Io e l’aldilà
(intervista di L.Vaccari)
Vittorio Messori dice che per affrontare l’argomento dell’aldilà un piccolo aneddoto forse può essere utile. Quando faceva il giornalista a Tuttolibri, l’inserto settimanale del quotidiano La Stampa, ha pubblicato Ipotesi su Gesù. Nessuno, neanche l’autore, si aspettava il successo internazionale che ha avuto: traduzioni in tutto il mondo, un milione di copie vendute in Italia. “Gli editori mi sollecitano a scrivere ancora”, ricorda. “Per sei anni taccio”. Vuole fare, come farà, Scommessa sulla morte. Ed ecco il fatterello: “Presento il manoscritto alla Sei e in Casa editrice rimangono interdetti: “No. Non possiamo mettere la parola morte in copertina” “. Esplode addirittura una rivolta della Rete commerciale: “Mi chiedono di cambiare titolo, perché, secondo loro, librai e lettori, leggendo quel vocabolo, si sarebbero toccati i genitali o avrebbero afferrato altri amuleti”. Messori non cede. Il libro esce e vende immediatamente 350 mila copie. “Ho tenuto duro perché Scommessa sulla morte sostiene che espellere o rimuovere la morte è il percorso migliore per avvelenare la vita”.
Pensa spesso all’ultimo atto, che, “per quanto sia stata bella la commedia”, scrive Blaise Pascal, “è sempre tragico”?
“Come tutti quelli che amano davvero la vita. Il modo per essere davvero necrofilo è cercare di dimenticare o di scacciare la morte: l’unico per dargliela vinta. Se non l’affrontiamo, e non cerchiamo di esorcizzarla, pensandoci, quest’ombra inquietante invade la nostra esistenza e la intossica”, risponde Messori, emiliano di Sassuolo (in provincia di Modena), 61 anni, scrittore di una quindicina di libri (l’ultimo: Conversione racconta il ritorno alla fede di Leonardo Mondadori), collaboratore del Corriere della Sera.
Pensa alla sua morte, in particolare, o anche alla morte dei suoi cari?
“Pensare alla morte per me vuol dire innanzitutto avere il senso della precarietà, della relatività del tutto, dello scorrere del tempo. La morte è una presenza indispensabile. Ma, come per tutti i credenti che non hanno perso la prospettiva cristiana, quale significato avrebbe la fede se non mi assicurasse che la vita terrena non è altro che una preparazione alla Vita: quella che c’è dopo la morte? Una delle ragioni della crisi del Cristianesimo è determinata dal fatto che anche molti credenti hanno rimosso la consapevolezza che ciò che conta è la Vita, alla quale si accede soltanto attraverso la morte”.
Che è comunque un dramma. “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”, grida Gesù, disperato, sulla croce, in quanto, essendo uomo, vuole vivere.
“La morte è l’atto più individuale e solitario che esista. Pascal ripete nei suoi Pensieri: “Ciascuno morirà solo”. Sono naturalmente inquieto di fronte alla prospettiva della morte dei miei cari, ma anche cosciente che ciascuno deve rispondere per sé. E quindi ciò a cui penso, in particolare, è la mia morte”.
Quali sentimenti accompagnano i suoi pensieri: abbandono (fiducioso), angoscia, apprensione, disagio, rifiuto, rassegnazione, sgomento, stupore, terrore?
“Come conferma Gesù nel Getzemani, la sera del giovedì: la morte è un’angoscia. Diceva Carl Gustav Jung, lo psicanalista, che chi non senta il dramma della morte va sdraiato sul lettino e curato. L’angoscia è la normalità. Ma, nella prospettiva di fede, si mescola alla speranza. Da un lato vorrei anch’io che la mia morte fosse la più lontana possibile. Dall’altro la fede mi assicura che il passaggio è duro, tuttavia oltre il passaggio c’è un’infinità di gioia, di luce, di piacere. Per cui devo dire che il credente guarda alla morte con un misto di angoscia e di speranza, di rifiuto e di attesa”.
Angoscia e rifiuto, nonostante il sostegno della fede. Perché?
“Per un motivo molto semplice. Io non temo la morte: io temo il giudizio. So che nell’aldilà mi aspetta un giudice. Attenzione: il credente sa che il giudizio di Cristo sarà un misto di giustizia e di misericordia. Se Gesù, come giudice, fosse soltanto giusto credo che non si salverebbe nessuno. Conto naturalmente nella misericordia”.
Ma ne ignora le dimensioni. Quanta ne sarà concessa?
“Eh, appunto. Non si conosce com’è fatto il cocktail. Io so, lo dice il Vangelo, che dovrò rendere conto di ogni mio atto. Allora: c’è, innanzitutto, l’angoscia di affrontare un mondo ignoto. La fede assicura che c’è; non sappiamo com’è: abbiamo soltanto alcune coordinate. Poi, più che l’atto del morire, temo ciò che viene dopo: il giudizio. Da qui anche l’ansietà”.
Oltre la fede nel Vangelo, dove nutre la fiducia che la fine dell’uomo non sarà assoluta: dopo ci sarà qualcosa che durerà?
“Prima ancora che la fede cristiana, me lo assicura la Storia. L’archeologia è in gran parte uno studio delle tombe. Possiamo risalire fino ai tempi più oscuri della preistoria e sempre troveremo segni di speranza in una vita eterna: non sappiamo quale, comunque tutte le tombe in tutte le civiltà hanno sempre manifestato la loro fede in un aldilà. Soltanto a partire dal Settecento europeo appare qualcuno che, contraddicendo ciò in cui le culture hanno creduto fin’allora, dice: “Non c’è nulla”, “Finiremo nel buio eterno”, “Non esiste un aldilà”. E’ una posizione estremamente recente e ancora oggi minoritaria. C’è un istinto, in tutte le culture, sin dai tempi più remoti, che ha sempre portato a seppellire i propri morti con dei segni che la vita non finiva, ma cominciava”.
Conquistare questa speranza è stato faticoso? Ha avuto crisi di rigetto?
“Faticoso assolutamente no, perché non volevo diventare cristiano. Sono stato costretto. Vengo da un’esperienza fortemente laica, anticlericale, razionalista. Quando sono stato sospinto nella dimensione cristiana, che non conoscevo, e non cercavo, ho recalcitrato. Ho constatato come la fede sia un dono di Dio. Non c’è stata nessuna fatica da parte mia. Crisi di rigetto? Non ho mai dubitato che questo assurdo che è la vita può trovare una spiegazione soltanto nell’esistenza di un aldilà. Anche perché la condizione umana è disperante: quando è il momento per cominciare davvero a vivere, eh, beh, bisogna pensare a fare le valigie e andarsene. La fede a me serve per dare un significato a questo assurdo”.
Come può essere credibile chi predica la libertà in un’altra vita se, dopo il sacrificio di Cristo, e la reincarnazione, gli uomini continuano a essere oppressi, in questa, da egoismi, ingiustzie, sopraffazioni, umiliazioni, violenze?
“Proprio perché qui, nella Storia, non hanno diritto di cittadinanza alla giustizia, alla libertà vera, alla pace, c’è bisogno di un’altra Vita dove questi squilibri siano sanati. Ho sempre pensato che il Vangelo non sia affatto una manuale ideologico per organizzare il mondo migliore, per renderlo perfetto. Tutte le volte che si è cercato di creare il Paradiso in terra si sono creati degli inferni terribili. Pensi alla fine di tutte le ideologie. Il marxismo, a cui guardo con rispetto, era un’utopia che voleva creare in terra il luogo della giustizia e della pace. E la speranza si è rovesciata nel suo esatto contrario: nell’Inferno. Il Vangelo non è un messaggio di organizzazione politico-sociale, ma di speranza per l’aldilà. Non trovo alcuna contraddizione. Al limite: se fosse possibile creare il Paradiso in terra, non avremmo bisogno del Paradiso nell’aldilà”.
E’ possibile pensare un aldilà dove l’uomo sarà liberato, se non abbiamo raggiunto la certezza razionale dell’esistenza di Dio?
“Io so che buona parte di coloro che dicono di non essere credenti, poi non chiedono i funerali laici: chiedono i funerali religiosi. Credo che in ciascuno agisca questa consapevolezza, che ci viene dal nostro Dna umano: non tutto finisce qui, al di là delle porte bronzee della morte non c’è il buio. Questa coscienza esige, anche se non lo si vuole ammettere, di credere in una esistenza che vada al di là dell’umano. Senza Dio non è possibile pensare un aldilà”.
Ma quale aldilà? Come lo immagina?
“Il modo migliore, parlo in una prospettiva cristiana, per immaginare Paradiso, Purgatorio, Inferno, è di non volerlo descrivere. La Divina Commedia è poesia sublime, ma non ha nulla a che fare con la misteriosa realtà dell’aldilà (Dante stesso ne era consapevole). La prospettiva di fede ci assicura che esiste, ma siamo invitati a non pretendere di precisarlo. Il dogma cattolico si limita ad affermare che ci sono un premio per i buoni, una punizione per i cattivi, uno stato intermedio dove ci si purifica in attesa di accedere a quello che tradizionalmente viene chiamato il Paradiso. Non aggiunge altro. Non ci descrive come sono le cose. Ignoriamo se ci sarà il fuoco, se ci saranno i diavoletti con le corna, il forcone e così via. Io cerco di credere nell’aldilà, non di immaginarlo: perché so che qualunque immaginazione umana verrà sconfitta dalla realtà”.
Qual è l’insegnamento della morte?
“Essenziale. Imparare a vivere. Soltanto se recuperiamo la consapevolezza, come dicevo, della precarietà, della relatività di tutto, dello scorrere del tempo, siamo in grado di dare un significato alla vita. In Scommessa sulla morte lo dico chiaro: i necrofili sono gli altri, quelli che non ci vogliono pensare. Io mi sono confrontato con la morte proprio perché amo la vita e vorrei che continuasse in eterno”.