Evangelizzazione e Analisi

Figli del Perdono Originale

No comments

Figli del Perdono Originale

(Matteo 18,21-35)

(Alessandro Dehò)

 deho1

“Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore se le porta dentro” e se te le porti dentro vuol dire che te le porti dappertutto. E questo è inferno. Il vero inferno, quello da cui non riusciamo più a liberarci perché è in noi, è dentro il modo di guardare il mondo, di giudicarlo, di disprezzarlo. Rancore e ira come segni bestiali di una vita ferita e non riconciliata. Secondo Siracide sono segno del nostro essere peccatori, quando ci portiamo dentro le ossa ira e rancore, quando veniamo mangiati dall’interno da una bestialità che scegliamo di non ridurre noi siamo abitati dal peccato. Il peccato cessa così di essere una regola infranta da un decalogo imposto dal dio del controllo e inizia a mostrarsi per quello che è: il peccato è quando permetto al rancore e all’ira di mangiarmi dall’interno, di svuotarmi gli occhi, di inacidirmi la parola, di giustificare doppiezze, di godere delle tragedie del nemico…

“Ricordati della fine e smetti di odiare, della dissoluzione e della morte”, dirigiti verso la fine dei giorni, spingi fino al limite della morte la tua esistenza terrena e poi guardati alle spalle… cosa è rimasto di una vita consumata dall’odio? Lo vedi l’inferno? E quella scia di dissoluzione, e quella morte con cui hai avvelenato le sorgenti della vita, la vedi? Ne valeva la pena?

Siracide mette ci mette in guardia da noi stessi, dall’inferno che possiamo costruire ogni giorno e dilatare. Un inferno così quotidiano da essere irriconoscibile, perché rancore e ira sono cose orribili se non le giustifichi, se non ci illudiamo che siano risposte legittime a vere o presunte ingiustizie. Siracide non chiede di perdersi nella giustificazione del rancore, lo guarda in faccia, lo teme e lo denuncia. Se hai rancore e ira sei nel peccato, ti sei porti l’inferno dentro ed è meglio per te e per i tuoi fratelli che ne esci, adesso, che sei ancora in tempo, che la vita non è ancora giunta alla fine, che dall’inferno ci si può liberare.

Siracide è uno sguardo di amico sincero e saggio, è parola buona e vera sulle nostre vite che spesso spingiamo al limite della disumanità, Siracide è l’amico che si siede accanto a noi e, senza condannarci, ci avverte di un possibile pericolo, indica la possibilità che la morte ci stia masticando da dentro. Come un tumore, metastasi di svuotamenti interiori.

Serve qualcuno. Serve di sentirsi appartenenti a qualcuno: “nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso”. San Paolo nella seconda lettura è come se intuisse un legame tra rancore/ira e solitudine. Non solo perché il rancore scava attorno a noi distanze che si autoalimentano fino a giustificare i nostri isolamenti ma perché è proprio la solitudine a concedere spazi di inferno. Il peccato nasce nel non sentirsi di nessuno, dal non vivere per nessuno. E si comprende l’insistenza di Gesù sul concetto di paternità divina. Il peccato diventa quindi la rottura dei legami e non l’asettica infrazione della regola. Di chi siamo? A chi apparteniamo? Ciò che apre la possibilità di una fuga dall’inferno è il riconoscimento di una relazione affidabile. Il paradiso è la gioia di stare dentro la bellezza di una relazione buona, concretamente buona, ricca di parole, gesti, sorrisi, attenzioni. Ancora una volta il divino è visibile solo nelle trame di una vita buona capace di stringere legami sospesi sugli abissi dell’abbandono.

Ma non basta essere solo figli, essere solo uomini e donne raggiunti da un amore, credo che maturità vera sia diventare costruttori di umanità. E l’umano buono si costruisce diventando padri e madri. Non sostare solo sulla domanda “di chi siamo? A chi apparteniamo?” ma avere il coraggio di assumere lo sguardo divino e iniziare a chiedersi “chi custodisco io? Chi si sente raggiunto nella sua solitudine dalla concretezza della mia vita?”. Figli orfani e spesso risentiti di padri assenti siamo chiamati a non consumarci nell’ira/rancore a causa dei nostri subìti abbandoni, pur riconoscendoci orfani di paternità affidabili a causa di generazioni troppo intente ad ucciderli i padri ora siamo chiamati ad assumerci la responsabilità dei legami. Per chi batte il nostro cuore? Per chi piango, rido, spero, sogno? Per chi sto consumando la vita? Per chi conservo parole non usurate dall’abitudine? Per chi arde il mio cuore? Dall’inferno non si esce se non con un gesto di rivoluzionaria libertà: l’assunzione della fraternità umana. Nostra e dei fratelli. Dall’uccisione del padre a una nuova consapevole paternità.

Scrollarsi di dosso ira e rancore permette una torsione vitale a monte del nostro vivere. Alle origini. La tradizione ci vuole figli del peccato originale, in una lettura semplicistica e superficiale questo è diventato come l’ombra lunga gettata sulle nostre storie. Figli di un peccato nato nel cuore delle relazioni tra uomo e donna, tra fratelli, tra uomo e Dio. E noi ad arrancare in questo peccato più grande di noi, più antico di noi, più eterno di noi. Ma il Vangelo sposta l’attenzione. Pietro avvicina Gesù e chiede un limite, un confine al perdono. Come se cedesse ad una vocazione arcaica: perdonare è splendido, sembra dire, ma la natura dell’uomo, alla fine, chiede un risarcimento. Posso perdonare fino a sette volte ma poi posso tornare a essere uomo? Posso impegnarmi in questa santità del perdono fino a sette volte ma poi posso rientrare nella natura umana, nella logica di un peccato da riparare, nel consueto recinto della giustizia/vendetta?

Gesù racconta una parabola che mi sembra abbia, cuore incandescente, uno sguardo totalmente altro sull’uomo e sul Padre. In Gesù non c’è solo la follia di chi vuole sfondare il limite dell’eroicità del perdono, settanta volte sette, ma in lui si costruisce la narrazione di un Padre che ci precede e che non si impegna a dilatare vendetta al peccato originale ma che dilata misericordia. La nostra origine non è il peccato originale ma il perdono originale, questo dice Gesù. Questo significa che il perdono è atto costitutivo della natura dell’uomo, ed è in perfetta continuità con Siracide, a Pietro Gesù dice che nel momento in cui smetterà di perdonare lui smetterà di essere uomo. L’ira e il rancore, ma anche la soddisfazione perversa di smettere di perdonare il fratello, distrugge la nostra identità. L’essenza di Dio e dell’Uomo è identica, e si chiama misericordia. Uscirne è negarsi, uscirne è consegnarsi alla solitudine e al rancore e all’ira. Uscire dalla misericordia è inferno. Ma noi siamo del Padre e in lui c’è un settanta volte sette di vita, una eternità di vita. Questo l’unico profilo della Speranza.

 

Edda CattaniFigli del Perdono Originale
Leggi Tutto

SS.ma Trinità

No comments

Domenica della SS.ma Trinità

Ermes Maria Ronchi

 trinita

I termini che Gesù sceglie per raccontare la Trinità, sono nomi di famiglia, di affetto: Padre e Figlio, nomi che abbracciano, che si abbracciano. Spirito è nome che dice respiro: ogni vita riprende a respirare quando si sa accolta, presa in carico, abbracciata. In principio a tutto è posta una relazione; in principio, il legame. E se noi siamo fatti ‘a sua immagine e somiglianza’, allora il racconto di Dio è al tempo stesso racconto dell’uomo, e il dogma non rimane fredda dottrina, ma mi porta tutta una sapienza del vivere. Cuore di Dio e dell’uomo è la relazione: ecco perché la solitudine mi pesa e mi fa paura, perché è contro la mia natura. Ecco perché quando amo o trovo amicizia sto così bene, perché allora sono di nuovo a immagine della Trinità. Nella Trinità è posto lo specchio del nostro cuore profondo, e del senso ultimo dell’universo. Nel principio e nella fine, origine e vertice dell’umano e del divino, è il legame di comunione. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio…” In queste parole Giovanni racchiude il perché ultimo dell’incarnazione, della croce, della salvezza: ci assicura che Dio in eterno altro non fa che considerare ogni uomo e ogni donna più importanti di se stesso. Dio ha tanto amato… E noi, creati a sua somigliante immagine, “abbiamo bisogno di molto amore per vivere bene” (J. Maritain).
Da dare il suo Figlio: nel vangelo il verbo amare si traduce sempre con un altro verbo concreto, pratico, forte, il verbo dare (non c‘è amore più grande che dare la propria vita…). Amare non è un fatto sentimentale, non equivale a emozionarsi o a intenerirsi, ma a dare, un verbo di mani e di gesti. “Dio non ha mandato il Figlio per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato”. Salvato dall’unico grande peccato: il disamore. Gesù è il guaritore del disamore (V. Fasser). Quello che spiega tutta la storia di Gesù, quello che giustifica la croce e la pasqua non è il peccato dell’uomo, ma l’amore per l’uomo; non qualcosa da togliere alla nostra vita, ma qualcosa da aggiungere: perché chiunque crede abbia più vita. Dio ha tanto amato il mondo… E non soltanto gli uomini, ma il mondo intero, terra e messi, piante e animali. E se lui lo ha amato, anch’io voglio amarlo, custodirlo e coltivarlo, con tutta la sua ricchezza e bellezza, e lavorare perché la vita fiorisca in tutte le sue forme, e racconti Dio come frammento della sua Parola. Il mondo è il grande giardino di Dio e noi siamo i suoi piccoli “giardinieri planetari”. Davanti alla Trinità, io mi sento piccolo ma abbracciato, come un bambino: abbracciato dentro un vento in cui naviga l’intero creato e che ha nome amore.

Commento al Vangelo di Ermes Maria Ronchi

 

 

Edda CattaniSS.ma Trinità
Leggi Tutto

Lasciare al profumo

No comments

Lasciare al profumo di essere profumo

ptofumo
(Luca 7,36-8,3)
XI Tempo Ordinario C

Gesù e la peccatrice

 

Tra le mani un piccolo vasetto di profumo. Magari lei non l’avrebbero lasciata entrare ma il profumo, quello, nessuno può fermarlo. Del suo corpo avrebbero potuto fare quello che volevano, ormai era abituata la gioco maschile del potere che crede di possedere quello che riesce a comprare, ma il profumo di quel vasetto sarebbe passato. Bastava rompere il vaso. E lei avrebbe pianto di gioia, ne era sicura, perché lei si sentiva come quel pugno di terracotta, un profumo trattenuto, aspettava da una vita intera qualcuno capace di infrangere quella scorza dentro cui si sentiva costretta. Soffocata dal giudizio benpensante dovuto a quel mestiere che molti sfruttano e che tutti condannano. Lei, la prostituta, avrebbe voluto urlare che si sentiva come quel piccolo vaso, che si sentiva in grado di profumarla la vita, che aspettava solo qualcuno in grado di rompere le pareti, qualcuno che non avesse paura del suo profumo. Lei, quel giorno, non voleva altro che farsi respirare da Gesù. Non chiedeva altro, rompere le costrizioni della forma per lasciar libera l’essenza. Il fariseo non può capire, la religione, sempre alla ricerca di forme rigide e sicure non può capire, solo Gesù comprende. E la lascia fare. Lascia al profumo di essere profumo. Amare è frantumare la corazza, è abbassare le difese, è lasciare che il profumo si liberi nell’aria, gratuitamente e indistintamente. È non avere paura di perdersi. Perché amare è, in fondo, perdersi. Per l’altro. Amare è rompere le costrizioni della forma rigida e precostituita di un vaso per esprimere l’essenza, per lasciarsi respirare, per assumere la forma di chi si ama. 

La donna poi si mette ai piedi di Gesù. E vede subito, sono piedi bellissimi, sono i piedi di un Dio, sono i piedi di chi ha imparato a camminare le strade della terra senza smarrire il Cielo. Sono i piedi di un Dio che ha scelto di mostrare strade nuove e lei comprende, in un istante, quello che cercava da una vita, quello che mancava a ciò che lei chiamava amore: amare significa camminare. Camminare incontro, comminare accanto, amare significa inventare sentieri nuovi, amare significa che sulla strada della vita non siamo soli. L’amore passa per i piedi. Il fariseo, seduto, non può capire che l’amore non è un concetto ma un percorso, l’amore è un cammino. Non puoi definirlo l’amore, solo seguirlo con umiltà e fiducia nelle sue evoluzioni. L’amore è un cammino, un cambiamento, una danza a due. L’amore passa attraverso i piedi. Dovremmo ricordacene, come Chiesa, di non definire mai l’amore stando seduti al tavolo del fariseo, che non dovremmo mai porre delle condizioni per definire cosa significhi amare ma crearle le condizioni, creare le condizioni perché ognuno possa rimettersi in cammino, qualunque sia il suo passato, qualunque siano i suoi errori, dovremmo guardare i piedi delle persone che incontriamo e vedere strade nuove, percorsi sempre possibili. Da subito. Dovremmo guardare i nostri piedi e chiederci se stiamo camminando. La donna del Vangelo ama, e proprio perché ama può tornare a essere donna libera, e nessun peccato preclude dal pranzo con Gesù, la comunione con Lui è decisa solo dall’Amore.

Poi piange quella donna. Piange di nostalgia, piange come bambina che scopre improvvisamente ciò che ha cercato da sempre senza trovarlo mai. In tanti avevano usato di lei, nessuno le aveva regalato un orizzonte. Amare è questione di piedi in cammino e di lacrime versate per qualcuno. Chi ci chiede di rimanere fermi, di non rischiare, di mantenere la posizione, di accontentarci, semplicemente non ci ama. Chi non raccoglie il nostro dolore, chi non si commuove, chi non piange mai, non ama. E non crede. Il fariseo è seduto a tavola, immobile. La donna piange a ricordare che la verità dell’amore passa sempre da un cuore sensibile. La donna è sensuale, il cuore sensibile… la pagina di oggi ricorda in modo evidente che l’amore non è mai senza un corpo. Dovremmo ricordacene. Di non parlare mai dell’amore se non abbiamo in petto un cuore capace di commuoversi e mani che sanno accarezzare. La donna accarezza, piange e bacia: è viva. Senza vergogna lascia cantare il suo corpo con l’unica grammatica che conosce, quella dell’eros. E Gesù la lascia fare. La lascia essere. Perché fermare l’amore? Perché ostinarsi a ridurre l’amore a un concetto?
Il fariseo in quella liturgia vede solo una peccatrice. Gesù in quella liturgia vede una donna che ama. E questa differenza è abissale. Certo che anche Gesù vede l’errore ma non è questo quello che conta, quello che conta, nella vita, è se ami davvero qualcuno. 

Dovremmo urlarlo dalla mattina alla sera, dovremmo avere il coraggio di liberarci dei nostri sofismi ipocriti, dovremmo solo lasciare libero il vangelo di essere vangelo, buona notizia, dovremmo disincagliare l’amore dalle paludi della paura, dovremmo rompere quelle corazze strette che pretendono di spacciare per Vangelo abitudini culturali. Dovremmo avere il coraggio di chiedere scusa per quando trasformiamo il Vangelo in una morale bigotta e triste. Della vita importa solo quanto abbiamo saputo amare, questo ripete ad ogni istante l’uomo di Nazareth. Mi commuove pensare a questo Dio che, nel giorno Ultimo, non avrà tenuto la triste contabilità dei nostri errori e tradimenti ma ci ringrazierà per tutte le lacrime che abbiamo versato per amore. Certamente avremo accumulato anche errori, perché nell’amore si fa male e ci si fa male, ma la domanda finale di Dio, lo sguardo ultimo sulla vita non riguarderà la “purezza” ma l’amore. Non ci verranno rinfacciati i peccati ma ci sarà chiesto motivo della nostra vita trattenuta e sterile. Peccato mortale è non amare.

Simone non riesce a capire. E Gesù prova con una parabola. Un creditore aveva due debitori… parabola volgare, non puoi spiegare l’amore con il denaro. Solo chi si prostituisce mette prezzo all’amore. Ma Simone comprende solo la grammatica del denaro. E mentre scorre questa parabola non capisci più chi abbia prostituito davvero l’amore: le parti si invertono. Gesù prova a spiegare a Simone cosa significhi amare usando i gesti della prostituta. Usando un corpo. Narra di baci e carezze, narra di lacrime e di profumo…e nella narrazione di Gesù non c’è traccia di ambiguità. I gesti sono gli stessi e noi ci scopriamo a guardarli con gli occhi di Gesù, e scopriamo che ambiguo è il pensiero di Simone, il peccato abita nei suoi occhi. Non sappiamo come si sia conclusa la storia. Non sappiamo della donna e nemmeno di Simone, rimane tutto in sospensione, rimangono però dei gesti d’amore riportati al loro Senso profondo. Rimangono le nostre mani, i nostri occhi, le lacrime che potremmo versare, rimane un corpo, il nostro che può tornare a narrare l’amore. Rimane un corpo, il nostro, che se ricomincia a narrare l’amore può contribuire a portare profumo nuovo nel mondo. Rimane un corpo, il nostro, che amando può tornare a narrare Dio.

(A.Dehò)

Edda CattaniLasciare al profumo
Leggi Tutto

Continuando l’Avvento

No comments

 

(  Da Crocetta con Alessandro Dehò  )

IV Domenica diAvvento

Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

Nomi

(Luca 1,26-38)

IV Avvento anno B 2020

GABRIELE=forza di Dio “L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea”.

E se avesse bussato? Gabriele dico, l’angelo nel cui nome è raccontata la “forza di Dio”, se avesse camminato fino alla casa di Maria, se avesse sollevato la polvere come fosse polline di primavera, se fosse arrivato col cuore in gola e con la paura di non essere ricevuto? Non sarebbe questa vera potenza divina? Troppo semplice affidarsi a voli, che nel Vangelo non sono descritti, troppo facile entrare leggeri come colombe quando poi il Figlio renderà sacra la mano del pescatore e preghiera il pianto della prostituta.

E se avesse bussato? La mano dell’angelo sospesa a due centimetri dalla tavola levigata da Giuseppe. Se avesse chiesto “permesso?” e accettato un bicchiere d’acqua, se le sue parole avessero detto esattamente le cose riportate dall’Evangelista Luca, ci mancherebbe, una alla volta, ma con un po’ meno di enfasi? Magari senza citazione così smaccata di antichi canti biblici? Un po’ più feriale insomma. Se si fosse seduto, Gabriele, la potenza di Dio, semplicemente ad aspettare. Ad aspettare l’uomo. Ad aspettare i tempi di maturazione della consapevolezza umana, come fanno i padri e le madri, i contadini e gli innamorati.

Io il mio Signore lo immagino così, e me lo vedo, a bussarmi, con gli occhi umidi che cercano calore. E io che non capisco e sto, come sospeso, spesso incapace di vedere. Incapace di riconoscere Gabriele nella fragilità di chi cerca un incontro. Incapace di aprire. Impaurito. E la sua potenza? E’ l’attesa.

Io il mio Signore lo immagino così, mentre verso un bicchiere di vino da offrire all’ospite, mentre taglio una fetta di formaggio, mentre dentro di me mastico la domanda quotidiana sul mio essere al mondo, “che senso ha tutto questo?”, e Gabriele, la potenza di Dio, beve calmo e mi guarda e aspetta. Non temere, dice, senza parole. Non temere, la potenza di Dio è nell’attesa, è in questa sua ubriacante decisione di chiedere permesso all’uomo, permesso di entrare, di fare casa.

E non se ne va, nemmeno quando non lo vedo più, nemmeno dopo i saluti, che la forza è la perseveranza degli amanti. Non se ne va. Nonostante le mie incertezze e il dilatarsi di questa annunciazione che non finisce mai. Non se ne va, c’è, e bussa.

Davide=amato, Giuseppe=Dio aggiunge un uomo della casa di Davide di nome Giuseppe”.

La casa è quella di Davide, che significa “amato” e l’uomo è Giuseppe “Dio aggiunge”. Tutto è scritto nei nomi. Il senso profondo della vita è in questa capacità di abitare una casa e che questa casa sia il più possibile dimora dell’amato. Non tanto di chi ama ma di chi si lascia amare. Cosa chiedere di più alla vita? Come arrivare alla fine dei giorni senza la paura di aver fallito? Forse basta essere più Davide e più Giuseppe, lasciare che Dio aumenti la profondità con il suo amore. Sono contento di abitare in una casa, vera.

Io il mio Signore lo immagino così, un compagno di vita, occhi commossi, mani tenere, il calore di una carezza ogni volta che riesco a elemosinare un po’ d’amore.

Desidero arrivare alla fine e aver imparato a farmi amare. Anzi, di più, voglio imparare a chiederlo l’amore, con tutta l’umiltà e la verità che mi mancano. Chiedere l’amore per diventare sempre più Davide, amato, e sempre più Giuseppe, spazio di una Vita aggiunta alla vita.

MARIA=amarezza (dice qualcuno) e donna del mare (e altre ipotesi) “La vergine si chiamava Maria”

Ci sono nomi che sono anche sapori, che quando li pronunci lasciano sulla lingua un gusto che rimane, come la memoria di un bacio. Maria è dolce, è vero. Ma mi affascina che qualcuno, tra le ipotesi sull’etimologia del nome, le affianchi anche l’amarezza e il gusto salato del mare. Perché così Maria la sento più vicina a me. E non ho più paura di sedermi tra lei e Gabriele, tra la potenza dell’attesa e il coraggio di una vita che comprende tutto, amarezze comprese, che non ha paura di testimoniare che spesso la vita è una traversata di un mare che entra negli occhi e fa lacrimare salato. Io il Signore me lo immagino così, vero, imbarcato con me, legato alla mia storia, incarnato nelle inevitabili amarezze e nelle benedette lacrime di mare. Io lo immagino così, perché poi la storia è sempre buona, ogni cosa lascia dietro di sé rinnovate consapevolezze. Che l’inferno, l’inferno vero, quello che sperimentiamo su questa terra, anche se ci costa ammetterlo, è vivere senza percepire il vento contrario e le burrasche pericolose. Una vita senza dolore, una vita sempre dolce, una vita che non prevede lacrime per me è l’inferno. Nessuna fiamma immagino nel cuore del male, nel cuore della vita senza senso immagino invece nessuna lacrima e nessuno struggimento per amarezza. E un mare così calmo che non ti viene voglia di imbarcarti.

GESU’=Dio salva “…e lo chiamerai Gesù”

Salvami Signore, solo tu puoi,

salvami dai miei deliri di potenza e di onnipotenza,

salvami dalla pretesa e dalla superficialità. Salvami dalla fretta. Aiutami ad aspettarmi.

Salvami Signore dalla frenesia di voler amare,

dai sensi di colpa di non saperlo fare. Salvami dall’orgoglio che non mi permette di chiedere amore.

Salvami Signore, aggiungi tu alla mia vita quello che desideri, aiutami a non confondere la libertà con l’illusione di avere tutto sotto controllo, di essere il capitano unico e definitivo del mistero.

Salvami Signore da me stesso, dalla mia eccessiva tranquillità, dalla paura di solcare i mari dell’incontro, dalla paura di non essere all’altezza del dolore degli altri.

Salvami Signore, salvami da me stesso.

 

Edda CattaniContinuando l’Avvento
Leggi Tutto

La dimensione del cielo

No comments

Una possibilità umana


LA DIMENSIONE DEL CIELO

aspettare

«Colui che va in fondo al proprio cuore conosce la sua natura. Conoscendo la sua natura, conosce il Cielo»

(Meng-tzu, pensatore confuciano del IV secolo a.C.).

Nella frase di Meng-tzu c’è la particolare dimensione che l’uomo riesce ad attingere al di là di sè e insieme al dentro di sè. Lo spirito unisce l’io al Tu, l’io con l’Altro, questo è accedere al divino. Una immanenza che diventa trascendenza.

Dice Vito Mancuso: “Quando l’uomo opera il superamento della logica ordinaria che lo lega alla struttura nella direzione di un incremento di ordine e di armonia (fenomeni di cui il linguaggio parla in termini di gratuità, disinteresse personale, solidarietà, carità) ci si trova in presenza di un fenomeno sovra-naturale, la cui logica, non contenuta in quanto tale nella struttura naturale, segnala un diverso livello dell’essere. E l’uomo, che si sa figlio della terra (la struttura), si scopre anche figlio di un’altra dimensione, per designare la quale non ha saputo fare di meglio che rimandare al ‘cielo’, come fanno le grandi tradizioni spirituali”.

Cielo, dimensione alta a cui noi ci riferiamo per indicare qualcosa di grande, l’infinito, il di più che ci abita e verso cui aneliamo. Ecco perché il divino è stato posto in cielo, luogo dell’incommensurabile ed eccelso. E noi nella tensione “verso”, usciamo fuori ed andiamo dove non c’è contaminazione del mondo che non ci soddisfa, dove c’è armonia e ordine, livello superiore che soddisfa e prende, dimensione dello spirito, l’unica umana che riesce a sollevarsi pur anco di poco.

(dal web)

 

 

Edda CattaniLa dimensione del cielo
Leggi Tutto

L’umanizzazione di Dio

No comments

L’umanizzazione di Dio

 

Premetto che non trovo di meglio che richiamare alcuni dei concetti espressi in un recente volume del teologo José Marìa Castillo, “L’umanità di Dio”, che alla maniera dei testi dei grandi filosofi tedeschi dei secoli scorsi riesce a coniugare sociologia, filologia, speculazione e, appunto, teologia in una serena divulgazione per esperti e profani, laici e religiosi, credenti ed agnostici. Invito tutti a leggerlo!

Come parlare del sovrannaturale, dove cercarlo? Dal libro dell’Esodo al Vangelo di Giovanni è possibile trattare, quale fil rouge, il tema dell’assoluta inconoscibilità del (presunto? reale?) Essere superiore, perlomeno secondo i parametri sensibili o cognitivi propri dell’uomo. Ne consegue che qualunque “fatto” religioso, di per sé “trascendente”, è stato tradotto nella storia sempre e comunque secondo i codici culturali di un’epoca e di un luogo, quindi secondo caratteri meramente “immanenti”, che spesso ne facevano un evento “numinoso” (da “numen”), ossia “sacro”. Laddove quest’ultimo termine, in latino come in greco, come nella maggior parte delle lingue antiche, racchiudeva in sé idee di sublime e nel contempo di mostruoso, di puro ma anche di contaminato, comunque di “tabù” e di intoccabile. Se da un lato ciò è servito alle gerarchie religiose della storia per tenere facilmente imbrigliate le masse, dall’altro ha comportato, per chiunque sia dotato di un minimo di senso critico, grande imbarazzo per la trasformazione di un “concetto assoluto” in una “cosa”, ovvero della trascendenza nella quintessenza dell’immanenza. Anche io sono convinto che da questo derivi la crisi reale della religiosità di questo secolo, la “secolarizzazione” tanto temuta dai pensatori spirituali conservatori, e non tanto dal “relativismo imperante” o dalla degenerazione della condotta umana paventati da Benedetto XVI (persona degnissima, io credo, ma, me ne scuso, completamente disancorata alla realtà in cui è vissuta). Per farla breve: le chiese si sono svuotate, perché il ritrattino preconfezionato di Dio da parte dei preti è apparso (finalmente, aggiungo) veramente improponibile.
Ci hanno sempre venduto il Padreterno come onnipotente e di infinità bontà: due caratteristiche tra loro inconciliabili, e non serve pensare ad Auschwitz o alle catastrofi naturali. Basta vivere la vita di tutti i giorni. A ciò, per dirla con le parole di Congar, si è affiancata una vera e propria “mistica dell’obbedienza”, nella quale credere alla Chiesa significa credere in Dio, e viceversa, in un titanico vortice quasi idolatrico.

Parlando continuamente di Misericordia, quasi come leitmotiv, papa Francesco, nel pieno rispetto della tradizione e senza atti eclatanti, ricorda semplicemente, a cristiani e non, che il fondamento del Cristianesimo non è l’ennesimo Libro ispirato, non è l’ennesima religione, l’ennesimo insieme di riti e rituali. È la vita di un uomo che calcò la sabbia di una delle terre, duemila anni fa come oggi, più vessate del mondo. Dire che il nucleo del Cristianesimo non è un’idea di Dio, ma la storia di un uomo, significa che il centro della fede non può essere il divino, dev’essere necessariamente l’umano. Non è forse la kénosis, la “spoliazione”, il senso ultimo della lettera ai Filippesi? È come dire, traslando, che acquisisce dignità divina chi si spoglia di se stesso, chi si riduce a servo, chi si fa realmente uomo, rinunciando ad ogni forma di potere. La trascendenza, non potendosi realmente “spiegare” attraverso l’immanenza, si rende visibile in essa. “E si compiacque di tenere nascoste queste cose ai sapienti, per rivelarle ai piccoli”.

Eleggere la Misericordia a parametro di giudizio significa conoscere fino in fondo la finitezza umana e renderla parametro unico di misura. In questo modo elemento determinante per la salvezza non diviene il sacro, ma l’umano; elemento centrale di ogni credo religioso non diviene una presunta fede, ma l’etica universale al servizio della Misericordia, ben più importante di ogni singola morale bigotta. Non vi sarà alcun giudizio su quanto correttamente avremo seguito un rito o una regola, su quanto avremo obbedito o meno ad una indicazione morale o religiosa. Probabilmente l’eterno condono sarà solo accompagnato dalla timorosa domanda: hai dato da mangiare? hai dato da bere? hai fornito cura e vestiti? hai accolto lo straniero, vestito il carcerato? In altre parole: ti sei preso cura dell’uomo, anziché pensare a pinnacoli, turiboli e preghiere, anziché omaggiare spazi (il tempio) o tempi sacri (il sabato)? “Dio risplende, nel suo significato più positivo, per la sua assenza” ha detto il teologo Martìn Velasco.

Parlando di Misericordia, Jorge Bergoglio è realmente cattolico, cioè inserito nella pienezza della grande tradizione, ossessivamente ricercata dai farisei dei giorni nostri. Perché non fa altro che usare parole e idee di meister Eckhart, che diceva “Chiedo a Dio che mi liberi di Dio, perché il mio essere essenziale sta sopra a Dio, se consideriamo Dio quale inizio di ogni creatura”. Di san Giovanni della Croce, col suo “Non ti trovavo, Signore, di fuori, perché fuori cercavo male te che stavi dentro”. Di Dietrich Bonhoeffer: “E’ al centro della nostra vita che Dio è aldilà”.

Parlando di Misericordia, il papa torna a dare finalmente voce ai grandi teologi del Novecento, padri diretti o indiretti del Concilio: von Balthasar, Congar, Chenu, De Loubac, Bouillard, Daniélou, Kung, Schillebeecks, e soprattutto Karl Rahner: “Ogni uomo, realmente e radicalmente ogni uomo, va visto come l’evento di un’autocomunicazione di Dio”.

Parlando di Misericordia, fa sì che d’un colpo la Chiesa la smetta di parlare di espiazione e di colpa, di sacrificio e di redenzione, “arrivando a volte fino al mostruoso sproposito di avvalersi di non so quali presunti diritti divini per finire di annulare o mutilare i diritti umani delle persone”.

Solo così la Chiesa diviene realmente “cattolica”. Solo così diviene patrimonio dell’umanità la vita di un uomo che, Dio o non Dio (a seconda di chi crede e chi no), fu la realizzazione di ciò che è profondamente umano, al di là delle culture, delle tradizioni e delle convinzioni religiose dei singoli.

(Michele Meschi – da FB)


Edda CattaniL’umanizzazione di Dio
Leggi Tutto

La battaglia di Francesco

No comments

La battaglia di Francesco

tra potere e misericordia

(sempre attuale)

di Vito Mancuso

in “la Repubblica” del 13 marzo 2015

 

A un amico argentino Bergoglio avrebbe confidato di «non essere sicuro di farcela», intendendo evidentemente rimandare al processo di riforma iniziato due anni fa quando venne eletto e tra la sorpresa generale scelse di chiamarsi Francesco. Allora la mente di molti corse all’affresco di Giotto nella Basilica superiore di Assisi con papa Innocenzo III che vede in sogno un frate che sorregge una chiesa che sta per crollare.
Due anni fa la Chiesa era in quelle condizioni, come certificarono le coraggiose dimissioni di Benedetto XVI: travolta dagli scandali, al minimo della credibilità morale, sempre più priva del favore popolare. E in quel contesto si profilò un nuovo Francesco a sobbarcarsi il compito di sorreggere l’edificio pericolante, questa volta non più semplice frate ma Pontefice massimo. A distanza di due anni, che ne è di quell’intento riformatore?
Oggi assistiamo a un fenomeno paradossale.
Assistiamo alla crescita continua del favore popolare verso papa Francesco e contestualmente alla crescita altrettanto continua dell’opposizione interna verso di lui, particolarmente dura tra i cardinali, la Curia romana e alcuni episcopati.
Il che è la perfetta radiografia dello scollamento di buona parte della gerarchia ecclesiastica rispetto alla vita reale, quello scollamento di cui il cardinal Martini parlava dicendo «la Chiesa è rimasta indietro di 200 anni». Nel primo anno Francesco forse credeva di poter convertire la mente dei prelati mostrando con il suo stile cosa significa essere autorità nella Chiesa. Nel secondo anno però
ha dovuto prendere atto che ci vuole altro, perché mentre lui vive in una settantina di metri quadrati vi sono cardinali che non hanno rinunciato per nulla al lusso e soprattutto ve ne sono molti del tutto contrari a seguirlo nelle riforme. Si spiega così il suo insistere contro i vizi del clericalismo, culminato nella predica alla Curia del 22 dicembre scorso con la denuncia dei quindici mali della burocrazia vaticana, riassumibili in uno solo: l’identificazione con il potere. La battaglia infatti è tra misericordia e potere, tra Chiesa “ospedale di campo” funzionale ai bisogni della gente e Chiesa somma autorità cui la gente deve obbedire, tra Chiesa dei poveri e Chiesa potente tra i potenti.
Nessuno sa come finirà questa battaglia iniziata due anni fa, ma di certo i cardinali e i curiali che si oppongono a Francesco sono l’espressione di ciò che per secoli è stato il papato, sicché riformare la loro mentalità significa riformare il papato come potere assoluto.
Ora però quel potere assoluto è nelle mani di Francesco e se lui volesse potrebbe utilizzarlo proprio per decretarne la riconversione: basterebbe una sua firma infatti per rimandare nelle rispettive parrocchie di origine i prelati che maggiormente si oppongono alla sua azione riformatrice e sceglierne altri più in linea con lo stile evangelico. Perché non agire così, visto che la posta in gioco è enorme?
Essa consiste nel diritto dei battezzati di avere una Chiesa di cui fidarsi, dove i vescovi vengano scelti per effettive qualità e non per giochi di potere e siano sobri come gli apostoli e non opulenti come i magnati, dove la banca vaticana dello Ior sia per lo meno al livello etico di una banca ordinaria, dove non vi sia la sporcizia a suo tempo denunciata da Benedetto XVI, dove gli uomini e le donne di oggi si sentano a casa perché capiti anche nei loro errori e non giudicati da una mentalità freddamente dottrinale, dove gli scandali di pedofilia non siano insabbiati e i colpevoli coperti. La posta in gioco è una Chiesa degna della passione dei numerosi sacerdoti onesti che le hanno dedicato la vita. È per una Chiesa di questo tipo che lavora papa Francesco insistendo sul primato della coscienza, l’apertura alla modernità, la consultazione dei fedeli sui temi della morale,
il riaccredito della teologia della liberazione, la preferenza verso i poveri, un linguaggio in grado di arrivare a tutti. Bergoglio sa che il primo passo della Chiesa è tornare a credere al Vangelo anzitutto ai suoi vertici, sa cioè che l’evangelizzazione riguarda la gerarchia ecclesiastica, ben prima del mondo.
Oltre all’enorme favore popolare, papa Francesco in questi due anni ha conseguito altre notevoli acquisizioni. Penso al processo sinodale che culminerà nel prossimo ottobre con la seconda puntata del Sinodo sulla famiglia, l’aver scongiurato l’intervento militare occidentale in Siria e l’aver favorito la storica riconciliazione tra Cuba e Usa, i passi di avvicinamento alla Cina, l’essere diventato un faro per il Sud del mondo e per i poveri.
Ma come ho detto all’inizio, sembra che egli abbia confidato a un amico di non essere sicuro di farcela a causa della crescente opposizione interna. Occorre quindi chiedersi cosa succederebbe se Francesco fallisse. Io penso che per il cattolicesimo sarebbe un colpo terribile, perché le enormi speranze che questo Papa sta suscitando si rivolgerebbero in un’altrettanto enorme delusione e il contraccolpo sulla credibilità della Chiesa potrebbe essere devastante, se non letale. Non morirebbe la spiritualità, che è radicata da sempre nel cuore umano, ben prima della nascita del cristianesimo.
Non morirebbe neppure il cristianesimo, che troverebbe altre forme per esprimersi, come ha fatto in altri luoghi del mondo. Si avvierebbe invece irreversibilmente alla morte la Chiesa cattolica gerarchica così come la conosciamo, perché nessuno potrà e vorrà avere più fiducia in una struttura dimostratasi restia a seguire un cristiano sincero e un uomo buono come Jorge Mario Bergoglio. Il fallimento del Papa venuto dalla fine del mondo segnerebbe la fine della Chiesa gerarchica e istituzionale. Non so se è questo che vogliono i numerosi cardinali, vescovi e curiali che gli si oppongono, ma penso sia bene che lo sappiano.

Edda CattaniLa battaglia di Francesco
Leggi Tutto

Eternità

No comments

Eternità

(Luca 20,27-38)
Per i nostri Cari che sono entrati nella Gerusalemme Celeste

(Alessandro Dehò) 

20121012-aereo-in-partenza

Una bellissima storia di sterilità. Satira pungente quella dei sadducei: una moglie che accompagna alla morte sette mariti senza lasciare figli. Una donna che muore, alla fine, sterile. Storia geniale che diventa occasione per deridere l’idea di una vita futura ed eterna, quella che Gesù stava cercando di narrare: con quale marito risorgerà la moglie? Satira. Ma quando la satira è pungente svela la verità. E vanno ringraziati i sadducei che, inconsapevolmente, svelano la sterilità che abita ognuno di noi. La sterilità dei nostri tentativi di opporci alla morte imponendo discendenze: ma mettiamo al mondo sempre e solo vite a termine, storie che iniziano a morire nel momento stesso in cui emettono il primo vagito, l’eternità non passa dall’imposizione della discendenza, alla fine possiamo tramandare solo un nome, ma cosa è un nome se non l’involucro vuoto di una storia che non sopravvivrà nemmeno alla memoria?

L’eternità non passa dalla discendenza imposta nemmeno se nascessero figli, l’eternità passa invece da una sterilità custodita e ad accolta. La sterilità di chi vive la vita come Segno, come rimando a una pienezza che sarà. La sterilità di chi sente di non possederla fino in fondo la vita, di chi vive il tempo come un dono e accoglie ogni respiro con gratitudine. Sterilità di chi vive la precarietà del viandante, cammino lieve, soffio sapienziale. Essere un segno, dell’Infinito, ma sempre e solo un segno. Perché tutta la realtà non è altro che un Segno dell’Eterno. Quando amiamo e siamo amati sussurra in noi l’Eterno: la nascita di un bambino, un gesto di perdono, una lacrima, la ruga di un vecchio, l’ultimo respiro, ogni nostalgia, la bellezza della poesia: tutto l’Amore è Segno dell’Eternità. Quando i nostri gesti non narrano l’Eterno Amore siamo già morti, qui, adesso, è già inferno.

Gesù ci chiede di liberarci dall’ossessione di imporci sulla vita, dalla pretesa di lasciare il segno del nostro passaggio per imparare a diventare noi segno dell’Amore, segno dell’Eterno che chiede di raccontarsi in noi, segno del Suo Passaggio: Pasqua. Vivere precari e leggeri facendo esperienza dell’Amore che qui e ora parla già la grammatica dell’Eterno, la resurrezione si impara amando. Entrare nella logica del segno, fragile eppure così luminoso, ci permette di non pretendere più nulla, passare dalla pretesa, che è atteggiamento violento di chi prende (“prendono moglie e prendono marito”), alla logica dell’accoglienza (“…degni della vita futura e della resurrezione non prendono né moglie né marito”). Accoglienza delle mie e altrui debolezze, siamo solo segno dell’amore non siamo l’Amore. Ma anche accoglienza senza pretesa della realtà: la mia famiglia, la mia comunità, la mia chiesa… non può essere perfetta. Chiedere alla storia di essere segno di Altro, che non si appiattisca sul presente, che mi regali, anche solo per brevi spazi, il Suo volto, il resto è imperfezione da accogliere con misericordia.

Vivere precari e leggeri, sapendo che siamo solo segni imperfetti dell’Amore, ci permette anche di riconciliarci con i nostri padri. Con chi ci ha consegnato al mondo. Non sono stati perfetti, non potevano, fortunatamente. La storia dei sadducei ci aiuta a deporre la pretesa di essere accuditi, custoditi, accompagnati. Deporre la pretesa. Se accade, quando accade, è grato stupore. Mi pare sia la mancanza di prospettiva eterna a renderci così spietati con la storia passata. Uno dei momenti che preferisco quando celebriamo i battesimi in comunità è quando i padri salgono all’altare ad accendere la candela battesimale al cero pasquale. Sono impacciati e intimoriti, a volte non riescono ad accendere la candela, spesso si spegne appena dopo. Sono belli nella loro fragilità questi giovani padri, belli quando rallentano per non far spegnere una luce che non possiedono, belli quando proteggono quella fiamma con delicatezza non abituale. Solo quando sapremo guardare con tenerezza i nostri padri diventeremo a nostra volta goffi e bellissimi segni dell’unico Padre.

Bella la storia dei sadducei ma anche terribilmente triste perché non è altro che la narrazione di una diabolica ripetitività di gesti sempre uguali: prendono moglie e non hanno figli, per sette volte, pienezza dell’assenza. Poi arriva la morte, ed è una fortuna, un respiro di sollievo. Finisce questa farsa. Terribile la storia dei sadducei proprio per questa sua ripetitività ossessiva. Ecco perché Gesù inserisce un elemento di novità: “non possono più morire perché sono uguali agli angeli”. E a me vengono in mente i biblici angeli che hanno incontrato Abramo all’ingresso della tenda, niente ali ma piedi impolverati e occhi profondi da tuareg, occhi che hanno visto Dio. Gesù inserisce, per comprendere la bellezza di questa vita, l’elemento della “trasformazione”, diventeremo come angeli, tuareg con negli occhi la luce di Dio.

“Non possono più morire” perché la morte è già avvenuta, avviene sempre, il seme per dare frutto ha accettato di trasformarsi. La vita che viviamo, proprio perché segno, vive nell’attesa di fiorire a vita eterna. La vita è un lungo e lento cammino di trasformazione: “ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore, e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco […]. Si semina corruttibile e risorge incorruttibile” (1 Cor). Vivere sotto il segno della trasformazione è elemento fondamentale per capire il meccanismo segreto della vita. Siamo in trasformazione, siamo seme che forza le pareti in attesa di mettere radici, cambiamo continuamente e questo cambiamento è elemento necessario per non morire. Il seme è pura speranza, non sa bene come diventerà, come sarà, è solo un elemento di promessa che si affida al tempo. Ma il seme sa bene che se non cambia rimane definitivamente vuoto. Il seme ha solo un compito: continuare a trasformarsi, non impedire il processo di cambiamento. Cambiare significa far morire la parte vecchia per restare fedeli alla promessa. È uno sporgersi con fede sul futuro, fa paura, perché ci si abitua a ciò che si è. Riesce a cambiare solo chi è attratto da una forte Speranza.

Eternità è questa forza che ci chiama a cambiare trovando di giorno in giorno le forme più idonee per essere fedeli all’amore. L’amore di due fidanzati è chiamato a trasformarsi per reggere gli urti della vita, ma che bello se quell’amore muore e risorge continuamente e prende casa negli occhi e nelle rughe della vecchiaia. Ma anche, che segno potente trovare ancora amore negli occhi di chi ha vissuto delusioni o legami andati in frantumi: la persistenza dell’amore che si trasforma in dialogo con gli eventi della vita.

Accogliere il bisogno della trasformazione ci permette di sentire chi siamo noi veramente, non figli dell’eterna ripetizione sempre uguale ma uomini in costante processo di morte e resurrezione, trasformazione che ci porta a risorgere continuamente qui, di segno in segno, fino a quando metteremo gli occhi negli occhi di Dio. Di quel Dio a cui apparteniamo. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Il Dio è il Dio di ognuno di noi. Passare dall’imposizione del nostro desiderio di onnipotenza all’umile e grata scoperta di appartenere al Dio della vita che ci chiama continuamente dall’Eternità.

Edda CattaniEternità
Leggi Tutto

Intimamente presuntuosi

No comments

Intimamente presuntuosi

Parabola che non funziona Trentesima domenica Tempo Ordinario C

(Alessandro Dehò)

Dehò

Non serve a nulla. Questa parabola dico, non serve a nulla. È la prima reazione onesta che possiamo avere alla lettura del testo. I due protagonisti sono così grezzi e così monolitici da non essere credibili. Sono caricature, parodie del paradigma del santo, caricature dell’immaginario del peccatore, sono personaggi e non persone, sono maschere. Il primo è perfetto, così perfetto nella sua ricerca di religiosità senza sbavature che esagera e risulta essere non credibile. Anche il peccatore esagera, anche nella conversione, non ci sono sfumature. Sono due ruoli interpretati alla perfezione. E infatti la parabola non funziona, la trappola non scatta. Non riusciamo a identificarci in nessuno dei due personaggi e se non ti identifichi non puoi rimanere impigliato nella logica delle parabole e quindi, semplicemente, la parabola non funziona.

Non c’è stupore, risulta essere solo un racconto edificante. Puoi essere il più santo del mondo ma se odi gli altri e sei presuntuoso sei il peggiore di tutti. Puoi essere il peccatore incallito ma se ti penti puoi diventare meglio di un santo. Tutto qui? Possiamo tentare di interpretare i gesti dei due personaggi, possiamo giocare con le parole, possiamo fare tutto quello che vogliamo ma la morale rimane questa e non ci sconvolge più di tanto, lo sapevamo già. Vien voglia di girare pagina e continuare la lettura. A meno che.

A meno che si carichi di maggior significato l’introduzione alla parabola che specifica essere raccontata per “alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”. E qui non è ancora parabola, è dichiarazione di intenti. Il Vangelo non dice di andare ad indagare i due personaggi della parabola, che infatti non presentano alcun tipo di complessità interiore, dice invece di interrogarsi su se stessi e sulle intime presunzioni di giudizio. Insomma, sul nostro modo di leggere il mondo. Non è il fariseo ad essere intimamente presuntuoso, e nemmeno il peccatore che spera di estorcere il perdono, sono io che leggo il presuntuoso. E infatti mi pare che in questo caso la trappola sia già scattata, ed è scattata ancora prima dell’inizio della parabola stessa, il suo suono è stato secco e deciso: “sei sicuro di saper interpretare quello che vedi? Come lo interpreti? Come credi che Dio osservi queste due tipologie di uomini?”. Ecco la trappola, Gesù non sta raccontando una parabola, Gesù mi sta interrogando, mi affida un compito, un esercizio per misurare la mia attitudine all’umiltà. “Chi si umilia sarà esaltato”. Colpito! Non resta che provare a smascherare il nostro sguardo.

I due uomini salgono a pregare, il primo è un fariseo ipocrita, chiuso in se stesso, non vede altro che il suo tentativo di perfezionismo, e disprezza pure gli altri. Non serviva Gesù a dirci che questo non è esempio da seguire, e fin qui ci siamo, infatti il compito è altro: provare a cercare di scendere con sguardo intimamente umile, prendendo ad esempio lo sguardo del Padre che tende alla giustificazione e non alla condanna “(il pubblicano) tornò a casa sua giustificato”. Umiltà e desiderio di giustificazione. E mentre mi chiedo se sia esercizio legittimo ecco che ripenso a un’altra pagina di Luca, penso a due fratelli, a due modi di vivere il mondo e ad un padre misericordioso che umilmente giustifica. Mi torna un po’ di coraggio, forse la strada è percorribile. Esercizio diventa: “guarda con profonda umiltà i due uomini del vangelo, immagina di essere il Padre misericordioso”.

E al primo allora chiederei: “ma tu sei felice?”. Solo questo. Non essere ladro, ingiusto e adultero, digiunare e pagare le decime più del dovuto ti rende felice? Continua così. Cosa ti importa degli altri, cosa ti importa se hai fratelli che vivono in modo diverso da te? Non ti chiedo di essere per loro un esempio, non ti chiedo di convertirli, non ti chiedo nulla se non: tu sei felice nel tuo modo di vivere? “Ciò che è mio è tuo”, smetti di essere in gara con gli altri. Esercizio per me, che credo di essere intimamente giusto, è quello di non condannare questo fariseo e invece di provare ad accudire questa grandissima insicurezza, provare a guardarlo come una vittima del catechismo moralistico che ogni religione impone. L’esercizio è mio: provare a chiedermi se intimamente sento compassione per quest’uomo che non riesce a liberarsi dal confronto e dal dubbio atroce che Dio sia un padrone esigente. L’esercizio è mio, provare, davanti ai farisei di ogni tempo, davanti ai tanti tradizionalisti che fanno perdere la pazienza, davanti a chi prega e ragiona e vive la fede in un modo diverso dal mio, davanti a chi non mi capisce e mi accusa… davanti ai loro volti riesco ad essere umile? Questa è la posta in gioco. Riesco a vedere in chi mi sembra così lontano dalla verità (ma chi sono io per deciderlo?) un fratello con le mie stesse paure? Riesco a essere seriamente interessato alla sua felicità? Riesco a giustificare il più possibile gli atteggiamenti di paura e di chiusura? Giustificare non significa banalizzare, non significa che è tutto uguale, non è il primo gradino verso il relativismo ma è l’assunzione di uno sguardo paterno, il tentativo di intuire le ragioni, interrogare le fragilità, accompagnare alla maturità. E piangere per questo fariseo che probabilmente non riesce a vivere con la dovuta saggia leggerezza.

E così per il peccatore, guardarlo con umiltà. Guardarlo come si guarda un figlio. Evitare di usarlo come si usano gli esempi, non trasformarlo in “caso esemplare”, non trattarlo da convertito. Non esaltarlo in nome della sua scelta. Ma amarlo sinceramente e provare ad andargli incontro, provare a riempire con la compassione quella distanza che lui ha posto tra sé e il divino, tra sé e sé. Provare a correre incontro, come farebbe il padre misericordioso, provare ad abbracciare e a sollevargli lo sguardo.

Questa parabola non funziona, e si capisce il perché, manca un personaggio fondamentale, è come la parabola del figlio maggiore e del figlio minore ma senza il padre. In questa parabola manca colui che sorprende tutti, manca lo sguardo umile che esalta, manca chi si umilia per esaltare l’umanità altrui. Manca la sorpresa perché manca lo sguardo divino. Questa parabola è inutile fino a quando non comprendiamo che è un appello rivolto al lettore: diventa tu il terzo, fai irruzione nella parabola, fai funzionare la parabola, diventa tu lo sguardo che sorprende!

Edda CattaniIntimamente presuntuosi
Leggi Tutto