Evangelizzazione e Analisi

Scavare il Cielo

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Scavare il Cielo

ascensione

Ascensione (Luca 24,46-53)“Il Cristo patirà e risorgerà il terzo giorno”. È vero, Signore, siamo figli del Terzo Giorno, figli di una promessa di Resurrezione, eppure facciamo davvero fatica a sentire vere le tue parole in queste nostre vite affaticate. Persi nel lungo cammino del primo giorno, dentro quel venerdì di dolore e di passione che sembra non finire mai, tempo di sogniarrestati, di tradite speranze, di vita che sbrana pezzi di carne da una colonna che continuiamo ad abbracciare per sfinimento. A volte invece ci sentiamo figli del secondo giorno, quel sabato di silenzio solo apparentemente meno violento: quello delle cose che non cambiano, quello del vuoto di futuro, camminiamo in un mondo che non volevamo così, tutto è fermo, niente cambia, noi, soprammobili lussuosi di uno sfondo nauseante. “Il Cristo patirà”, sì, lo sai bene, anche a noi è data la nostra parte di patimento. Nel cuore della Storia, cruda e spesso atroce, parlare di gioia diventa quasi fuori luogo. E mentre infastidisce certa retorica cattolica a buon mercato, rimaniamo ancora in ricerca di parole buone per osare dire quella speranza che in cuore nostro cerchiamo per arrivare al terzo giorno.

Non resta che cercare tra il pudore delle parole evangeliche, pagina figlia del bisogno di sopravvivere nel cuore dei due giorni, parole disegnate per camminare, magari lentamente, ma per camminare incontro al giorno terzo. Cerchiamo nella grammatica biblica qualche appiglio possibile e forse lo troviamo in quella promessa che lasci scivolare tra le pareti del nostro cuore. Poi ci porterai a Betania, luogo del cuore, dell’intimità, dell’amore, ma prima ci chiedi di restare per lasciarci “rivestire di potenza dall’alto”, queste le tue parole. Se ci avessi portato subito a Betania il nostro cuore sarebbe andato in frantumi, non avremmo retto, avevamo bisogno di stare ancora in Gerusalemme, luogo di passione. È la pedagogia dei due giorni, tempo di sepolcro vuoto, scavato nella roccia. Con le lacrime agli occhi Signore ci pare di capire che noi possiamo essere riempiti di Te solo se sappiamo lasciarci scavare, come roccia, sepolcro nuovo nella nostra intimità. Il dolore del primo giorno, le carni strappate a violenza, l’umiliazione e il tradimento; il feroce silenzio del secondo giorno, quel niente che succede ad altro niente, sono passaggi che creano vuoto dentro di noi. Il nostro cuore deve essere svuotato a sepolcro. È la vita stessa che scava. Ed è un vuoto che deve essere mantenuto tale. Intravedo un barlume di buona notizia, un timido raggio di luce. Noi siamo figli dei giorni del divino svuotamento e la nostra storia non è altro che riconoscerci come un Vuoto aperto all’Infinito. Per diventare preghiera, per implorare questo terzo giorno che sembra non venire mai. Chiamati a vivere con questo vuoto nel cuore, questo Niente in attesa di una carezza, di una benedizione. E mi pare di cominciare a comprendere, e forse vorrei non fosse così. Testimone credibile è colui che cammina nel mondo con quel vuoto brutale inchiodato nel cuore, è consegnare al fratello un cuore scavato di bisogno d’amore, dolore e nostalgia. Un cuore ferito, ricucito, rattoppato, sempre affamato, delicato come un pulcino appena nato… solo così noi possiamo tentare di essere testimoni credibili di conversione e di perdono: “saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono”. Perché è solo il vuoto che ci portiamo dentro, questa eterna nostalgia da marinai dell’Infinito, questa paurosa inquietudine, questa dilaniante fame di vita a parlare, in modo credibile, di Te. Senza il Vuoto il Terzo giorno sarebbe solo facile retorica.

Occorre sostare nei due giorni che precedono il Terzo. Occorre non voler affrettare il finale. Un Vangelo che mette in guardia contro i cuori troppo pieni di buone intenzioni, di tante consolazioni, di eccessive sicurezze, persino troppo pieni di una idea di Dio che diventa giudicante. Solo un cuore affamato può provare ad accogliere la promessa di Gesù, quella “potenza dall’alto” che risulta, come ogni riga del Vangelo, paradossale. Paradossalmente potente è Betania, la casa dell’intimità e della tenerezza, potente è l’amicizia, quella che piange la morte di un amico; potente è la cura delle piccole cose: una casa accogliente, il pane spezzato, le parole scambiate alla luce di un fuoco; potente è l’amore, di chi siede ai tuoi piedi e vive di Te. Potente, paradossalmente potente, è Betania, la casa degli affetti, casa di cuori innamorati. E non c’è niente di più affamato di un cuore innamorato, la potenza paradossale del Vangelo è imparare questa fame: vuoti a implorare una pienezza che solo un giorno sarà, nel Terzo tempo di questa storia che chiamiamo vita.
Solo un cuore affamato può accogliere la paradossale potenza dall’alto, che è una benedizione infinita sulla storia. Alla fine di tutto rimangono due mani ad accarezzare ogni spigolo di mondo. Gesù, benedicendo, tocca, dall’alto, ogni aspetto della vita, come a dire che ogni cosa rimanda a Lui. Ogni cosa canta o soffre o lamenta una fame d’Amore radicale. Da quel giorno il mondo implora amore dall’Alto. Non resta che liberarci dalla tentazione di una resurrezione a buon mercato, siamo popolo da traversata, barca in mezzo al mare, gente di primo e secondo giorno, cuori scavati dalla vita, come sepolcri in attesa di essere Oltre-passati dal Sacro Vuoto che lascia nostalgia d’Amore.

Signore, come ai discepoli della prima ora concedi anche a noi di lasciarci “condurre fuori”, primo movimento necessario del cuore affamato. Docilità di chi non basta a se stesso. Conduci fuori da noi stessi il nostro baricentro Signore, scavaci dentro il vuoto che parla del fratello, solo un cuore svuotato dal nostro egoismo può riscoprire l’inquietudine della fame. E sarà elogio del cammino.
“Mentre li benediceva si staccò da loro e veniva portato su, in cielo”. C’è un Vuoto grande sopra le nostre teste, un respiro infinito, e noi viviamo respirando da quel Grande Spazio. Dacci il coraggio di lasciare entrare Infinito dalle nostre pupille affaticate. Elogio del Cielo.
“Ed essi si prostrarono davanti a lui”, un grande definitivo inchino, elogio della terra, a baciare il visibile. A baciare questo amore che chiede carne per potersi raccontare. Ad evitare di fuggire il mondo, ad abitarlo e ad amarlo con tutte le sue tensioni.
Elogio del presente: “poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia”. Elogio sofferto di una vita che sarà scavo, scavo doloroso, che sarà ripetersi di primo e secondo giorno. La gioia è saper intravedere benedizione dentro le lacrime. Vorrei avere il coraggio di chiederti anche questo dono.

 

Edda CattaniScavare il Cielo
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Donna del “terzo giorno”

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Santa Maria, donna del terzo giorno!

 

Ho trovato questa preghiera e la reputo la più adeguata per me, Vergine Santa. Sono anch’io una “donna del terzo giorno” … non come te, ma come una creatura che arriva sempre “in terza giornata”, come tante altre, con continui altalenare fra le mie gioie e le mie tristezze … con il mio camminare e incespicare, lamentarmi e sorridere … fra serenità e pianti … nello scandire delle mie difficili giornate.

 

Sono anch’io una donna del “dolore” perché tutti li ho provati, uniti a quelli della mia inadeguatezza, delle delusioni, dell’andare avanti con dignità stringendo le altrui mani per non sentire la callosità delle mie.

 

Sono una creatura con tutte le sofferenze fisiche, le notti insonni … Una donna che ha dispensato carezze non comprese, spesso sprecate … Lo sono con i miei affetti distrutti e con i tanti silenzi, colmi di amarezza …

 

Ma tu, donna nell’anima, anche se priva della colpa originale … comprenderai la mia inquietudine e mi aiuterai a superare anche questa parentesi in cui, ancora una volta, ho battuto la testa e fatico a rialzarmi …

 

 

 

Preghiera

(di Don Tonino Bello)

 

 

Santa Maria, donna del terzo giorno, destaci dal sonno della roccia. E l’annuncio che è Pasqua pure per noi, vieni a portarcelo tu, nel cuore della notte.

 

Non aspettare i chiarori dell’alba. Non attendere che le donne vengano con gli unguenti. Vieni prima tu, coi riflessi del Risorto negli occhi e con i profumi della tua testimonianza diretta.

 

Quando le altre Marie arriveranno nel giardino, con i piedi umidi di rugiada, ci trovino già desti e sappiano di essere state precedute da te, l’unica spettatrice del duello tra la vita e la morte. La nostra non è mancanza di fiducia nelle loro parole. Ma ci sentiamo così addosso i tentacoli della morte, che la loro testimonianza non ci basta. Esse hanno visto, sì, il trionfo del vincitore. Ma non hanno sperimentato la sconfitta dell’avversario. Solo tu ci puoi assicurare che la morte è stata uccisa davvero, perché l’hai vista esanime a terra.

 

Santa Maria, donna del terzo giorno, donaci la certezza che, nonostante tutto, la morte non avrà più presa su di noi. Che le ingiustizie dei popoli hanno i giorni contati. Che i bagliori delle guerre si stanno riducendo a luci crepuscolari. Che le sofferenze dei poveri sono giunte agli ultimi rantoli. Che la fame, il razzismo, la droga sono il riporto di vecchie contabilità fallimentari. Che la noia, la solitudine, la malattia sono gli arretrati dovuti ad antiche gestioni. E che, finalmente, le lacrime di tutte le vittime delle violenze e del dolore saranno presto prosciugate come la brina dal sole della primavera.

 

Santa Maria, donna del terzo giorno, strappaci dal volto il sudario della disperazione e arrotola per sempre, in un angolo, le bende del nostro peccato.

 

A dispetto della mancanza di lavoro, di case, di pane, confortaci col vino nuovo della gioia e con gli azimi pasquali della solidarietà.

 

Donaci un po’ di pace. Impediscici di intingere il boccone traditore nel piatto delle erbe amare. Liberaci dal bacio della vigliaccheria. Preservaci dall’egoismo.

 

E regalaci la speranza che, quando verrà il momento della sfida decisiva, anche per noi come per Gesù, tu possa essere l’arbitra che, il terzo giorno, omologherà finalmente la nostra vittoria.

 

 

 

Edda CattaniDonna del “terzo giorno”
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La Pasqua del teologo

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Alberto Maggi sul numero di Pasqua de “La Repubblica”.

Un’interessante intervista di Antonio Gnoli.

 

<<Cosa ti dà la certezza di essere sulla strada giusta?>>, chiede il giornalista.

<<Avere ricevuto qualcosa dai cuori delle persone, dai tanti che mi scrivono e con cui parlo; e avere reso questo convento un microcosmo bello: luogo di preghiera, certo. E di accoglienza degli emarginati. Ma anche centro di studi biblici aperto a tutti: atei e agnostici, cattolici e credenti di altre regioni>>, risponde un ispirato Alberto Maggi, all’intervista ritratto che gli dedica il giornalista Antonio Gnoli. Questo è uno dei primi passi di un pa lunga intervista a Padre Alberto Maggi.

L’articolo di due pagine con disegno di Riccardo Mannelli, è pubblicato oggi su “La Repubblica”, con un impaginazione importante e centrale nel prestigioso quotidiano.
Gnoli parla con Alberto Maggi della sua vita, della attività di scrittore e divulgatore che lo impegna assiduamente ma senza mai dimenticare l’amore per le persone.
Quando ho chiesto ad Alberto nei giorni fa, una sintesi dell’intervista, mi ha risposto con la sua umanità diretta e simpatica schiettezza: <<… È difficile dirlo, sono state ben quattro ore di intervista dall’infanzia a oggi: gli studi, la vita, la fidanzata, il rapporto con i vescovi… insomma si è parlato di tutto. Ne è venuto fuori un ritratto narrato con conversando…>>.

Alberto ha parole importanti anche per Montefano: <<In questo lembo di terra, è rinata tanta gente>>. Ma il suo primo impatto con il convento di Montefano non fu del tutto felice. <<Fui allontanato dalla Facoltà di Teologia dell’Università Gregoriana da un Padre Provinciale, dopo una sorta di processo canonico, e spedito in un posto remoto Montefano>>. <<Che luogo trovasti?>>, gli chiede il giornalista. <<Desolante. Ormai inattivo da tempo, trovai nel convento un vecchio frate. A Montefano non c’erano libri, non c’era nulla in convento. Riempivo il tempo dedicandomi all’oro e alle galline. Poi un giorno vennero dei giovani, trascorsero alcuni giorni con me. Vollero che gli leggessi e commentassi dei passi del Vangelo. Provai, mostrando tutta la mia inadeguatezza. Fu allora che chiesi il permesso continuare a studiare…>>. In questo episodio si può trovare quella sintesi dell’intervista che chiedevo ad Alberto, anche perché si toccano gli aspetti della sua quasi “eresia”. Nel suo ordine dei Servi di Maria, ci sono stati tanto gli inquisitori del Santo Uffizio, quanto chi dava lavoro al Santo Uffizio. La sua vita, la sua stessa presenza con gli altri, genera rinascita, a partire dall’aridità delle coscienze: basta avere la sua stessa voglia curiosa per la vita e la conoscenza, senza fermarsi alle comode apparenze. Da un luogo bucolico e pieno di orti, la presenza di Alberto Maggi ha trasformato il convento di Montefano in quello che è oggi diventato, con l’insostituibile presenza umana e teologica, oltre che di raffinata cultura di Padre Ricardo Perez Marquez. 

Un’intervista da leggere tutta, da togliere il fiato.

 

Edda CattaniLa Pasqua del teologo
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Dalle ferite

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Dalle ferite

Di Alessandro Dehò

(Giovanni 13,31-33.34-35)
V domenica di Pasqua 2016

 

Deho 

E Giuda lascia un vuoto. Risucchiato dalla notte tremenda, notte che puzza di tradimento e di sangue. Masticato a morte da quel buio che si portava dentro e che, ad un cero punto, non è più riuscito a contenere, ucciso da se stesso, dall’incapacità di convertire la sua attesa di Dio. Giuda lascia un vuoto. L’ennesimo, non l’ultimo nella vita del Maestro. Messia costantemente chiamato a fare i conti con una vita che ferisce, che abbandona, che disegna spazi di solitudine in un cuore che chiedeva solamente di essere amato. Gesù da sempre deve fare i conti con il Vuoto. Quello lasciato da affetti che si allontanano, tradimenti, incomprensioni, silenzi.

La vita di Gesù è segnata da questi continui squarci, da queste ferite, mancanze, svuotamenti, da questo incessante doversi scoprire, come se la vita lo prendesse a morsi e lo spogliasse continuamente. Come se il Vuoto e l’Assenza fossero condizione essenziale del suo manifestarsi. Spogliato, Dio nudo tra le braccia di Maria, fasciato e deposto in una mangiatoia che già parla di donazione. Dio nudo ed esposto scagliato contro l’ipocrisia del potere politico e religioso. Dio nudo sulla croce, spogliato della veste, come l’antico Giuseppe di Genesi, entrambi venduti dai fratelli. Gesù, il Dio dell’Assenza, quella che lascia dietro di sé svuotando un sepolcro e lasciando solo fasce, piegate, a parlare di Lui.

Giuda, tradendo, lascia il suo vuoto. Un amico che tradisce, un’altra strada, un’altra verità, la morte appesa ad un ramo: l’identità dei dodici sfregiata per sempre: Giuda sceglie una via, una verità e una vita diverse da quelle di Gesù: è una ferità al volto di Dio. Gli altri, in diverso modo, lo seguiranno. Giuda lascia il suo vuoto e Gesù avrebbe avuto vita facile, poteva utilizzare quel movimento per mettere in guardia gli amici rimasti, poteva sfogare sul traditore il risentimento e la paura invece. Invece: mistica dell’Assenza, trasfigurazione del Vuoto, la ferita non sanguina parole amare ma Gloria. “Il figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui”. Io immagino il silenzio di stupore, Giuda esce di scena e il vuoto non si riempie di risentimento, non una parola, solo silenzio e stupore per quelle parole pacificate: come se da una ferita sanguinasse luce. Questa mi sembra essere la mistica dell’Assenza che siamo chiamati a imparare. Come se da un legno secco germogliasse primavera. Come se dalla violenza si potesse generasse vita. Il Vuoto diventa così condizione essenziale dalla Gloria, la violenza dell’Assenza diventa occasione per la Pace, il tradimento opportunità per rilanciare l’Amore.

La ferita non sanguina parole amare ma Gloria. La Gloria del Figlio dell’uomo è la manifestazione della Luce a partire dal dolore. Gloria è l’epifania del Volto di Dio, la narrazione del Divino. Glorificare è lasciar fluire l’amore dalle ferite che la vita infligge. Ecco cosa significa glorificare il figlio dell’uomo. La vita di Gesù è questo mistero d’amore commovente in cui niente gli è stato risparmiato, l’avventura umana vissuta nella sua feroce totalità, dalle vette dell’amore impossibile ai tradimenti dagli affetti più vicini, l’intensità dell’Amore e del suo contrario ma sempre, sempre, la scelta di Gesù è quella di lasciar fluire luce anche dalle ferite. È una sfida con la morte, da subito, da sempre. La resurrezione non è il colpo di teatro finale e inaspettato ma la pienezza di una vita che è riuscita a non lasciarsi conformare alla violenza. Vita che è riuscita a trasformare la violenza stessa in possibilità di vita. Persino il tradimento di un amico diventa motivo di Gloria. L’uomo glorificato è colui che non si vendica, che non umilia chi sbaglia, che riesce a custodire la scelta di amare oltre misura. L’uomo glorificato è l’uomo che riesce a non disumanizzarsi, nemmeno quando la vita si scaglia con violenza ingiusta e terribile. Giuda lascia un vuoto ma quel vuoto diventa possibilità. Giuda ferisce ma da quella carne aperta soffre la luce.

Mi pare questa la mistica del Vuoto, la trasfigurazione a cui siamo chiamati. In modo certo più quotidiano, accettando i limiti e gli inevitabili compromessi con la nostra mediocrità. Ma questo è il passaggio richiesto dalla Parola per non ridurre l’amore vicendevole a parola senza suono, senza senso.

L’amore è la manifestazione della Gloria di Dio. Dio è stato glorificato in lui. La manifestazione di Dio passa dalla vita ferita. La Gloria passerà dalla vita ferita sulla croce, l’assenza di quella che chiamiamo gloria umana in verità sarà il passaggio per mostrare il vero volto di Dio. La manifestazione di Dio attraversa l’Assenza. Respira da un sepolcro che non mostra niente se non il Vuoto. Allora capiamo le parole di Gesù ancora per poco sono con voi, Gesù non fa altro che preparare i suoi ad un vuoto radicale: la sua assenza. E loro saranno chiamati a riempire quell’Assenza, trasformando la ferita in feritoia di luce.

Come trasfigurare l’Assenza? Con l’amore. Un amore vicendevole che non dimentichi però l’insegnamento evangelico. Non un imperativo moralistico ma l’Amore come manifestazione della identità profonda dell’Uomo. L’amore come glorificazione di Dio. L’amore secondo il Vangelo non può raccontarsi se non partendo dal Vuoto che è in noi, riconoscendolo. Amandolo.

Noi siamo umanità ferita, bisognosa di amore. Noi siamo assenza di Senso se due occhi non ci avvolgono di tenerezza. Noi siamo vuoto se nessuna parola di Amore arriva a toccarci il cuore. Solo quando riusciremo a narrare con verità questo profondo bisogno che ci abita sapremo uscire da noi stessi. Solo quando sapremo guardare l’uomo che abbiamo davanti riconoscendo in lui la ferita che chiede carezze, il vuoto che chiede parola, l’assenza che supplica sguardi, solo allora riusciremo a non ridurre l’amore vicendevole a comandamento imposto o ad inutile ripetizione di gentili inutili a parole senza carne.
La mistica dell’Assenza è la grammatica indispensabile per non svuotare di senso la parola Amore, peccato grave che spesso compiamo. È l’unico modo per vivere la fedeltà alla terra. La fedeltà a questa vita umana che chiede solo di essere pazientemente trasfigurata. Dalle ferite, la luce.

 


Edda CattaniDalle ferite
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Domenica delle Palme

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Una riflessione d’autore per la Domenica delle Palme

“Entrato a Gerusalemme, Gesù fa quel che non avrebbe dovuto fare e che gli costerà la vita: va a toccare gli interessi della casta sacerdotale al potere…”. Su ilLibraio.it, in vista della Domenica della Palme, l’intervento di frate Alberto Maggi, biblista controcorrente


TERREMOTO A GERUSALEMME

“Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu scossa” (Mt 21,10). Per indicare l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, l’evangelista adopera un verbo greco (seiô) che si usava per i movimenti tellurici: la venuta del Cristo provoca un vero terremoto in tutta la città, non solo nelle istituzioni ma anche tra gli abitanti. Per i capi religiosi la divinità è da adorare, venerare, servire, nella dorata prigionia di un tempio, ben rinchiuso nel sarcofago di un sistema dottrinale perfetto. Ma quando questo Dio prova a manifestarsi, a rendersi visibile, le autorità vengono prese dal panico e unanimemente concordano sull’unica cosa da fare: eliminarlo. È in gioco la sopravvivenza della stessa istituzione religiosa. Eppure Gesù fu accolto da entusiastiche grida di giubilo al suo ingresso a Gerusalemme. È vero, ma solo perché la folla aveva sbagliato persona. Per il suo trionfale ingresso nella Città Santa, Gesù non ha scelto una cavalcatura regale come era la mula, adoperata dai re, o un destriero, ma un asinello, il normale mezzo di locomozione della gente comune. Ma agli occhi attenti delle autorità religiose non è sfuggita la portata profetica del gesto di Gesù, che con la sua scelta attualizzava la profezia di Zaccaria secondo la quale l’atteso Messia sarebbe giunto a Gerusalemme cavalcando un asinello, in segno di non bellicosità (“L’arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti”, Zc 9,10). Ma la folla non capisce, attende un Messia potente, per questo stende i propri mantelli sulla strada, come segno di sottomissione al re, e grida “Osanna al figlio di Davide!” (Mt 21,9). Ecco chi attendono: il figlio di Davide, ovvero un Messia che assomigli al re che con la violenza riuscì a riunire le tribù d’Israele e inaugurare il suo grande e potente regno. Questo regno era costato un bagno di sangue, al punto che quando Davide volle costruire un Tempio al suo Signore, questi lo rifiutò con le parole: “Non costruirai il Tempio al mio nome, perché hai versato troppo sangue sulla terra davanti a me”, 1 Cr 22,8).

Gesù non è il figlio di Davide, non ha nulla in comune con lo spietato bandito del deserto che giunse al potere con una serie incredibile di omicidi, e che era sinistramente conosciuto come colui che “non lasciava in vita né uomo né donna” (1 Sam 27,9.11). Gesù è il figlio di Dio, la cui missione è salvare e non distruggere. Il Cristo non viene con la violenza, ma con l’amore, non sottomette, ma serve, non impone, ma offre, non uccide, ma dona la sua vita, non risuscita l’ormai defunto regno di Davide ma inaugura il regno di Dio.Entrato a Gerusalemme, Gesù fa quel che non avrebbe dovuto fare e che gli costerà la vita: va a toccare gli interessi della casta sacerdotale al potere, detronizza l’unica vera divinità adorata dai capi religiosi: il denaro. Infatti entrato nel Tempio, Gesù non si limita a cacciare i mercanti, purificando il luogo santo, ma scaccia via anche i compratori, impedendo di fatto il culto. Con il suo gesto Gesù colpisce al cuore il sistema economico del santuario, quello sul quale si poggiava il potere della casta sacerdotale. L’azione di Gesù gli sarà fatale. Toccando l’economia del Tempio non colpisce solo le tasche dei sacerdoti, ma anche quella degli abitanti di Gerusalemme che vivevano dei traffici religiosi, dei pellegrinaggi, del commercio tanto sacro quanto lucroso. E così, nell’arco di poche ore, quegli stessi che avevano accolto Gesù al grido di “Osanna”, grideranno tutto il loro furore: “Crocifiggilo!” (Mc 15,13). Attendevano il Messia figlio di Davide, non sanno che farsene di un Messia Figlio di Dio, a Dio preferiscono Mammona (Mt 6,24), e ancora una volta l’interesse si conferma come il vero dio di questo mondo, e la convenienza il movente di tutte le scelte, come Gesù aveva drammaticamente previsto: “Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!” (Mt 21,38).


L’AUTORE – Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» (www.studibiblici.it) a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri: Roba da pretiNostra Signora degli ereticiCome leggere il Vangelo (e non perdere la fede)Parabole come pietreLa follia di Dio e Versetti pericolosi. È in libreria con Garzanti Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita.

 



Edda CattaniDomenica delle Palme
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Dalle ceneri la Quaresima

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Mercoledì delle ceneri

 

“Mai Gesù ha invitato a fare penitenza, a mortificarsi, vocaboli assenti nel suo insegnamento, e tanto meno a fare sacrifici…”. Su il Libraio.it l’intervento di frate Alberto Maggi, biblista, che parla del significato della Quaresima

Con il mercoledì delle ceneri è iniziata la Quaresima. Per comprendere il significato di questo periodo occorre esaminare la diversa liturgia pre e post-conciliare.

Prima della riforma liturgica, l’imposizione delle ceneri era accompagnata dalle lugubri parole “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”, secondo la maledizione del Signore all’uomo peccatore contenuta nel Libro della Genesi (Gen 3,19). E con questo funereo monito, nel quale è completamente assente la novità dell’annuncio evangelico, iniziava un periodo caratterizzato da penitenze e digiuni, da rinunzie e sacrifici, e dalle mortificazioni, più orientato verso il Venerdì santo che alla Pasqua di Risurrezione.

Oggi l’imposizione delle ceneri è accompagnata dall’invito di Gesù “Convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15). Le prime parole pronunciate dal Cristo secondo il Vangelo di Marco, sono un invito al cambiamento, in un continuo processo di rinnovamento che deve essere il motore della vita del credente. E credere al vangelo significa orientare la propria esistenza al bene dell’altro.

L’uomo non è polvere, e non tornerà polvere, ma è figlio di Dio, e per questo ha una vita di una qualità tale che è chiamata eterna, non tanto per la durata, indefinita, ma per la qualità, indistruttibile, capace di superare la morte, come Gesù ha assicurato: “Se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte”; “Chiunque vive e crede in me, non morirà mai” (Gv 8,51; 11,25).

In queste due diverse impostazioni teologiche sta il significato della Quaresima. Mai Gesù ha invitato a fare penitenza, a mortificarsi, vocaboli assenti nel suo insegnamento, e tanto meno a fare sacrifici. Anzi, ha detto esattamente il contrario: “Misericordia io voglio e non sacrifici” (Mt 9,13; 12,7). Ciò che Dio chiede non è un culto verso lui (sacrificio), ma l’amore verso gli altri (misericordia). I sacrifici e le penitenze centrano l’uomo su se stesso, sulla propria perfezione spirituale, e nulla può essere più pericoloso e letale di questo ingannevole atteggiamento, che illude la persona di avvicinarsi a Dio quando in realtà serve solo ad allontanarla dagli uomini. Paolo di Tarso, che in quanto fanatico fariseo era un convinto assertore di tutte queste devote pratiche, una volta conosciuto Gesù, arriverà a scrivere nella Lettera ai Colossesi che tali atteggiamenti “in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne” (Col 2,23), e per questo non esita a definirli “spazzatura” (Fil 3,8).

La Quaresima pertanto non è tempo di mortificazioni, ma di vivificazioni. Per questo l’azione di Gesù non è quella di abbattere l’albero che non porta frutto, ma di concimarlo per dargli nuovo vigore (Lc 13,8), perché lui non è venuto a spezzare la canna incrinata o a spegnere la fiamma smorta (Mt 12,20), ma a liberare nell’uomo le energie d’amore che sono sopite e fargli scoprire forme inedite, originali e creative di perdono, di generosità e di servizio, che innalzano la qualità del proprio amore per metterlo in sintonia con quello del Vivente, e così sperimentare la Pasqua non solo come pienezza della vita del Risorto ma anche della propria. Così, come i contadini sul finire dell’inverno distribuivano sul terreno le ceneri accumulate nel tempo freddo per dare nuovo vigore alla terra, la Parola del Signore è capace di infondere nuove energie agli uomini.

 

Edda CattaniDalle ceneri la Quaresima
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I confini della misericordia

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I confini della misericordia

Ma davvero la famiglia della dottrina ecclesiastica corrisponde al disegno di Dio? 

Vito Mancuso su Repubblica del 23 gennaio 2016

 

Contrariamente a molte altre volte, il Papa non ha sorpreso nessuno con il discorso di ieri al Tribunale della Rota Romana, un testo del tutto secondo copione, il medesimo che non solo Benedetto XVI e Giovanni Paolo II ma anche tutti gli altri 263 Papi avrebbero potuto tenere. Francesco ha detto che «non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione», perché la famiglia tradizionale (cioè quella «fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo») appartiene «al sogno di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità». Vi è quindi un modello canonico di famiglia, rispetto al quale tutte le altre forme di unione affettiva e permanente sono livelli più o meno intensi di quanto il Papa ha definito «uno stato oggettivo di errore». È per questo che solo la famiglia della dottrina ecclesiastica merita il nome di famiglia, mentre a tutte le altre spetta il termine meno intenso di «unione».

Ma è proprio vero che la famiglia della dottrina ecclesiastica corrisponde al disegno di Dio? Oppure è anch’essa una determinata espressione sociale, nata in un certo momento della storia e quindi in un altro momento destinata a tramontare, come sta avvenendo proprio ai nostri giorni all’interno delle società occidentali? Penso che il referendum della cattolicissima Irlanda con cui è stata mutata la costituzione per permettere a persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio sia una lezione imprescindibile per il cattolicesimo, della quale però a Roma ancora si fatica a prendere atto. In realtà che la famiglia evolva e cambi lo mostra già il linguaggio. Il termine “famiglia” deriva dal latino familia e sembra quindi dotato di una stabilità più che millenaria, ma se si consulta il dizionario si vede che il termine latino, ben lungi dall’essere ristretto al modello di famiglia della dottrina cattolica, esprime una gamma di significati ben più ampia: «Complesso degli schiavi, servitù; truppa, masnada; compagnia di comici; l’intera casa che comprende membri liberi e schiavi; stirpe, schiatta, gente». Lo stesso vale per il greco del Nuovo Testamento, la lingua della rivelazione divina per il cristianesimo, che conosce un significato del tutto simile al latino in quanto usa al riguardo il termine oikia, che significa in primo luogo “casa” (da qui deriva anche il termine “parrocchia”, formato da oikia + la preposizione parà che significa “presso”). Anche nell’ebraico biblico casa e famiglia sono sinonimi, dire “casa di Davide” è lo stesso di “famiglia di Davide”: si rimanda cioè al casato, comprendendo mogli, figli, schiavi, concubine, beni mobili e immobili.

Quindi le lingue della rivelazione di Dio non conoscono il termine famiglia nel senso usato dalla dottrina cattolica tradizionale e ribadito ieri dal Papa. Non è un po’ strano? La stranezza aumenta se si apre la Bibbia. È vero che in essa si legge che «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno un’unica carne» (Genesi 2,24), ma se si analizzano le esistenze concrete degli uomini scelti da Dio quali veicoli della sua rivelazione si vede uno scenario molto diverso con altre forme di famiglia: Abramo ebbe 3 mogli (Sara, Agar e Keturà), Giacobbe 2, Esaù 3, Davide 8, Salomone 700. A parte Salomone, che in effetti eccedette, non c’è una sola parola di biasimo della Bibbia a loro riguardo. Che dire? La parola di Dio è contro il disegno di Dio? Oppure si tratta di testi che vanno interpretati storicamente? Ma se vanno interpretati storicamente i testi biblici, come non affermare che va interpretato storicamente anche il modello di famiglia della dottrina ecclesiastica?

Ciò dovrebbe indurre, a mio avviso, a evitare affermazioni quali «stato oggettivo di errore». La vita quotidiana nella sua concretezza insegna che vi sono unioni ben poco tradizionali di esseri umani nelle quali l’armonia, il rispetto, l’amore sono visibili da tutti, e viceversa unioni con tanto di sacramento cattolico nelle quali la vita è un inferno. Siamo quindi davvero sicuri che la dottrina cattolica tradizionale sulla famiglia sia coerente con l’affermazione tanto cara a papa Francesco secondo cui «il nome di Dio è misericordia»? Io ovviamente mi posso sbagliare, ma mi sento di poter affermare che Dio non pensa la famiglia, meno che mai quella del Codice di diritto canonico. Pensa piuttosto la relazione armoniosa alla quale chiama tutti gli esseri umani, perché il senso dello stare al mondo è esattamente la relazione armoniosa, che si esplicita in diversi modi e che trova il suo compimento nell’amore. Ogni singolo è chiamato all’amore: questo è il senso della vita umana secondo il nucleo della rivelazione cristiana. Sicché nessuno deve poter essere escluso dalla possibilità di un amore pieno, totale, anche pubblicamente riconosciuto. Ed è precisamente per questo che ci si sposa: perché il proprio amore, da fatto semplicemente privato, acquisti una dimensione pubblica, politica, in quanto riconosciuto dalla polis. Questo amore è definibile come integrale, in quanto integra la dimensione soggettiva con la dimensione pubblica e oggettiva dell’esistenza umana.

La nascita di alcuni esseri umani con un’inestirpabile inclinazione sessuale verso persone del proprio sesso è un fatto, non piccolo peraltro: essi devono strutturalmente rimanere esclusi dalla possibilità dell’amore integrale? In realtà l’aspirazione all’amore integrale deve essere riconosciuto come diritto inalienabile di ogni essere umano acquisito alla nascita. L’amore integrale è un diritto nativo, primigenio, radicale, riguarda cioè la radice stessa dell’essere umano, e nessuno ne può essere privato. Spesso nel passato non pochi lo sono stati, e ancora oggi in molte parti del mondo non di rado continuano a esserlo. Oggi però il tempo è compiuto per sostenere nel modo più esplicito che tutti hanno il diritto di realizzarsi nell’amore integrale, eteroaffettivi e omoaffettivi senza distinzione. La maturità di una società si misura sulla possibilità data a ciascun cittadino di realizzare il diritto nativo all’amore integrale, ma io credo che anche la maturità della comunità cristiana si misuri sulla capacità di accoglienza di tutti i figli di Dio così come sono venuti al mondo, nessuno escluso.

Che cosa vuol dire che «il nome di Dio è misericordia» per chi nasce omosessuale? È abbastanza facile dire che Dio è misericordia quando ci si trova al cospetto di casi elaborati da secoli di esperienza. Più difficile quando ci si trova al cospetto della richiesta di riconoscimento della piena dignità da parte di chi per secoli ha dovuto reprimere la propria identità. Qui la misericordia la si può esercitare solo modificando la propria visione del mondo, ovvero infrangendo il tabù della dottrina. Ma è qui che si misura la verità evangelica, qui si vede se vale di più il sabato o l’uomo. Qui papa Francesco si gioca buona parte del valore profetico del suo pontificato.

 

 

 

Edda CattaniI confini della misericordia
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Vino nuovo…

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Finora… (di Alessandro Dehò)
(Giovanni 2,1-11)

Entra nel mondo come lievito, invitato tra gli invitati. Gli amici, la madre, un po’ di festa, questa la sua solennità, questo il suo tempio. Entra tra le voci e le risa, muove i suoi passi tra i costumi di una religione che prova a dare senso al vivere, cammina nel cuore di un umano che prova a promettersi eternità per sconfiggere almeno per un poco la morte. Entra in un mondo profumato di carni arrostite al fuoco, di pane e di vino, di danze, musiche, risate sguaiate, tristezze velate, frasi urlate e parole sommesse… entra nella vita che non ha vergogna di mostrarsi così come è, a Cana, in un matrimonio come tanti, entra, Gesù, da invitato.

Poi diranno che a Cana tutto è iniziato, che è stata inaugurata l’Alleanza definitiva, che l’Antico Testamento stava diventando Nuovo e che lo sposo atteso era proprio Gesù… ed è tutto vero però, dopo. Intanto Gesù è invitato tra gli invitati. E accetta l’invito. E credo che tutto inizi davvero così, anche per noi. Se vogliamo dare inizio ai segni cioè rinascere a una vita significativa per noi e per gli altri dobbiamo innanzitutto accettare l’invito che la vita ci offre. Invito all’umanità. Accogliere con gratitudine di essere stati invitati da questa vita anche se spesso sembra un matrimonio tra disperati che non riescono a portare a termine mezza festa. Accogliere l’invito significa entrare nella storia e accoglierne i profumi e gli odori, le danze e le risa anche sguaiate, significa non deridere lo scambio umano di promesse di eternità anche se lo sappiamo, sono sempre troppo enormi. Non stare fuori dalla festa. Farne parte. Da invitato tra gli invitati. Maturando un profondo legame con tutti gli altri commensali, imparando a guardarli con tenerezza e misericordia. Ridere con loro e mai di loro. Mi pare che questo sia il vero segno di inizio che Gesù ci consegna, ben prima dell’acqua in vino c’è questa totale immersione nell’umanità. Ospiti dell’umano, a noi il dolce impegnativo compito di farlo fiorire. Per noi e per gli altri. Trasformandoci, vero miracolo, da anfore vuote in sorgenti sorprendenti di vita.

Poi il vino finisce, lo sappiamo. Maria si accorge. Lei è donna, è madre, la vita le ha già insegnato a partorire uno sguardo attento al mondo. Dopo scopriremo che quel vino è simbolo e segno di tutte le feste umane esaurite, di una Alleanza con Dio che andava rinnovata… dopo. Intanto è vino finito. È storia che interroga. E questo è l’altro nuovo inizio prima dell’acqua in vino. L’invitato Gesù comprende che dare inizio ai segni, significa lasciarsi ferire dalla vita. Che quel vino finito, quella festa che implora un nuovo tempo, quel mondo che Maria riesce a far pregare è bordo vertiginoso da oltrepassare. Un punto di non ritorno certo, un cominciare a dare la vita, la propria, come Segno. È bellissimo questo Gesù che impara dalla vita che accade. Perché la verità fiorisce dal nostro rapporto con gli eventi. Siamo chiamati, ed è questa la fede, a lasciare che la vita ci ferisca. Anche con le sue improvvise richieste. È finito il vino: quando un amore si inceppa, quando la malattia increspa la calma, quando mi perdo, quando mi lasciano, quando non trovo casa, quando non capisco più la persona che amo… vino finito. E’ la vita che interroga. E diventa significativa se io imparo a rispondere con la vita stessa. Perché da Cana Gesù sta imparando. Per quando giungerà la sua ora. Per quando, in altra cena ultima, a rimanere sarà il vino ma lui no, lui sarà chiamato a “finire”. Impara Gesù dalla vita, e quando sarà chiamato a trasformare non solo acqua in vino ma vino in sangue sarà Cana portata a compimento. Impara Gesù dalla vita, perché il Segno vero, una vita significativa, è saper imparare, e quando sarà solo, festa finita, nell’orto degli Ulivi sicuramente ricorderà le parole di Maria “Qualsiasi cosa vi dica, fatela” e allora alzerà lo sguardo a quel cielo senza stelle e ricordando il vino di Cana e della ultima Cena dirà: se puoi allontana da me questo calice ma dimmi quello che vuoi… e qualsiasi cosa dirai io lo farò. Fede, fede vera, è lasciare che la vita ci interroghi, è imparare a bere il calice fino in fondo, è accettare che abbiamo bisogno di tempo per arrivare alla nostra ora, è non far passare le cose invano, è imparare. Imparare a non pretendere che la vita segua i nostri tempi ma amare così totalmente la storia da trasformarla, vero segno, da acqua che scorre verso la morte a vino che sorprende di possibilità inaspettate di alleanza. È lasciar scorrere la vita incontro a noi, lasciare che ci interroghi e non limitarsi a subirla: dalla roccia di una ferita può scaturire vita nuova.

E poi è il rumore delle anfore che si riempiono. In fondo la disperazione non è il dolore ma il vuoto. E quello che succede è che in quel contesto di festa nessuno si accorge ma Gesù dà inizio a un Segno nuovo. E il Segno è che è finito il tempo della purificazione e iniziato il tempo della festa. Anche se ancora non l’abbiamo compreso. Fede, fede vera, da quel giorno di Cana, non è credere in un Dio che ci immagina puri, senza scorie, immacolati di fronte alla vita… da quel giorno di Cana è ancora più chiaro che Dio ci immagina vita profumata e calda come sorso di vino. Calore e profumo di terra e di cielo, la vita che abbassa le difese e scioglie la parola, la vita che chiede di essere cantata e condivisa: la vita viva. Invitati a vivere passando dalla logica del sacrificio alla grammatica della passione. Non siamo stati invitati al mondo per essere puri ma per continuare a cercarci, uomini tar gli uomini, anfore riempite di profumo, per dare inizio ai segni, cioè per rendere questa vita, tutta la nostra vita un Segno. Segno di una speranza, segno di un incontro, segno di una vita che chiede di condividere il calore di amare e di lasciarsi amare. Segno di una vita che quando crede nell’uomo profuma di festa, di vino buono.

Solo così si trasforma la vita. E segno, segno vero, non è l’acqua in vino ma la stanchezza in stupore, l’esaurimento in rinascita: tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora. Segno, segno vero, è permettere una delle dichiarazioni di fede più belle e commoventi del Vangelo. Fede nella vita che finalmente si mostra per quello che è: promettente. Promette di non vivere di esaurimento in esaurimento, promette di non illudere con sogni buoni che poi si incagliano in realtà usurate, promette di non ingannare, approfittando dello stordimento, cambiando vino in tavola. È tempo del finora: quando il vino buono viene tolto dalla cantina. E’ tempo che nelle nostre Comunità si ricominci a condividere il profumo di una vita promettente creando le condizioni perché fiorisca. È tempo di imparare la trasformazione vera che non è quella dell’acqua in vino ma quella dello sguardo del maestro di tavola che riconosce, stupito e grato, la bontà della vita.

 

 

Edda CattaniVino nuovo…
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Il funambolo

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Sul filo

funambolo Dehò

(Matteo 4,12-23)
III^ Tempo Ordinario 

Neanche un versetto e tutta la storia di Giovanni Battista si arresta, si ferma. Il grande profeta è ridotto a notizia che arriva a Gesù, un filo commosso di voce: Giovanni è stato arrestato. Giovanni è stato consegnato al potere, alla banalità del male, alla stupidità degli esseri umani. Il deserto è chiuso in gabbia, la voce zittita, il fiume non scorre più. Gesù non dice nulla, ascolta e cammina, disegna sulla mappa una curva inaspettata e decide di raccogliere definitivamente l’eredità. Secondo qualcuno questo è il momento in cui lo stile della predicazione cambia, la durezza di Giovanni lascia il posto alla misericordia del Messia. Probabilmente è vero ma io credo che ci sia anche, nel silenzio commosso di Gesù, la coscienza di essere chiamato a raccogliere una fedeltà alla vita che Gesù riconosce al profeta. Perché Giovanni ha accettato di perdere tutto, perché Giovanni morirà per giochi perversi di potere, perché Giovanni è spogliato e solo. Perché Giovanni è consegnato e sceglie di andare fino in fondo. Perché è quando non hai più niente che puoi dare tutto. Quando sei davvero povero, quando non sei più il profeta acclamato, o il rivoluzionario temuto, quando hai perso è allora che puoi dare la vita. Gesù vede e si riconosce e decide.

Gesù raccoglie questa vita consegnata e inizia a consegnare definitivamente la sua. Cominciando da lontano, dalla Galilea, luogo di frontiera, regione dove le fedi e le culture si intrecciano, dove la religione è libera dalla sterilità camuffata da perfezione del Tempio. Luogo sporcato dalla vita, luogo che espone a tutte le incomprensioni possibili, luogo vivo e fertile, luogo complesso e difficile da decifrare, luogo ventre di tutte le fami del mondo, luogo incoerente e immaturo, regione in cui si è minoranza tra le minoranze: Gesù parte da lì. E a me commuove che la Galilea sia molto simile a questo nostro mondo postmoderno che come comunità cristiana continuiamo a criticare.

Gesù sceglie il confine e nella terra di confine decide di camminare la soglia: tra terra e mare, come a seguire un filo teso sopra l’Abisso, come a dire che la vita la assumi esponendoti al rischio di perderti: tra terra e mare, luce e tenebre, vita e morte. Cammina Gesù, funambolo dell’Infinito, e da quella nuova prospettiva fa scivolare verso l’umanità il suo sguardo profondo. Sguardo di chi conosce le tenebre del cuore e non le condanna, sguardo di chi è abitato dalla Luce ma non la impone. Forse i primi discepoli si sono fidati di Gesù perché in quello sguardo hanno sentito Gesù camminare anche dentro le loro di storie, da funambolo, con leggerezza e grazia. Perché ogni uomo è terra di confine: luce e tenebre, vita e morte, Gesù camminando con grazia e leggerezza ha guardato con amore dentro le tenebre dell’uomo e ha saputo proporre una fune tesa da iniziare a camminare. Stavano gettando le reti Simone e Andrea e sempre le avrebbero lanciate, giorno dopo giorno, di sopravvivenza in sopravvivenza ma quel senso di vita che non basta, quel senso di vuoto che nausea, quel bisogno di dare un senso ultimo alla propria storia, quello le reti non lo scalfiscono. La pesca permette alla vita di sporgersi un giorno ancora sul tempo ma il senso di tutto questo? E quando ti fermi a riparare le tue reti, quelle che portano addosso le ferite inevitabili del quotidiano quando, come Giacomo e Giovanni, ti ritrovi a tenere insieme una vita che continuamente ha solo bisogno di essere riparata e anche questo, lo sai, in una ripetizione senza fine… se incroci uno sguardo che ti accompagna a scendere dentro l’abisso che ti porti dentro tu le reti le lasci e anche il padre e le barche. Non perché vuoi fuggire ma perché hai sentito distintamente la possibilità di poter cominciare a desiderare la vita. Quello che ti porta a camminare in equilibrio tra la vita e la morte, quello che ti espone al rischio di perderti o a quello di trovarti è la scoperta di una promessa nascosta dentro lo spazio e il tempo che ti è stato chiesto di abitare. Gesù, funambolo della vita, con uno sguardo, ha promesso ai suoi un cammino per uscire dalle tenebre che ognuno si porta dentro. Cammino dal prezzo altissimo, cammino di tutto o niente: perdere la vita per trovarla. Si inizia lasciando le reti e si finisce lasciando la vita: solo ed esclusivamente per trovarsi. Per arrivare finalmente a guardarsi come Dio ci guarda. Gli occhi di Gesù sono inizio e compimento.

Camminano dietro di lui i discepoli, su quel filo teso tra vita e morte, tra mare e deserto, profumo di Esodo e libertà. Dietro di lui, pronti a cadere per lasciarsi rialzare. Nessuna preparazione previa, nessuna annunciazione, nessuna nascita verginale, nessun angelo per loro a schiodarli dal quotidiano: solo un uomo che ha guardato le tenebre del cuore con grazia e senza condanna.

Un uomo che parlava di conversione e di un Regno vicino. La conversione erano quegli occhi profondi e misericordiosi, se lo seguivi era perché quegli occhi ti avevano incantato, che il desiderio di vita si risveglia solo se occhi luminosi ti toccano le corde del cuore, se senti misericordia invaderti, se ti senti amato, il resto viene dopo. Conversione è cambiare lo sguardo, il proprio sguardo sui fratelli. E in quegli occhi sentire che il Regno è presente, adesso. Non un paradiso terreste lasciato alle spalle e nemmeno un paradiso celeste appeso alla speranza, no, se ti senti guardato da Lui tu senti che quello è lo sguardo di Dio, che Dio ti ama così, adesso, e le tenebre del cuore non spariscono però non ti fanno più così paura. Quantomeno smetti di nasconderle. Dentro uno sguardo così potevi perfino piangere. Per questo lo seguirono.

“Pescatori di uomini”, non era chiara quella promessa. Si intuiva che non erano chiamati a diventare altro, che dovevano continuare a essere loro stessi, pescatori, che la storia non si cancella ma si prende tutta, per quello che è e per quello che è stata solo c’era urgenza di una nuova attenzione all’uomo. Dovevano imparare quello sguardo. Quello sguardo che li aveva conquistati e sedotti sarebbe dovuto entrare anche nei loro occhi. Gesù stava pescando uomini, stava pescando loro. Stava trascinando fuori dalle acque ferme e tenebrose della vita un gruppo di uomini perché anche loro, un giorno, fossero capaci di sguardi luminosi e profondi, di cammini funambolici sopra l’abisso, di consegna totale di sé. Il Vangelo di oggi è la descrizione dei primi passi sulla fune tesa che porta alla vita. La pagina di oggi è pagina da rileggere ogni volta che cadiamo e perdiamo il desiderio. Ogni volta che i nostri occhi si spengono e diventano increduli e si accontentano di riparare reti. Ogni volta che ci dimentichiamo come ci guarda Dio.

 

Edda CattaniIl funambolo
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Maria Madre di Dio

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Maria Madre di Dio.

 

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Papa Francesco: abbiamo tutti bisogno di un cuore di madre

Da Internet: Avvenire 1 gennaio 2018

“Il dono di ogni madre e donna è tanto prezioso per la Chiesa” così papa Francesco nella solennità di Maria Madre di Dio. Al Te Deum: il 2017 è stato ferito con opere di morte, menzogne e ingiustizie

“L’anno si apre nel nome della Madre di Dio”. Con queste parole il Papa ha cominciato l’omelia della Messa della Solennità di Maria Santissima Madre di Dio nell’ottava di Natale e nella ricorrenza della 51.ma Giornata mondiale della Pace sul tema: “Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace”.

“Madre di Dio è il titolo più importante della Madonna”, ha ricordato il Papa, che si è chiesto: Perché diciamo Madre di Dio e non Madre di Gesù? “In queste parole – ha spiegato Francesco – è racchiusa una verità splendida su Dio e su di noi. E cioè che, da quando il Signore si è incarnato in Maria, da allora e per sempre, porta la nostra umanità attaccata addosso”. “Non c’è più Dio senza uomo”, ha affermato il Papa: “La carne che Gesù ha preso dalla Madre è sua anche ora e lo sarà per sempre”. “Dire Madre di Dio ci ricorda questo”, ha sintetizzato Francesco: “Dio è vicino all’umanità come un bimbo alla madre che lo porta in grembo”.

Perché la fede non sia solo dottrina, abbiamo bisogno tutti di un cuore di madre

Come Maria, la Madre, “firma d’autore di Dio sull’umanità”, “il dono di ogni madre e di ogni donna è tanto prezioso per la Chiesa, che è madre e donna. E mentre l’uomo spesso astrae, afferma e impone idee, la donna, la madre, sa custodire, collegare nel cuore, vivificare”. “Perché la fede – ha sottolineato il Papa – non si riduca solo a idea o dottrina – ha concluso -, abbiamo bisogno, tutti, di un cuore di madre, che sappia custodire la tenerezza di Dio e ascoltare i palpiti dell’uomo”.

“La Madre custodisca quest’anno e porti la pace di suo Figlio nei cuori e nel mondo”. Con questa invocazione papa Francesco ha concluso la sua omelia celebrata oggi primo gennaio, nella Solennità di Maria Santissima Madre di Dio.

“Anche noi, cristiani in cammino, all’inizio dell’anno – ha spiegato – sentiamo il bisogno di ripartire dal centro, di lasciare alle spalle i fardelli del passato e di ricominciare da ciò che conta. Ecco oggi davanti a noi il punto di partenza: la Madre di Dio. Perché Maria è esattamente come Dio ci vuole, come vuole la sua Chiesa: Madre tenera, umile, povera di cose e ricca di amore, libera dal peccato, unita a Gesù, che custodisce Dio nel cuore e il prossimo nella vita. Per ripartire, guardiamo alla Madre. Nel suo cuore batte il cuore della Chiesa”.

Edda CattaniMaria Madre di Dio
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