Evangelizzazione e Analisi

La preghiera dei Precari

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La preghiera dei Precari

 

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(Luca 18,8-1)
XXIX domenica del Tempo Ordinario C

“Dove, Signore?”. Dove la vedi questa vita? 
Dove la vedi questa quotidianità da abitare evangelicamente? 
Ma, soprattutto, dove lo vedi questo Dio di cui parli 
e che noi non riusciamo a sentire?
Gesù raccoglie quella domanda “Dove?” 
e risponde che il luogo dell’incontro con il Signore è il quotidiano, 
è il tempo vissuto come preghiera.
E quando parla di “pregare sempre” 
non sta consigliando di “recitare” formule, 
la vita non si recita, la vita si interpreta: 
preghiera secondo Gesù è interpretare la vita secondo verità (A. Dehò).

…si interpreta…la preghiera come verità… ” Pregare è sentire la precarietà della solitudine (vedova) che grida il suo bisogno di Amore. Non stancatevi mai di gridare a Dio il vostro urgente e quotidiano bisogno di essere amati e custoditi.” Solo il Suo Amore può dare risposte di Verità.

Per la riflessione di questa domenica, il cui tema è la preghiera, una semplice ma intensa poesia

di David Maria Turoldo:

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” ma questo è un tempo senza preghiera,
Onu, tempo di solitudine
Onu tempo d’infinite paure.
Voi non sapete cosa avete perduto:
Il dono più grande è pregare,
Saper pregare.
“parlare” con lui, o tacere,
Tariffa silenzio
E capire.
Immersi tutti nel suo oceano,
E tornare poi grondanti di luce.
Preghiera, tempo di contemplazione,
Tempo del giusto sulle cose, workers
E sentire la luce posarsi sulle mani…
Tariffa silenzio, senza franare nel vuoto,
mettersi in ascolto,
Sentire lui che parla nel silenzio.
Per questo nessuno ascolta nessuno:
L ” aria, il cielo, gli spazi
Sono una foresta assolo di rumori.
L’ anima è puro, frastuono
Ho cervelli sono tamburi:
Nostra civiltà del vuoto e del fracasso.
Questo è tempo senza silenzio,
Tempo senza preghiera,
Senza gioia e speranza.
Domeniche senza festa,
Anche nelle chiese è difficile pregare,
Anche le chiese, a volte, sono grancasse.
Ma Dio non è nel rumore,
È nel tuono, nel turbine,
Mai nel rumore.
Dio è solo, e tu sei solo:
Cristo, vero orante dentro
L’ infinito silenzio dei tabernacoli.
(David. Maria Turoldo)

 

Edda CattaniLa preghiera dei Precari
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Papa Francesco ratifica Lutero

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Già in comunione con i fratelli ortodossi da un anno, nel 500° Anniversario

 

Papa Francesco ratifica la protesta di Lutero

e la promuove in festa cattolica:

“Grati per i doni ricevuti attraverso la Riforma”.

Pope Francis (L) with Rev. Martin Junge, General Secretary of LWF, inside of Lund Cathedral, Sweden, 31 October 2016. Pope Francis is visiting Malmo and Lund to participate in an ecumenical service and the beginning of a year of activities to mark the joint Lutheran-Catholic commemoration of the 500th anniversary of the Reformation. ANSA / OSSERVATORE ROMANO +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

A mezzo millennio da Martin Lutero e a mezzo secolo da Ingmar Bergman, la cattedrale di Lund è ancora una volta il “posto delle fragole”. Dove l’asprezza dei ricordi evolve, si converte in dolcezza dei gesti. E dove un dialogo acerbo matura e sperimenta il sapore del Verbo:

“Con gratitudine riconosciamo che la Riforma ha contribuito a dare maggiore centralità alla Sacra Scrittura nella vita della Chiesa…Chiediamo al Signore che la sua Parola ci mantenga uniti.”

Come nel film del regista svedese, le mura millenarie, con il loro magnetismo, catturano la scena di una metamorfosi. Una catarsi che solo il tempo sa operare nei protagonisti, aggiustando l’inquadratura e illuminando la zona d’ombra. Sicché la primavera giunge d’autunno, anche a una latitudine già invernale. Occasione da non perdere per Bergoglio, papa cinefilo, amante dei maestri degli anni ’50:

“Con questo nuovo sguardo al passato non pretendiamo di realizzare una inattuabile correzione di quanto è accaduto, ma raccontare questa storia in modo diverso”, ha spiegato all’arrivo, dopo l’appello rivolto in volo ai giornalisti: “Aiutateci a far capire”.

Così, con un anno di anticipo sul quinto centenario, Francesco ha trasformato la “protesta” di Lutero in festa cattolica, nonché canonica. O poco ci è mancato. E ha inaugurato le danze, schiodando le tesi del monaco ribelle dai battenti di Wittenberg, dove furono affisse nel 1517, per iscriverle d’ufficio sulla porta del Giubileo e registrarle nel libro dei romani pontefici: “…profondamente grati per i doni spirituali e teologici ricevuti attraverso la Riforma”, recita la dichiarazione comune, sottoscritta con il palestinese Munib Yunan, presidente della Federazione Luterana Mondiale.

Gli storici lo chiameranno ecumenismo del tango: un transfert dalle atmosfere creole a quelle scandinave, un allungo dal Baltico al Rio de la Plata. Rinunciando ai giri di valzer dei teologi, che la prendono alla larga, e avanzando barre a dritta in uno spazio stretto, come nelle milonghe di Buenos Aires. Buttandosi avanti e sapendo di non poter tornare indietro, in ossequio alle regole del ballo: “…abbiamo una nuova opportunità… Non possiamo rassegnarci alla divisione e alla distanza che la separazione ha prodotto tra noi”.

Con il suo paso doble, Bergoglio si spinge verso traguardi che a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI sarebbero preclusi, scontando il peccato originale di un pregiudizio etnico – geografico: degli ortodossi russi all’indirizzo del papa polacco e dei protestanti tedeschi nei confronti del pontefice bavarese. Due derby, uno tra slavi e l’altro fra teutonici, nei quali le difese hanno avuto buon gioco in interdizione, stoppando le geometrie di Ratzinger, l’austero, e le acrobazie di Wojtyla, il condottiero. Ma non le fantasie palla a terra di Francesco, il manovriero. Realista e concreto quanto basta per puntare al risultato e portarlo a casa, prima del novantesimo, che stavolta coincide con la duplice chiusura, il 20 novembre, di Anno Santo e anno liturgico, nella domenica di Cristo Re: giorno in cui stilerà bilanci e tirerà somme.

Disposto a scoprirsi, a cedere terreno e a prendere gol persino, ma determinato, infine, a metterne a segno uno in più: come in febbraio a Cuba, quando pur d’incontrare Kirill, il patriarca russo, ha siglato con lui una sorta di “Yalta religiosa”. Un accordo di desistenza che impegna le due chiese a non arruolare proseliti e a non evangelizzare, de facto, nelle altrui zone di influenza, dove Giovanni Paolo II aveva posizionato, a presidio, i propri vescovi, con la consegna di marcare a uomo. E come oggi a Lund, quando non si è limitato a riabilitare Lutero, ma lo ha celebrato e addirittura è sembrato che stesse per annoverarlo tra i beati, con tempismo perfetto e significativo, nella vigilia della solennità di Ognissanti. Un passo che Benedetto XVI non avrebbe mai compiuto, vedendo nella riforma protestante, notoriamente, il primo ciak e l’incipit della deriva relativista del pensiero moderno.

Valutazioni che Bergoglio condivide sul piano scientifico, come dimostrano i suoi scritti argentini, ma che sbiadiscono e svaniscono in un quadro geopolitico, da quando è asceso al soglio petrino. Paradosso in virtù del quale il primo Papa della Compagnia di Gesù, nata segnatamente allo scopo di contrastare il protestantesimo, trova nel nemico di sempre un alleato, impensato più che insperato.

Come nei film dei supereroi, quando i protagonisti depongono antiche, anacronistiche rivalità per fronteggiare un gigante tecnologico, partorito dalla scienza e intenzionato a scalzare la loro primazia, elevando il relativismo a dogma di fede. Oppure, ipotesi ancora più terrificante, un Jurassic World delle religioni, dove i vecchi dinosauri del cattolicesimo, del luteranesimo e dell’ortodossia smettono di combattersi a vicenda per scongiurare una temibile mutazione genetica: una nuova specie aggressiva, uscita dal crogiuolo della storia e in grado di travolgerle, anzi di stravolgerle, deformandone mission e vision.

Oggi, esattamente come cinquecento anni fa, l’Europa è infatti teatro dello scontro tra due cristianesimi. Con una differenza di fondo, però, che attiene al DNA, poiché la disputa, questa volta, non verte sul conflitto tra coscienza e autorità, quanto piuttosto tra uguaglianza e identità.

Da un lato un cristianesimo identitario: che dopo essere stato liberato dai muri ne costruisce di nuovi, alzando il vessillo e vestendo la corazza di una fede anabolizzata e gonfia di proclami, fuori, ma sterilizzata e vuota di linfa evangelica, dentro. Dall’altro il cristianesimo egalitario, che riconosce in Bergoglio la sua bandiera e lo segue tra l’esultanza dei fedeli e la riluttanza dei governi, preoccupati di dover pagare un prezzo politico.

Una tenzone che non risparmia, in prospettiva, neppure le rive della Svezia felix, dove il partito xenofobo lambisce il 15 per cento. Fenomeno che ha indotto socialisti e moderati a correre ai ripari, congelando il patto di unità nazionale fino al 2022: una scadenza inconcepibile al sole del Mediterraneo, dove le maggioranze si sciolgono in un baleno.

“Esortiamo luterani e cattolici a lavorare insieme per accogliere chi è straniero e a difendere i diritti dei rifugiati e di quanti cercano asilo”. Profughi e i migranti, agli occhi del Pontefice, compongono dunque il banco di prova e la frontiera, mobile, del movimento ecumenico, dove si attesta il cammino comune e si testano i cromosomi, la fisionomia delle chiese cristiane.

“Come posso avere un Dio misericordioso?”. La misericordia divina, tormento di Lutero, che in sede speculativa divise in due la cristianità del secondo millennio, diviene, alle soglie del terzo, strumento di rinnovata unità operativa: “Senza questo servizio al mondo e nel mondo, la fede cristiana è incompleta”.

Sul set bergmaniano del posto delle fragole, Bergoglio raccoglie i frutti del lavoro avviato cinquant’anni orsono e chiude, al tempo stesso, un ciclo produttivo, trasferendo la pianta dell’ecumenismo dalla serra protetta della teologia, dove tutto appare chiaro e incontaminato, alla selva oscura del mondo globalizzato. In un groviglio a crescita continua che rende arduo discernere il grano dalla zizzania.

Nelle latitudini del grande Nord, il Papa del profondo Sud, in definitiva, è venuto a cercare d’autunno la primavera. E a invertire le stagioni della storia. Consapevole, in un’ottica gesuitica e cinematografica, “che il passato non si può cambiare, ma che la memoria, e il modo di fare memoria, possono essere trasformati”.

Piero Schiavazzi     31/10/2016

 

Edda CattaniPapa Francesco ratifica Lutero
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Liberi da dipendenze

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LIBERI DA DIPENDENZE

La parola libertà può essere intesa in tanti modi, anche tu puoi raccontare le tue interpretazioni. A volte credi di essere libero, invece la mente inconscia può condurti verso condizionamenti che non sai di avere. Nota le due preposizioni: libero da... ciò che danneggia, libero per… ciò che favorisce la soddisfazione di vivere.
Libertà è capacità di scegliere davanti a ragioni, motivi. Libertà senza responsabilità diventa capriccio, anarchia, dipendenza, schiavitù. Libertà e responsabilità camminano insieme: la strada obbliga ma libera; “l’acqua del fiume si lamenta, ma senza sponde diventa palude”. Libertà è una conquista continua e coraggiosa; puoi essere libero da: gelosia e invidia, rabbia e risentimento, attaccamento e avversione, da insidiose dipendenze: cibo, stupefacenti, sesso, gioco, shopping, televisione, internet, videogame… Puoi coltivare fitness del corpo, wellness delle emozioni, ma ciò che dà la vera libertà viene dall’atteggiamento interiore.
Commenta questa testimonianza: “La vita piatta e monotona, lo sbadiglio, il vuoto esistenziale mi fanno paura… preferisco il brivido, lo sballo, la droga, la velocità, preferisco dire: – Mondo fermati, io scendo – Piuttosto che vegetare nella noia… è una brutta bestia che mi fa paura e mi divora dentro. Sono passato dall’alcol alla coca. Lo sballo è il mio rifugio. Non mi sono accorto di cominciare, pensavo: – Sono furbo, non ci casco io! – In comunità mi hanno motivato a smettere… E’ facile smettere la prima volta, ma quando ricadi si annebbia la speranza. Ho vissuto sette anni di allucinazioni, i familiari riversavano rabbia su di me…” (T.P.)
Nell’archivio della mente puoi custodire questi accordi liberanti:

1.    Sii nobile nel parlare. L’energia delle parole conduce a emozioni e azioni corrispondenti. Le parole belle fanno le persone belle!

2.    Non lasciarti ferire da parole spiacevoli. Abbraccia la rabbia perché non ti faccia male; spegni il fuoco del risentimento, è meglio vivere in pace che voler avere ragione.

3.    Interpreta persone ed eventi con benevolenza, come prima scelta apprezza ciò che c’è e metti armonia in ciò che vivi.

4.    Dona rispetto e affetto con lo sguardo e i gesti del corpo. La gente dà indietro i tuoi occhi. Se vuoi cambiare il mondo cambia te. Il mondo nuovo comincia da te.

I mistici antichi della Persia (Sufi) offrono questo augurio:

Sii generoso come il sole e vitale come l’aria. Sii disponibile come l’acqua.
Sii paziente come la terra. Sii spazioso come il cielo.

Copri i difetti degli altri come la notte.

Nella rabbia sii come morto. Mostrati come sei, sii come ti mostri.

 

 

(da Scuola del Villaggio)

Edda CattaniLiberi da dipendenze
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Quale idea di famiglia

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Quale idea di famiglia

In questi tempi, già difficili per tutta l’umanità per guerre, crisi economica e dissensi religiosi e politici, propongo alcune riflessioni.

Papa Francesco in “La famiglia genera il mondo” afferma: I bambini sono in se stessi una ricchezza per l’umanità e anche per la Chiesa, perché ci richiamano costantemente alla condizione necessaria per entrare nel Regno di Dio: quella di non considerarci autosufficienti, ma bisognosi di aiuto, di amore, di perdono.”

La famiglia è al centro della predicazione del Santo Padre, specialmente nel periodo che intercorre tra i due Sinodi sulla famiglia, quello dell’ottobre 2014 e quello dell’ottobre 2015. In questo arco di tempo il papa ha rivolto alle famiglie una serie di catechesi ispirate all’icona della Famiglia di Nazareth: un vero e proprio itinerario pastorale attraverso i temi degli affetti, dei tempi della vita e dei ritmi del lavoro e della festa, fino alla vocazione sociale e ecclesiale degli sposi. Bergoglio affronta anche questioni di grande attualità come il divorzio e la separazione, la genitorialità, le sfide che investono oggi la società. Il tono degli interventi è appassionato e concreto: Francesco parla a delle famiglie reali, che ha davanti agli occhi mentre si rivolge a loro. E’ questo un messaggio di speranza e di impegno, una ”prospettiva entusiasmante”, come l’ha definita mons.Vincenzo Paglia, Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia.

“Ogni persona, indipendentemente dalla propria tendenza sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con sensibilità e delicatezza, sia nella Chiesa che nella società”. È quanto si ribadisce nell’Instrumentum Laboris del Sinodo sulla famiglia, convocato da Papa Francesco dal 4 al 25 ottobre in Vaticano.

Il testo recepisce inoltre quanto approvato a maggioranza semplice, e dunque formalmente non approvato, alla scorsa assemblea straordinaria, sul tema delle famiglie che vivono l’esperienza di avere al loro interno persone con orientamento omosessuale. “Al riguardo – si legge – ci si è interrogati su quale attenzione pastorale sia opportuna di fronte a questa situazione riferendosi a quanto insegna la Chiesa: “Non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia”. Nondimeno, gli uomini e le donne con tendenze omosessuali devono essere accolti con rispetto e delicatezza. “A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione”. Inoltre viene ribadito che “è del tutto inaccettabile che i Pastori della Chiesa subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso”.

Per i credenti o appartenenti alla comunità cattolica, sono questi temi decisivi di accoglienza e condivisione. Facciamolo noi tutti con il dovuto rispetto!

 

 

 

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“Si è fatto sempre così”

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Papa Francesco \ Messa a Santa Marta

Idolatri e ribelli i cristiani fermi al

“si è fatto sempre così”

 

Papa

I cristiani fermi al “si è fatto sempre così” hanno un cuore chiuso alle sorprese dello Spirito Santo e non arriveranno mai alla pienezza della verità perché sono idolatri e ribelli: è quanto ha detto il Papa nella Messa del mattino a Casa Santa Marta.

Aprire il cuore alla novità dello Spirito Santo
Nella prima lettura Saul viene rigettato da Dio come re d’Israele perché preferisce ascoltare il popolo più che la volontà del Signore e disobbedisce. Il popolo, dopo una vittoria in battaglia, voleva compiere un sacrificio a Dio con i migliori capi di bestiame perché, dice, “sempre si è fatto così”. Ma Dio, stavolta, non voleva. Il profeta Samuele rimprovera Saul: “Il Signore gradisce, forse, gli olocausti e i sacrifici quanto l’obbedienza alla voce del Signore?”. “Lo stesso – osserva Papa Francesco – ci insegna Gesù nel Vangelo”: i dottori della legge gli rimproverano che i suoi discepoli non digiunano come finora si era sempre fatto. E Gesù risponde “con questo principio di vita”: “Nessuno cuce un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, altrimenti il rattoppo nuovo porta via qualcosa alla stoffa vecchia e lo strappo diventa peggiore; e nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono vino e otri. Ma vino nuovo in otri nuovi!”.

“Cosa significa questo? Che cambia la legge? No! Che la legge è al servizio dell’uomo che è al servizio di Dio e per questo l’uomo deve avere il cuore aperto. Il ‘sempre è stato fatto così’ è cuore chiuso e Gesù ci ha detto: ‘Vi invierò lo Spirito Santo e Lui vi condurrà fino alla piena verità’. Se tu hai il cuore chiuso alla novità dello Spirito, mai arriverai alla piena verità! E la tua vita cristiana sarà una vita metà e metà, una vita rattoppata, rammendata di cose nuove, ma su una struttura che non è aperta alla voce del Signore.  Un cuore chiuso, perché non sei capace di cambiare gli otri”.

Cristiani ostinati e ribelli
“Questo – sottolinea il Papa – è stato il peccato del re Saul, per il quale è stato rigettato. E’ il peccato di tanti cristiani che si aggrappano a quello che sempre è stato fatto e non lasciano cambiare gli otri. E finiscono con una vita a metà, rattoppata, rammendata, senza senso”. Il peccato “è un cuore chiuso” che “non ascolta la voce del Signore, che non è aperto alla novità del Signore, allo Spirito che sempre ci sorprende”. La ribellione – dice Samuele – è “peccato di divinazione” l’ostinazione è idolatria:

“I cristiani ostinati nel ‘sempre è stato fatto così’, ‘questo è il cammino, questa è la strada’, peccano: peccano di divinazione. E’ come se andassero dalla indovina: ‘E’ più importante quello che è stato detto e che non cambia; quello che sento io – da me e dal mio cuore chiuso – che la Parola del Signore’. E’ anche peccato di idolatria l’ostinazione: il cristiano che si ostina, pecca! Pecca di idolatria. ‘E qual è la strada, Padre?’: aprire il cuore allo Spirito Santo, discernere qual è la volontà di Dio”.

Abitudini che devono rinnovarsi
“Era abitudine al tempo di Gesù – afferma ancora il Papa – che i bravi israeliti digiunassero. Ma c’è un’altra realtà: c’è lo Spirito Santo che ci conduce alla verità piena. E per questo Lui ha bisogno di cuori aperti, di cuori che non siano ostinati nel peccato di idolatria di se stessi, perché è più importante quello che io penso che quella sorpresa dello Spirito Santo”:

“Questo è il messaggio che oggi ci dà la Chiesa. Questo è quello che Gesù dice tanto forte: ‘Vino nuovo in otri nuovi’. Alle novità dello Spirito, alle sorprese di Dio anche le abitudini devono rinnovarsi. Che il Signore ci dia la grazia di un cuore aperto, di un cuore aperto alla voce dello Spirito, che sappia discernere quello che non deve cambiare più, perché fondamento, da quello che deve cambiare per poter ricevere la novità dello Spirito Santo”.

Il servizio di Sergio Centofanti: da Radio Vaticana

 

Edda Cattani“Si è fatto sempre così”
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Verso di me

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Verso di me

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(Giovanni 1,29-34)
II Tempo Ordinario 

Alessandro Dehò

E poi Giovanni lo vede arrivare e il mondo attorno è come se cessasse di essere. Solo lui e quel Dio che cammina al contrario, solo il Battista e questo Messia che fa quasi paura. Perché sta camminando verso l’uomo? Perché non si ferma? Perché è proprio verso di me che sta camminando? Perché l’ho aspettato da una vita e ora vorrei fermarlo? Giovanni parla di Gesù e noi sentiamo, con lui, la densità delle domande contenute in quel pugno di parole: “Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui”. Quel cammino è disarmante, segno di una storia che, se la lasci arrivare, poi è difficile fermare. Quello che aveva preparato il Battista era lo spazio, il vuoto: il battesimo e il suo profetico vivere avevano liberato la scena da idoli, da feticci, da indebite attese, da immagini infantili di Dio ma adesso. Adesso la scena veniva presa da questo Gesù e non se,brava esserci nulla in grado di fermarlo e il timore saliva perchè il Battista capiva che quello che stava succedendo era definitivo.

Anche noi vorremmo scappare quando ci accorgiamo di essere davanti a una scena così. Succede quando riusciamo a renderci disponibili alla vita, quando levighiamo a sufficienza le nostre resistenze e paure e riusciamo ad alzare gli occhi contro il fluire della vita stessa, quando decidiamo di vivere fino in fondo, quando ci sentiamo pronti a reggerne l’urto. Succede quando ci liberiamo dalle illusioni e dalle pretese e ci sentiamo pronti ad accogliere la nostra storia con coraggio e disponibilità. Lo decidiamo, solo che poi il Signore ci cammina davvero incontro a dirci che è proprio dove siamo che possiamo fare esperienza di Lui. Che la vita di morte e rinascita è possibile proprio a partire da quella mediocrità che ci troviamo intorno e dentro. Che amare non dipende dal contesto ma dal nostro coraggio. E allora vorremmo scappare. E ci chiediamo cosa significhi davvero amare. E vorremmo che lui la smettesse di venirci incontro.

“Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo”. A chi stava parlando Giovanni? A se stesso. Perché intorno non c’era nessuno. Era a se stesso che stava regalando immagini buone a giustificare il lasciarsi invadere dalla forza del vangelo. In cosa l’avrebbe cambiato? Come sarebbe diventato il Battista dopo il cammino di Gesù dentro la sua vita? In agnello sacrificale. Perché agnello era proprio Gesù. L’agnello di Isaia, muto e obbediente, condotto al macello, resistenza di umanità in un mondo di disumanità. L’agnello, che con Gesù cambierà profondamente di significato. Non più un uomo che sacrifica a Dio delle vittime innocenti ma un Dio che diventa vittima innocente e sacrificio per l’uomo. Perché sacrificare è rendere sacra la vita e la vita la rendi sacra solo amando, solo rimanendo umano, solo smettendo di cercare colpevoli e accettando l’arte del perdono. È la vita di Gesù, è quello stile che sta camminando incontro al Battista, incontro a ciascuno di noi quando ci illudiamo di essere pronti.

Gesù viene ancora, viene oggi, viene ad ogni istante, non è il capro espiatorio lasciato andare nel deserto a portarsi vie le nostre responsabilità ma è agnello che viene a portarci la responsabilità di scegliere una vita mite e umile, una vita umana anche dentro gli spazi disumani della violenza e della morte.
Fa paura questo Messia che ci cammina incontro perché se hai fatto spazio, e il Battista era una vita intera che preparava questo momento, il Messia non lo fermi e la vita rischia davvero di essere travolta.

Noi preferiamo andare verso Dio. Perché scegliamo noi quando e come e perché. Andare verso il Messia solo quando serve e a determinate condizioni. Quando Giovanni alza lo sguardo e vede quel cammino comprende che l’unica condizione rimasta è quella della resa totale o della fuga. Della resa incondizionata o della strenua difesa. Lasciarlo entrare sarebbe stato inaugurare un nuovo definitivo inizio.

“Io non lo conoscevo”, Giovanni sembra piangere. Capisce che le parole che aveva speso per preparare l’incontro, parole che sembravano così definitive e chiare in verità erano acerbe. Gridavano insicurezze e bisogni di rivalsa sul mondo. Che la grandezza non è la forza, la grandezza vera di questo Messia si scopre nella sua radicale umanità, nel suo restare umano anche quando il tradimento, la violenza e la morte sono scagliate con rabbia contro di lui. Quando lui non fuggirà e lascerà che il mondo gli cammini dentro. Che paradosso, la grandezza di Dio si scopre nella Sua fedeltà all’umano.

Giovanni capisce che non lo conosce ancora. Che credeva di aver capito tutto del Messia e invece non aveva capito niente. E deve decidere se scappare o restare, sapendo che restare significa sentire il peso del Suo cammino dentro il cuore, significa provare a diventare come lui.

Credo ci siano dei momenti nella vita in cui questa scelta brucia forte, rischiosa e drammatica. Restare fedeli all’umano oppure adeguarsi e impedire al Vangelo di camminare dentro le nostre storie? Credo ci siano dei momenti anche molto feriali: quando parlano male di noi, davanti all’odio di un amico… mi adeguo e attacco, disumanizzandomi o provo a far camminare il Vangelo dentro la mia storia scegliendo, comunque di custodire la mia e altrui umanità?

“Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo”. Sta parlando a se stesso Giovanni, sta provando a credere che quella resistenza ad alto prezzo, quella fedeltà all’umano che Gesù sta raccontando, è come colomba che scende dal cielo a rimanere in terra. Come il volo dello Spirito in Genesi prima di posarsi sulla Creazione. Come il volo della colomba di Noè prima di posarsi su un mondo riemerso. È sempre questione di battesimo, pensa. Sia il mondo che l’uomo si sono immersi nelle acque e sono riemersi, ora la colomba cerca vite su cui restare.

Il Vangelo di oggi non parla del battesimo di Gesù, parla del Battesimo definitivo di Giovanni e dell’uomo. E che sia un canto alla libertà lo si capisce dal finale. “Io ho visto e ho testimoniato che questi è il figlio di Dio”. Nessuna voce qui ad aprire i cieli, nessuna voce a scendere dall’alto accompagnata da ali di colomba, nessun Dio a confermare la divinità del Messia, in Giovanni la voce è umana, è la voce dei testimoni. La scelta di restare, per Giovanni, non è altro il tentativo di diventare testimone.

Ho visto un mondo violento e incostante, inospitale e ingiusto ma ho scelto di testimoniare che può esserci ancora un pezzo di terra, un pezzo di umanità che può essere casa per lo Spirito. E allora rimango e lascio che lui, la vera Colomba, si posi su di me.

 

Edda CattaniVerso di me
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Naufragi e soglie

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Naufragi e soglie

(Luca 7,11-17)
X domenica Tempo Ordinario C

lampadine

Qualcuno dice che Nain significhi “sorriso” ma oggi Nain vorrebbe cambiare nome. Il sorriso è cariato dal padre di tutti i dolori, una donna ha perso tutto, prima il marito e ora l’unico figlio. Un corteo sta spingendo lontano dalla città la madre e il figlio, emorragia dolorosa, due detriti portati alla deriva da una folla che non può far altro che rifiutare ciò che non può comprendere. Una donna non più madre ed un ragazzo non più vivo sono segno di quel naufragio che diventa la vita quando non rispetta i patti più elementari della natura: i padri devono essere seppelliti dai figli, non viceversa.

L’impressione è che quella donna, a Nain, non farà più ritorno. Non ci sarà più “sorriso” per lei, solo la folla refluirà, come onda che ha esaurito lo sfogo del rabbioso dolore, a continuare, in fondo sollevati per non essere stati toccati dalla tragedia, in fondo in muta attesa che qualcosa capiti anche a loro, prima o poi. Così è la vita. Il morto, intanto, è spinto fuori dalla porta, per adesso ci si può illudere di aver rubato qualche passo alla morte.

Un altro naufrago, relitto sospinto da un corteo altrettanto inutile, sta camminando, ma in direzione opposta. Ma non sarà per sempre così. Anche lui sarà spinto fuori da una città fortificata, anche lui lascerà una donna, già senza marito, anche senza figlio. Relitto aggrappato a un pezzo di legno lotterà per mettere in salvo e non per salvarsi. Forse è per questo che Gesù, alla vista del corteo funebre non chiude gli occhi ma: “vede”. Forse perché, guardando, anche, “si vede”. Si vede per quel che sarà, vede quella madre e pensa a Maria, vede quel corteo e pensa alla Via Crucis, vede quel dolore e pensa che lo conoscerà da vicino. Gesù vede e decide di raccogliere la sfida e raccontare a quei tristi cortei il Senso profondo della vita. Quella vita a cui non basta un Nain, un “sorriso”, quella vita che deve fare i conti con la morte, con il dolore, con la sconfitta, con una vita che sembra contraddire se stessa.

Gesù vede. Ed è la prima soglia da oltrepassare. Perché sì, il segreto della vita è quello di oltrepassare soglie, andare oltre, entrare dentro. Gesù non fa parte del corteo superficiale, Gesù vede e, mettendo i suoi occhi a servizio del reale, supera la soglia. Lascia entrare la morte dagli occhi. Se nella vita vuoi solo sorridere gli occhi li chiudi, Gesù no, non gli basta “Nain”, non gli basta sorridere, lui vuole nutrirsi della vita, nutrirsene fino in fondo, scoprirne il senso. E allora lascia entrare tutto ciò che scorre, tutto ciò che respira, tutto ciò che soffre. I discepoli chiuderanno gli occhi sul Calvario, lui no, occhi aperti a forzare la prima reazione, quel riflesso condizionato dalla paura, quegli occhi che vorrebbero chiudersi, quei cortei che vorrebbero sbarazzarsi il più in fretta possibile della morte.

Poi la compassione. Gesù forza la seconda frontiera, oltrepassa il limite ed accetta di entrare nel cuore del dolore. La donna si lascia guardare, la donna lo lascia entrare. Credo si sia accorta, sempre ci si accorge se qualcuno entra fin nelle profondità del dolore. E se non dice nulla, la donna, è solo perché non ci sono parole. Gesù entra, accetta il rischio della “compassione” della sofferenza condivisa. Senza questo movimento qualsiasi tentativo di parola sarebbe stato violento. Perché il dolore, come l’amore, per non essere violentato, chiede di essere abitato dolcemente da dentro. Solo allora si possono osare parole che altrimenti non avrebbero senso, che avrebbero solo ferito, che avrebbero solo offeso.
Ora, da dentro, dal cuore, Lui osa persino sussurrare: “non piangere”. E mentre consola la vedova di Nain Gesù sembra piangere per sua madre. La terza soglia da forzare è quella delle lacrime. Non possiamo permettere al dolore di svuotarci lo sguardo, il rischio è quello di perdere la verità, di confondere vita e morte, di non riconoscere la resurrezione.

Poi il corteo si ferma. Entrambi i cortei si fermano. Siamo alla porta della città. Il corteo di morte è fermato da un sguardo, da un cuore e da parole coraggiose. Quello che accompagnava Gesù è bloccato perché non è possibile raggiungere il “sorriso” senza immergersi nel dolore, la gioia evangelica è possibile solo per cuori provati dalla vita, senza dolore rimane solo lo stordimento del divertimento, ma divertirsi è “divergere”, cambiare strada, non passare attraverso la porta. Fermi, silenziosi, immobili. Davanti alla porta. Si guardano Gesù e quella donna, i due cortei sono svuotati di senso, senza movimento diventano umanità smarrita. Dal basso, dalla terra, salgono le domande e le paure. Gesù e la donna si guardano. C’è una porta da attraversare e Gesù lo sa, Lui che sta attraversando le porte della vita per andare a raggiungere il cuore di quella donna, Lui che conosce bene il rischio di questi passaggi di soglia, Lui che sente il dolore che si prova ad immergersi nell’umano, Lui che non resiste e che addirittura si definirà “porta”, luogo di passaggio unico, battesimo definitivo del mistero del mondo. Da quel silenzio immobile fiorisce un tocco. Uno spostamento minimo di aria, un cenno, un battito d’ali, una rivoluzione. Gesù tocca la bara. Con la stessa solenne ordinarietà del Dio di Genesi: tocca la morte. Ed è questo l’attraversamento più rischioso: ci si può perdere in quel ventre buio. A Nain è solo un tocco, preludio di quell’attraversamento lungo tre giorni. Della vita non puoi dire niente se non confrontandoti con la morte. Per gli ebrei era impuro toccare un cadavere, per Gesù è impuro tenersi a distanza. Tocca e permette alla donna di continuare a essere madre. Stavolta non serve specificare, dalla croce dovrà trovare le parole: “madre ecco tuo figlio”.

Il ragazzo si siede e parla. Siede sulla morte come un angelo e racconta la vita. Siede sul confine su quel sepolcro in equilibrio. E noi capiamo che a Nain la storia ha camminato incontro a Gesù, gli è come venuta incontro. Il tocco su di Lui sarà quello del Padre, la chiameremo Resurrezione e quando qualcuno porterà la notizia alla madre ritrovata di Nain lei risponderà con un sorriso materno, uno di quelli che teneramente dice, senza parole, “non avevo dubbi”.
A noi rimane una pagina splendida, rimane un invito: camminare incontro alla vita come ha fatto Gesù. Uscire dal corteo e fermarsi. Poi vedere e commuoversi e aggrapparsi alle lacrime e infine toccarla, la morte. Che se non la tocchi Nain rimane un sorriso troppo insicuro. Superarle tutte le soglie, che poi sono le paure che ci portiamo dentro. È solo toccando il dolore che si impara la vita. Fa male, è una passione. Il prezzo è altissimo. La posta in gioco però è semplicemente “Tutto”. Vivere la vita lasciandosi trascinare prima di venire trascinati al sepolcro oppure farsi male ma vivere, vivere lasciando entrare tutto ciò che scorre, tutto ciò che respira, tutto ciò che soffre.

(Alessandro Dehò)

Edda CattaniNaufragi e soglie
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Una barca in tempesta

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Siamo barche in tempesta!

.. c’è un mistero, buon Dio, nella banalità che ci rende furiosi e strappa cuori pieni di stanchezza e vuoti di passione .. un mistero che Tu, però, spingi in un angolo sacro che per noi è un abisso, ma per Te è ascensione .. allora sentiamo salire un dolore lento, forte, e una lenta nostalgia di lotta che diventa rabbia .. mentre Tu ancora a dirci di prendere il largo e che di noi non sei mai stanco ..(B.F.)

 

 

 

Tempi duri per tutti anche se siamo in clima festaiolo. I commenti sono i medesimi: spesa troppo cara, gente senza lavoro, figli disoccupati, famiglie allo sfascio…  Per chi, come me, ha vissuto il dopoguerra sembrerebbe un richiamo alla congiuntura del passato… ma non è così: si viveva in ristrettezze ma c’era la speranza. Ora questa sembra essersi dissolta e più che mai ci si ritrova poveri fra i poveri in un mare in tempesta… Il Vangelo di questa domenica è un richiamo a tirare i remi in barca e a ricominciare da capo:

 

Il Commento del Vescovo emerito Mons. A.Riboldi:

“In quel tempo, mentre Gesù, levato in piedi, stava presso il lago di Genezareth e la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù vide due barche ormeggiate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì su una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedutosi, si mise ad ammaestrare le folle dalla barca. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: ‘Prendi il largo, e calate le reti per la pesca’.

Simone rispose: ‘Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla, ma sulla tua parola getterò le reti’. E avendolo fatto presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche al punto che quasi affondavano. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: ‘Signore, allontanati da me che sono un peccatore’. Grande infatti era lo stupore che aveva preso lui e tutti quelli che erano insieme con lui per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo, Giovanni, figli di Zebedeo che erano soci di Simone. Ma Gesù disse a Simone: ‘Non temere, d’ora in poi sarai pescatore di uomini’. Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. (Lc. 5, 1-11)

Pietro era un pescatore che veniva da una pesca fallimentare. Aveva faticato tutta una notte sul lago di Tiberiade che conosceva palmo per palmo. Era in fondo una sua scelta di vita fare il pescatore. E un buon pescatore non esce mai in mare se non ha la quasi certezza di tornare con le reti piene. Tornare a mani vuote non voleva dire solo confessare una incapacità, ma anche e soprattutto non avere il sufficiente per vivere e fare vivere.

Ma quella notte, davanti al Maestro che aveva scelto di essere spettatore, era stata la notte del fallimento che è così ben espresso da Pietro: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla».

E Gesù vuole dare un segno a Pietro, proprio sul campo della sua competenza. «Prendi il largo e cala le reti». Pietro, dopo la confessione del suo fallimento, obbedisce dicendo: «Sulla tua parola getterò le reti».

Questa è la fiducia di coloro che si affidano, che sanno di non potere nulla in presenza di situazioni allo sbando, nella caduta delle prospettive… e soprattutto nella fame che c’è di solidarietà, di amore, di speranza.

Continua il Vescovo Riboldi:

Per me è stupendo questo atteggiamento di Pietro. Aveva mille e una ragione per essere furibondo contro se stesso, il mare e contro ogni speranza: perché trovarsi con le mani vuote dopo una grande fatica è come avere le gambe rotte. Supera se stesso e con la docilità di un bambino, fidandosi della parola di Uno che in fondo conosceva appena di vista o di fama, ma con il quale non aveva ancora alcuna familiarità, torna in mare avventurandosi al largo dove si misura capacità e coraggio. «E presero una quantità enorme di pesci che le reti si rompevano».

Il risultato perciò non viene dalle nostre capacità, ma dalla fede sulla Sua Parola.

 

Sali sulla mia barca, Signore!

Sali sulla mia barca, Signore!
Tante volte ho avuto l’impressione
che la mia vita
sia come una notte trascorsa
in una pesca fallita.
Allora mi assale la delusione,
mi prende il senso dell’inutilità.
Sali sulla mia barca Signore,
per dirmi da che parte
devo gettare le reti,
per dare fiducia ai miei gesti,
per capire che non devo
lavorare da solo,
per convincermi che il mio lavoro
vale niente senza di Te,
senza la Tua presenza.
Sali sulla mia barca Signore,
per donare calma e serenità.
Prendi Tu il timone:
accetto di essere tuo pescatore.
Insieme pescheremo, Signore,
e giungeremo sicuri
al porto della vita

 

Ma tutto questo riesce strano… quando non difficile… e a tal proposito mi è stato scritto:

Come sei strano Gesù. Già è difficile credere alla Tua venuta, dalla sola testimonianza dei Vangeli. E Tu, cosa fai?! Ti vai a mascherare nelle persone più lacerate, quelle che puzzano; nei malati che ossessionano le nostre ore con la cantilena della propria sofferenza; nel ghigno beffardo di quell’uomo che ha sparato nel viso a una donna.

Come sei strano Gesù. Perché fai questo? Vuoi forse ricomporre ogni cosa? Prenderti in braccio tutti i nostri scarti e dirci che, dal momento della Tua venuta, non si butta via più nulla? Sei qui, perché per seguirti, dobbiamo perdere la nostra reputazione, il nostro buon nome, la nostra pace? E la porta è stretta da attraversare.

Sei anche un tipo “ganzo” Gesù. Perché avvicinarsi a Te, significa essere prossimi alla libertà. Assaporare il nomade soffio dello Spirito. Così ci troviamo scrollati dalle catene che gli altri, e noi stessi, abbiamo stretto intorno agli occhi del nostro stare al mondo.

 

 

 

 

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Il soffio dello Spirito rende «unici»

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Il soffio dello Spirito rende «unici»

 

La sera di quel giorno, il primo della settimana, […] venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». La casa fu piena di vento, e apparvero loro come lingue di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno. E ognuna accende un cuore, sposa una libertà, consacra una diversità. Lo Spirito dà a ogni creatura una genialità propria, una santità che è unica.

A noi che cosa compete? Accogliere questo straordinario respiro di Dio che riporta al cuore Cristo e le sue parole e ci trasforma; accoglierlo, perché il mio piccolo io deve dilatarsi nell’infinito io divino. E poi la missione: a coloro cui perdonerete i peccati saranno perdonati, a coloro cui non perdonerete non saranno perdonati. Il perdono dei peccati è l’impegno di tutti coloro che hanno ricevuto lo Spirito, donne e uomini, grandi e bambini. Perdonate, che vuol dire: piantate attorno a voi oasi di riconciliazione, piccole oasi di pace in tutti i deserti della violenza; tutto intorno a voi create strade di avvicinamenti, aprite porte, riaccendete il calore, riannodate fiducia. Moltiplichiamo piccole oasi e queste conquisteranno il deserto. «Perdonare significa de-creare il male» (Panikkar). Allora venga lo Spirito, riporti l’innocenza e la fiducia nella vita, soffi via le ceneri delle paure, «consolidi in ciascuno di noi la certezza più umana che abbiamo e che tutti ci compone in unità: l’aspirazione alla pace, alla gioia, alla vita, all’amore» (G. Vannucci). (Letture: Atti degli Apostoli 2,1-11; Salmo 103; 1 Corinzi 12,3b-7.12-13; Giovanni 20,19-23)

(dal Centro G.Vannucci)

 

 

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Oltre il visibile

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…e per oggi… domenica di quaresima… questo bel commento.

 

Oltre il visibile

 

 


È così, dunque, il Dio di Gesù? Così inatteso, così eccessivo, così straordinario?
È così distante dall’idea piccina che ci siamo fatti di lui, dunque, questo Dio che Gesù è venuto a raccontare?
È così destabilizzante, al punto da avere spinto lungo la storia anche noi suoi discepoli, devoti e contriti, a limarne la potenza, la follia, a rimetterlo dentro le nostre categorie mentali?
Sante e rassicuranti?
Sì, certo. Anche più di così.
E bene ha fatto e fa il papa venuto dai confini del mondo a scuoterci, a osare, a richiamare tutti in questo immenso Giubileo.
Basta abitudine, basta approssimazioni, basta visioni demoniache di Dio!
Se crediamo, crediamo sul serio, convertiamoci, infine, al Dio che Gesù è venuto a raccontare.
Senza più scuse, senza più infingimenti, senza più lentezze.
Ci scardini questo tempo di quaresima, questo anno di meditazione.
E sia lo Spirito a farci volare.
Osare
In questo percorso Luca ci accompagna.
Nel deserto, salendo al Tabor, scoprendo un Dio che non ce l’ha con te, che è un Padre che ti aspetta, oggi siamo chiamati a superare l’ennesima soglia.
Una pagina evangelica talmente pericolosa da essere stata censurata dagli stessi cristiani per un secolo mezzo, come candidamente ammesso dallo stesso Agostino.
Eccessiva persino per noi cristiani.
È la pagina insostenibile dell’adultera colta il flagrante adulterio. E perdonata senza condizioni.
Non ha nome, né mai lo avrà, che importa? È solo una peccatrice, non ha una storia, non sappiamo nulla di lei, non capiamo la ragione di ciò che è accaduto. È solo un’adultera, un peccatrice, una prostituta.
È fidanzata? Sposata? Felice? Con chi è stata colta in flagrante adulterio?
In realtà della donna non interessa niente a nessuno.
Perché è una donna e perché è una poco di buono, il resto sono smancerie.
Colta in flagrante adulterio, diranno i delatori pronti ad uccidere nel nome di Dio.
Qui la cosa si complica. La Scrittura afferma che una persona può essere accusata alla presenza di due testimoni. Dove sono? Chi sono? Tutto passa in secondo piano, anche il fatto che manca il complice del peccato.
Forse è scappato o, forse, in quanto uomo, gli è riservato un altro trattamento…
Le emozioni travolgono la misura, la legge, brandita come un’arma, è maltrattata. Nessuna equità, nessun equilibrio in questa squallida storia: prevale la rabbia che annebbia le menti.
Nel mezzo
Postala in mezzo, gli dicono.
È nel mezzo, la donna. Il luogo del giudizio, davanti a giudici.
Ed ecco la richiesta, stralunata, insulsa, enigmatica.
Gesù è chiamato ad esprimere un suo parere in quanto rabbì.
Ma i conti non tornano: è presentata come un’adultera, quindi è già stata giudicata! Allora a che serve il giudizio di Gesù? Oppure ancora non ha subìto un processo, allora a che titolo viene coinvolto il Nazareno che non fa parte del sinedrio?
L’evangelista precisa che è un tranello: se Gesù dice di non lapidarla contravviene alla legge di Mosè. Se dice di lapidarla contravviene alla norma romana, entrando a far parte della nutrita schiera degli anti-romani. E, quel che è peggio, smentisce la sua visione di un Padre benevolo.
Un applauso alla perfidia dei presenti.
Della giustizia a loro non importa molto, ancor meno importa della donna e delle conseguenze delle loro decisioni. Qui si tratta di fermare un tale che si è improvvisato profeta e che raduna attorno a sé numerose persone.
Peccatori, perlopiù, come questa donna.
Frequenta brutta gente, Gesù, è amico dei pubblicani e delle prostitute (Mt 11,19).
Geroglifici
Gesù, però, chinatosi, tracciava dei segni per terra con il dito.
Tace. Sa bene che è una trappola.
Si china e in quella posizione resterà. Si siede a riflettere. Inizia a scrivere.
La folla che si è radunata non ha ragionato, ha lasciato parlare la pancia, ha dato libero sfogo alla rabbia. Gesù no, pone una distanza, si raccoglie, pensa e scrive. Cosa?
Si pensa che l’usanza di scarabocchiare in terra, ampiamente documentata presso i popoli semiti, fosse un modo per raccogliere i propri pensieri o per trattenere l’irritazione.
Suggestiva anche la riflessione spirituale di chi vuole vedervi un riferimento al dono della Torah: Gesù non scrive nella polvere, come ci immaginiamo, ma traccia segni sulla pietra, sul selciato del tempio, così come Dio aveva tracciato i comandamenti con il suo dito sulle tavole di pietra (Dt 9,10). Dio aveva dato quelle parole per la vita, gli accusatori le usano per donare la morte.
Tant’è: cosa stia facendo Gesù resta un mistero.
Ma la sua risposta è un pugno nello stomaco dei presenti.
La prima pietra
Resta seduto e alza lo sguardo (così nel testo greco). La sua frase è diventata proverbiale.
Certo, questa donna ha peccato, ovvio.
Ha sbagliato, ha commesso un errore. Ma chi fra noi non ha mai sbagliato? Chi può dire di non avere mai peccato? Chi può, con onestà, ergersi a giudice contro di lei?
Gesù spiazza tutti, non nega la validità del precetto, non dice che va bene ciò che ha fatto, né entra nella delicata questione sulla giurisdizione. Va oltre. Va prima. Riporta tutti all’origine della norma che è fatta per l’uomo, non per opprimerlo.
È vero: questo donna ha sbagliato, come tutti.
Ma la donna non si identifica con il suo sbaglio, con il suo peccato.
Ha una storia, un nome, una dignità, anche la dignità di sbagliare e di redimersi, di cambiare, di migliorare.
Gesù distingue fra peccato e peccatore, cosa che gli accusatori non sanno fare.
E mette nel giudizio una variabile inattesa: la misericordia, quell’atteggiamento tipico di Dio che vede la nostra miseria col cuore. Ha sbagliato, certo, e tutti sbagliamo.
E ne prendiamo coscienza non per giustificarci o minimizzare, ma per cambiare e crescere.
Questa donna ha sbagliato, certo. Ma non è inchiodandola ai suoi limiti che cambierà.
Cambierà solo se vedrà una via d’uscita, una soluzione, solo se capirà cosa davvero le può riempire il cuore.
Lui, nel suo cuore, l’ha già perdonata.

 

(Paolo Curtaz)

Edda CattaniOltre il visibile
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