diritto di realizzarsi nell’amore integrale, eteroaffettivi e omoaffettivi senza distinzione. La maturità di una società si misura sulla possibilità data a ciascun cittadino di realizzare il diritto nativo all’amore integrale, ma io credo che anche la maturità della comunità cristiana si misuri sulla capacità di accoglienza di tutti i figli di Dio così come sono venuti al mondo, nessuno escluso.

Che cosa vuol dire che «il nome di Dio è misericordia» per chi nasce omosessuale? È abbastanza facile dire che Dio è misericordia quando ci si trova al cospetto di casi elaborati da secoli di esperienza. Più difficile quando ci si trova al cospetto della richiesta di riconoscimento della piena dignità da parte di chi per secoli ha dovuto reprimere la propria identità. Qui la misericordia la si può esercitare solo modificando la propria visione del mondo, ovvero infrangendo il tabù della dottrina. Ma è qui che si misura la verità evangelica, qui si vede se vale di più il sabato o l’uomo. Qui papa Francesco si gioca buona parte del valore profetico del suo pontificato.

 

 

 

Edda CattaniI confini della misericordia
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Ho bisogno di Te!

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La mia preghiera 

 

“Io ho bisogno di un Dio come Te, mio Dio. Ho necessità di sapere  che mi comprendi, che  stai dalla mia parte, Tu che ti chiami Padre, Dio mio!

 

Ho bisogno di Te per crescere e comprendere che anche Tu hai pianto con me quella notte mentre si azzerava il  mio senso di onnipotenza, che ti sdraiavi sulla croce mentre io graffiavo la lapide del sepolcro, che mi chiamavi a Te per darmi, nella mia vuota disperazione, il dono, come al Figliol Prodigo, della Tua mensa.

 

Voglio pensare che Tu hai un disegno su me, su tutti noi e soprattutto sui nostri Figli… perché desidero sapere che li impieghi bene, che Tu li adoperi in una  missione, in un cammino in cui sono portati all’evoluzione mentre si adoperano per gli altri. Ci hanno detto che hanno compiti da svolgere. E come potrebbe essere diversamente? Hai un buon esercito, Dio mio; giovani menti e cuori saldi e generosi.

 

In questo progetto voglio esserci anch’io, con le mie cadute, le mie esasperazioni, il mio modesto credere e la mia speranza di sapere aiutare chi mi incontra nel cammino!

 

Non sopporto, Signore, l’ignavia, la mollezza, l’indecisione, l’apatia e non mi va l’immagine di Te trionfante e immobile come ti avevo visto nei mosaici della mia Ravenna, quando, giovanetta, guardavo affascinata tutta quella ricchezza e quello sfavillio di pietruzze d’oro, acclamando la Tua Regalità e la Tua potenza. Non mi dicono nulla gli affreschi giotteschi con quella schiera di angeli tutti uguali ed immobili davanti alla Tua maestosità.

 

Di Te mi piace pensare come al vento impetuoso, al turbinare delle onde, al cielo stellato. Tu Dio mio, dalle innumerevoli facce, che mi dai immagini di Te sempre nuove, sono certa che avrai nuovi progetti sulla mia vita terrena ormai agli sgoccioli, come avrai trovato il modo di coinvolgere i miei adorati Figli, il mio Andrea, giovane soldato che ti definiva “Signore, Dio degli eserciti” e li avrai portati a svolgere ed a vivere, perché di vita si tratta, un’avventura affascinante, entusiasmante, sconvolgente.

 

Questi Nuovi Angeli sono i veri Tuoi messaggeri! Uno stuolo di anime belle, coinvolte in un disegno che solo Tu conosci e che, un giorno, vedremo anche noi e condivideremo nella patria celeste.”

 

 

 

E voglio terminare con le parole di Don Tonino Bello:

 

“Da quando l’Uomo della Croce è stato issato sul patibolo, quel legno del fallimento è divenuto il parametro vero di ogni vittoria, e le sconfitte non vanno più dimensionate sui naufragi in cui annegano i sogni. Anzi, se è vero che Gesù ha operato più salvezza con le mani inchiodate sulla Croce, nella simbologia dell’impotenza, che non con le mani stese sui malati, nell’atto del prodigio, vuol dire, cari fratelli delusi, che è proprio quella porzione di sogno, che se n’è volata via senza realizzarsi, a dare ai ruderi della nostra vita, come per certe statue monche dell’antichità, il pregio della riuscita.”

 

Edda CattaniHo bisogno di Te!
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Vino nuovo…

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Finora… (di Alessandro Dehò)
(Giovanni 2,1-11)

Entra nel mondo come lievito, invitato tra gli invitati. Gli amici, la madre, un po’ di festa, questa la sua solennità, questo il suo tempio. Entra tra le voci e le risa, muove i suoi passi tra i costumi di una religione che prova a dare senso al vivere, cammina nel cuore di un umano che prova a promettersi eternità per sconfiggere almeno per un poco la morte. Entra in un mondo profumato di carni arrostite al fuoco, di pane e di vino, di danze, musiche, risate sguaiate, tristezze velate, frasi urlate e parole sommesse… entra nella vita che non ha vergogna di mostrarsi così come è, a Cana, in un matrimonio come tanti, entra, Gesù, da invitato.

Poi diranno che a Cana tutto è iniziato, che è stata inaugurata l’Alleanza definitiva, che l’Antico Testamento stava diventando Nuovo e che lo sposo atteso era proprio Gesù… ed è tutto vero però, dopo. Intanto Gesù è invitato tra gli invitati. E accetta l’invito. E credo che tutto inizi davvero così, anche per noi. Se vogliamo dare inizio ai segni cioè rinascere a una vita significativa per noi e per gli altri dobbiamo innanzitutto accettare l’invito che la vita ci offre. Invito all’umanità. Accogliere con gratitudine di essere stati invitati da questa vita anche se spesso sembra un matrimonio tra disperati che non riescono a portare a termine mezza festa. Accogliere l’invito significa entrare nella storia e accoglierne i profumi e gli odori, le danze e le risa anche sguaiate, significa non deridere lo scambio umano di promesse di eternità anche se lo sappiamo, sono sempre troppo enormi. Non stare fuori dalla festa. Farne parte. Da invitato tra gli invitati. Maturando un profondo legame con tutti gli altri commensali, imparando a guardarli con tenerezza e misericordia. Ridere con loro e mai di loro. Mi pare che questo sia il vero segno di inizio che Gesù ci consegna, ben prima dell’acqua in vino c’è questa totale immersione nell’umanità. Ospiti dell’umano, a noi il dolce impegnativo compito di farlo fiorire. Per noi e per gli altri. Trasformandoci, vero miracolo, da anfore vuote in sorgenti sorprendenti di vita.

Poi il vino finisce, lo sappiamo. Maria si accorge. Lei è donna, è madre, la vita le ha già insegnato a partorire uno sguardo attento al mondo. Dopo scopriremo che quel vino è simbolo e segno di tutte le feste umane esaurite, di una Alleanza con Dio che andava rinnovata… dopo. Intanto è vino finito. È storia che interroga. E questo è l’altro nuovo inizio prima dell’acqua in vino. L’invitato Gesù comprende che dare inizio ai segni, significa lasciarsi ferire dalla vita. Che quel vino finito, quella festa che implora un nuovo tempo, quel mondo che Maria riesce a far pregare è bordo vertiginoso da oltrepassare. Un punto di non ritorno certo, un cominciare a dare la vita, la propria, come Segno. È bellissimo questo Gesù che impara dalla vita che accade. Perché la verità fiorisce dal nostro rapporto con gli eventi. Siamo chiamati, ed è questa la fede, a lasciare che la vita ci ferisca. Anche con le sue improvvise richieste. È finito il vino: quando un amore si inceppa, quando la malattia increspa la calma, quando mi perdo, quando mi lasciano, quando non trovo casa, quando non capisco più la persona che amo… vino finito. E’ la vita che interroga. E diventa significativa se io imparo a rispondere con la vita stessa. Perché da Cana Gesù sta imparando. Per quando giungerà la sua ora. Per quando, in altra cena ultima, a rimanere sarà il vino ma lui no, lui sarà chiamato a “finire”. Impara Gesù dalla vita, e quando sarà chiamato a trasformare non solo acqua in vino ma vino in sangue sarà Cana portata a compimento. Impara Gesù dalla vita, perché il Segno vero, una vita significativa, è saper imparare, e quando sarà solo, festa finita, nell’orto degli Ulivi sicuramente ricorderà le parole di Maria “Qualsiasi cosa vi dica, fatela” e allora alzerà lo sguardo a quel cielo senza stelle e ricordando il vino di Cana e della ultima Cena dirà: se puoi allontana da me questo calice ma dimmi quello che vuoi… e qualsiasi cosa dirai io lo farò. Fede, fede vera, è lasciare che la vita ci interroghi, è imparare a bere il calice fino in fondo, è accettare che abbiamo bisogno di tempo per arrivare alla nostra ora, è non far passare le cose invano, è imparare. Imparare a non pretendere che la vita segua i nostri tempi ma amare così totalmente la storia da trasformarla, vero segno, da acqua che scorre verso la morte a vino che sorprende di possibilità inaspettate di alleanza. È lasciar scorrere la vita incontro a noi, lasciare che ci interroghi e non limitarsi a subirla: dalla roccia di una ferita può scaturire vita nuova.

E poi è il rumore delle anfore che si riempiono. In fondo la disperazione non è il dolore ma il vuoto. E quello che succede è che in quel contesto di festa nessuno si accorge ma Gesù dà inizio a un Segno nuovo. E il Segno è che è finito il tempo della purificazione e iniziato il tempo della festa. Anche se ancora non l’abbiamo compreso. Fede, fede vera, da quel giorno di Cana, non è credere in un Dio che ci immagina puri, senza scorie, immacolati di fronte alla vita… da quel giorno di Cana è ancora più chiaro che Dio ci immagina vita profumata e calda come sorso di vino. Calore e profumo di terra e di cielo, la vita che abbassa le difese e scioglie la parola, la vita che chiede di essere cantata e condivisa: la vita viva. Invitati a vivere passando dalla logica del sacrificio alla grammatica della passione. Non siamo stati invitati al mondo per essere puri ma per continuare a cercarci, uomini tar gli uomini, anfore riempite di profumo, per dare inizio ai segni, cioè per rendere questa vita, tutta la nostra vita un Segno. Segno di una speranza, segno di un incontro, segno di una vita che chiede di condividere il calore di amare e di lasciarsi amare. Segno di una vita che quando crede nell’uomo profuma di festa, di vino buono.

Solo così si trasforma la vita. E segno, segno vero, non è l’acqua in vino ma la stanchezza in stupore, l’esaurimento in rinascita: tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora. Segno, segno vero, è permettere una delle dichiarazioni di fede più belle e commoventi del Vangelo. Fede nella vita che finalmente si mostra per quello che è: promettente. Promette di non vivere di esaurimento in esaurimento, promette di non illudere con sogni buoni che poi si incagliano in realtà usurate, promette di non ingannare, approfittando dello stordimento, cambiando vino in tavola. È tempo del finora: quando il vino buono viene tolto dalla cantina. E’ tempo che nelle nostre Comunità si ricominci a condividere il profumo di una vita promettente creando le condizioni perché fiorisca. È tempo di imparare la trasformazione vera che non è quella dell’acqua in vino ma quella dello sguardo del maestro di tavola che riconosce, stupito e grato, la bontà della vita.

 

 

Edda CattaniVino nuovo…
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