Figli del Perdono Originale
(Matteo 18,21-35)
(Alessandro Dehò)
“Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore se le porta dentro” e se te le porti dentro vuol dire che te le porti dappertutto. E questo è inferno. Il vero inferno, quello da cui non riusciamo più a liberarci perché è in noi, è dentro il modo di guardare il mondo, di giudicarlo, di disprezzarlo. Rancore e ira come segni bestiali di una vita ferita e non riconciliata. Secondo Siracide sono segno del nostro essere peccatori, quando ci portiamo dentro le ossa ira e rancore, quando veniamo mangiati dall’interno da una bestialità che scegliamo di non ridurre noi siamo abitati dal peccato. Il peccato cessa così di essere una regola infranta da un decalogo imposto dal dio del controllo e inizia a mostrarsi per quello che è: il peccato è quando permetto al rancore e all’ira di mangiarmi dall’interno, di svuotarmi gli occhi, di inacidirmi la parola, di giustificare doppiezze, di godere delle tragedie del nemico…
“Ricordati della fine e smetti di odiare, della dissoluzione e della morte”, dirigiti verso la fine dei giorni, spingi fino al limite della morte la tua esistenza terrena e poi guardati alle spalle… cosa è rimasto di una vita consumata dall’odio? Lo vedi l’inferno? E quella scia di dissoluzione, e quella morte con cui hai avvelenato le sorgenti della vita, la vedi? Ne valeva la pena?
Siracide mette ci mette in guardia da noi stessi, dall’inferno che possiamo costruire ogni giorno e dilatare. Un inferno così quotidiano da essere irriconoscibile, perché rancore e ira sono cose orribili se non le giustifichi, se non ci illudiamo che siano risposte legittime a vere o presunte ingiustizie. Siracide non chiede di perdersi nella giustificazione del rancore, lo guarda in faccia, lo teme e lo denuncia. Se hai rancore e ira sei nel peccato, ti sei porti l’inferno dentro ed è meglio per te e per i tuoi fratelli che ne esci, adesso, che sei ancora in tempo, che la vita non è ancora giunta alla fine, che dall’inferno ci si può liberare.
Siracide è uno sguardo di amico sincero e saggio, è parola buona e vera sulle nostre vite che spesso spingiamo al limite della disumanità, Siracide è l’amico che si siede accanto a noi e, senza condannarci, ci avverte di un possibile pericolo, indica la possibilità che la morte ci stia masticando da dentro. Come un tumore, metastasi di svuotamenti interiori.
Serve qualcuno. Serve di sentirsi appartenenti a qualcuno: “nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso”. San Paolo nella seconda lettura è come se intuisse un legame tra rancore/ira e solitudine. Non solo perché il rancore scava attorno a noi distanze che si autoalimentano fino a giustificare i nostri isolamenti ma perché è proprio la solitudine a concedere spazi di inferno. Il peccato nasce nel non sentirsi di nessuno, dal non vivere per nessuno. E si comprende l’insistenza di Gesù sul concetto di paternità divina. Il peccato diventa quindi la rottura dei legami e non l’asettica infrazione della regola. Di chi siamo? A chi apparteniamo? Ciò che apre la possibilità di una fuga dall’inferno è il riconoscimento di una relazione affidabile. Il paradiso è la gioia di stare dentro la bellezza di una relazione buona, concretamente buona, ricca di parole, gesti, sorrisi, attenzioni. Ancora una volta il divino è visibile solo nelle trame di una vita buona capace di stringere legami sospesi sugli abissi dell’abbandono.
Ma non basta essere solo figli, essere solo uomini e donne raggiunti da un amore, credo che maturità vera sia diventare costruttori di umanità. E l’umano buono si costruisce diventando padri e madri. Non sostare solo sulla domanda “di chi siamo? A chi apparteniamo?” ma avere il coraggio di assumere lo sguardo divino e iniziare a chiedersi “chi custodisco io? Chi si sente raggiunto nella sua solitudine dalla concretezza della mia vita?”. Figli orfani e spesso risentiti di padri assenti siamo chiamati a non consumarci nell’ira/rancore a causa dei nostri subìti abbandoni, pur riconoscendoci orfani di paternità affidabili a causa di generazioni troppo intente ad ucciderli i padri ora siamo chiamati ad assumerci la responsabilità dei legami. Per chi batte il nostro cuore? Per chi piango, rido, spero, sogno? Per chi sto consumando la vita? Per chi conservo parole non usurate dall’abitudine? Per chi arde il mio cuore? Dall’inferno non si esce se non con un gesto di rivoluzionaria libertà: l’assunzione della fraternità umana. Nostra e dei fratelli. Dall’uccisione del padre a una nuova consapevole paternità.
Scrollarsi di dosso ira e rancore permette una torsione vitale a monte del nostro vivere. Alle origini. La tradizione ci vuole figli del peccato originale, in una lettura semplicistica e superficiale questo è diventato come l’ombra lunga gettata sulle nostre storie. Figli di un peccato nato nel cuore delle relazioni tra uomo e donna, tra fratelli, tra uomo e Dio. E noi ad arrancare in questo peccato più grande di noi, più antico di noi, più eterno di noi. Ma il Vangelo sposta l’attenzione. Pietro avvicina Gesù e chiede un limite, un confine al perdono. Come se cedesse ad una vocazione arcaica: perdonare è splendido, sembra dire, ma la natura dell’uomo, alla fine, chiede un risarcimento. Posso perdonare fino a sette volte ma poi posso tornare a essere uomo? Posso impegnarmi in questa santità del perdono fino a sette volte ma poi posso rientrare nella natura umana, nella logica di un peccato da riparare, nel consueto recinto della giustizia/vendetta?
Gesù racconta una parabola che mi sembra abbia, cuore incandescente, uno sguardo totalmente altro sull’uomo e sul Padre. In Gesù non c’è solo la follia di chi vuole sfondare il limite dell’eroicità del perdono, settanta volte sette, ma in lui si costruisce la narrazione di un Padre che ci precede e che non si impegna a dilatare vendetta al peccato originale ma che dilata misericordia. La nostra origine non è il peccato originale ma il perdono originale, questo dice Gesù. Questo significa che il perdono è atto costitutivo della natura dell’uomo, ed è in perfetta continuità con Siracide, a Pietro Gesù dice che nel momento in cui smetterà di perdonare lui smetterà di essere uomo. L’ira e il rancore, ma anche la soddisfazione perversa di smettere di perdonare il fratello, distrugge la nostra identità. L’essenza di Dio e dell’Uomo è identica, e si chiama misericordia. Uscirne è negarsi, uscirne è consegnarsi alla solitudine e al rancore e all’ira. Uscire dalla misericordia è inferno. Ma noi siamo del Padre e in lui c’è un settanta volte sette di vita, una eternità di vita. Questo l’unico profilo della Speranza.