Evangelizzazione e Analisi

Il volto del sofferente

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Il volto del sofferente

 

 

 

Il volto, è l'emergenza dell'identità. Il volto è epifania dell'umanità dell'uomo, della sua unicità ir­riducibile, e questa preziosità del volto è simultanea alla sua vulnerabilità:

La pelle del volto è quella che resta più nuda, più spo­glia. La più nuda sebbene di una nudità dignitosa. La più spoglia anche: nel volto c'è una povertà essenziale

Il volto è esposto, minacciato come se ci invitasse a un atto di violenza. Al tempo stesso, il volto è ciò che ci vieta di uccidere.

 

Lo sguardo che noi portiamo sul volto sofferente (pensiamo in particolare al volto sfigurato dal dolore, deformato dalla malattia, devastato da cicatrici, ustionato, alterato dall' alienazione), sguardo che oscilla tra la ripugnanza e la curiosità morbosa, è chiamato a percorrere il cammino che giunga a riconoscere l'umanità, per quanto ferita o umiliata, di quel volto.

Un racconto della scrittrice finlandese Tove Jansson ci pone di fronte a quello sguardo d'amore che sa restituire umanità a chi ha visto mutato il proprio aspetto in irriconoscibili sembianze mostruose. Sintetizziamo la narrazione: Mumintroll, una delle creature del libro, gioca a nascondino con gli amici. Si nasconde nel cappello grande e nero di un vecchio mago senza sapere che tutto ciò che vi entra cambia aspetto. Quando Mumintroll esce dal cappello i suoi amici si ritraggono spaventati: il suo aspetto è cambiato e ora è terrificante, quasi mostruoso. Mumintroll, tuttavia, non sa di essere cambiato e non capisce perché gli amici fuggono. In preda al panico, intrappolato nella solitudine delle sue nuove sembianze, cerca di spiegare che è lui, è sempre lui, ma loro scappano via urlando per il terrore. In quel momento arriva la mamma di Mumintroll, lo guarda stupita e gli domanda chi è. Lui la supplica con lo sguardo di riconoscerlo perché se lei non lo capirà, come potrà vivere? Allora lei lo guarda negli occhi, osserva profondamente l'anima di quella creatura che non assomiglia affatto al suo caro figlioletto e dice con un sorriso: "Ma tu sei il mio Mumintroll". E in quel momento accade un piccolo miracolo: il mostro, l'estraneo, svanisce e Mumintroll torna a essere quello di prima. Insomma, non solo ci è necessaria una cultura dell' ascolto, ma anche una cultura dello sguardo: e questo con urgenza ancora maggiore considerando lo scialo di esibizione delle sofferenze e delle morti sui mass media. Sappiamo volgere uno sguardo umano e umanizzante al sofferente?

Il percorso per noi disegnato si muove attorno all'idea che l'umanità di Gesù, narrata nei vangeli, può insegnarci a vivere il confronto con la sofferenza e l'incontro con i malati.

 

Può umanizzarci. E renderci più evangelici.

Edda CattaniIl volto del sofferente
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Vivere il presente

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Vivere il presente

(da Carlo Molari FB MdM)

 

 

 

Il presente è l'unica realtà essenziale della vita, è cioè l'ambito attraverso cui ci giunge l'offerta di vita, che è una sola. Tutto ciò che ciascuno di noi vive, può essere il luogo dove avviene la nostra crescita personale, come figli di Dio, che siamo chiamati ad essere, che è il compimento del progetto salvifico che ciascuno di noi porta con sé. L'attività che svolgiamo, per esempio, è lo spazio del nostro divenire, …attraverso cui la forza creatrice si esprime. Non è possibile perciò vivere il presente rimanendo chiusi al suo interno, esso infatti contiene una presenza che lo trascende, porta una tensione verso l'eterno, rimanda a una realtà che non può contenere. Vivere il presente in prospettiva teologale non significa evaderne per pensare al cielo o attendere un premio, ma significa immergersi talmente nel presente da uscirne verso un'altra dimensione per coglierne le sue valenze eterne. Non si tratta tanto di uscire dal presente seguendo la freccia del tempo in orizzontale verso altre cose, ma si tratta di trascendere il presente cogliendo l'azione che lo fonda, la Presenza che lo costituisce. Se Dio infatti è il creatore, non siamo noi a vivere il presente, ma noi consentiamo alla Vita di esprimersi in noi, non siamo noi ad amare, ma permettiamo al Bene di diventare amore in noi. Bisogna consentire al Presente di esprimersi nel piccolo spazio temporale secondo la successione degli eventi.

 

 

 

Edda CattaniVivere il presente
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I pranzi di Gesù

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Padre Alberto Maggi è con noi a Padova il 23/24 Maggio per il tema: I PRANZI DI GESU’ 

 

 

 

 

 

Fra i tanti brani commentati:

I DISCEPOLI DI EMMAUS E IL PANE SPEZZATO. 

 

 

I discepoli di Gesù sembrano essere più delusi della sua risurrezione che della sua morte. 

Gesù era morto nella maniera più infame per un ebreo, e la sua fine era la prova che non era il Messia di Dio, perché questi non avrebbe mai incontrato la morte . 

Pazienza, vorrà dire che i discepoli si erano sbagliati, che non era lui l’Atteso, colui che doveva venire, e ora c’era solo da stare in attesa di un altro . 

A quel tempo ogni tanto sorgevano individui che asserivano di essere i liberatori d’Israele. C’era stato Teuda, al quale si aggregarono circa quattrocento uomini, ma anche lui “fu ucciso, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui furono dissolti e finirono nel nulla” (At 5,36). Dopo di lui sorse Giuda il Galileo, pure lui indusse la gente a seguirlo, “ma anche lui finì male e quelli che si erano lasciati persuadere da lui si dispersero” (At 5,37), come i discepoli di Gesù, che rischiano ora di disperdersi e di finire nel nulla, in attesa del prossimo Messia, quello che avrebbe finalmente restaurato il defunto regno del re Davide.

Ma se Gesù è risuscitato, significa che non c’è da aspettare un altro Messia, e allora addio sogni di gloria, addio alle profezie della supremazia di Israele sui popoli pagani. Se Gesù è risuscitato significa che bisogna abbandonare l’illusione del ritorno del regno d’Israele, il tempo in cui ci sarebbero stati “estranei a pascere le vostre greggi e figli di stranieri saranno vostri contadini e vignaioli”, quello in cui Israele si sarebbe nutrita “delle ricchezze delle nazioni” e avrebbe “succhiato le ricchezze dei re” (Is 61,5.6. 60,16). 

Direzione sbagliata

Alle prime voci della possibile risurrezione del Cristo, la sua comunità dà prova di confusione e di dispersione, e i suoi discepoli lo vanno a cercare nelle direzioni sbagliate. Le donne lo cercano nel sepolcro, e trovano la strada sbarrata da due uomini “in abito sfolgorante”, che chiedono: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?” (Lc 24,4.5). Gesù, “il Vivente” (Ap 1,17), non si trova nel luogo della morte.

I discepoli invece si dirigono verso Èmmaus, luogo che ricordava loro i gloriosi trascorsi d’Israele, il passato al quale non rinunciano e che alimenta i loro sogni. Ma il Signore “che fa nuove tutte le cose” (Ap 21,5) non lo si può cercare nel passato. 

La comunità dei discepoli, come un gregge senza pastore, si è dispersa, ognuno va per conto suo, e sarà Gesù, il pastore, che dovrà andarli a cercare e recuperarli a uno a uno. 

Per questo si avvicina, non riconosciuto, ai di-scepoli che se ne vanno verso Èmmaus, villaggio carico di storia e di ricordi, luogo che vedono come un balsamo per la loro cocente delusione. È là, infatti, che circa due secoli prima “i pagani furono sconfitti” da Giuda Maccabeo, vittoria che avrebbe fatto capire a tutte le nazioni “che c’è chi riscatta e salva Israele”, e venne celebrata come il “giorno di gran-de liberazione per Israele” (1 Mac 4,11.25).

Gesù si affianca ai discepoli, “ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo” (Lc 24,16). Essi guardano indietro, al passato, al regno di Israele, e non possono percepire la presenza di Gesù, che li vuole aprire a orizzonti più vasti, al regno di Dio. Piangono il morto, non possono riconoscere colui che è vivo.

I discepoli sono tristi, e alla domanda di Gesù di che cosa stiano parlando, uno di loro, Clèopa , gli risponde stupito: “Solo tu sei forestiero a Gerusalemme? Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni? (Lc 24,18). E racconta al forestiero di quel che è accaduto a Gesù, il Nazareno, “che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo” (Lc 24,19). 

Da quel che il discepolo gli sta dicendo, Gesù si rende conto che i suoi seguaci hanno capito poco o niente di lui. Per essi è un profeta, come Giovanni (Lc 20,6), un “grande profeta”, come pensava la gente (Lc 7,16), ma nulla di più. 

Continuando a narrare allo sconosciuto i fatti di quei giorni, Clèopa gli racconta di come “i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso” (Lc 24,20). 

Già, “le nostre autorità…”. 

I discepoli non hanno rotto con un’istituzione religiosa assassina, e continuano a riconoscere i capi religiosi come le loro autorità. E Clèopa, nell’aggiornare il forestiero che, a quanto pare, è digiuno dei fatti accaduti, dà sfogo a quella che era stata la frustrazione di tutti i discepoli: “Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele” (Lc 24,21).

Ecco il motivo della grande frustrazione e dell’incomprensione di Gesù. I discepoli lo hanno seguito nella convinzione che lui fosse il liberatore di Israele, una sorta di novello Giuda Maccabeo che avrebbe sconfitto i pagani.

Inutilmente Gesù ha parlato loro del regno di Dio. Quel che a essi interessa è il regno di Israele. 

“Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?” (At 1,6) sarà la richiesta dei discepoli dopo che il Cristo risorto, durante qua-ranta giorni, parlò loro “delle cose riguardanti il regno di Dio” (At 1,3). 

Gesù parla del regno di Dio, ma ai discepoli interessa quello di Israele.

È sconsolato Clèopa, ha perso le speranze, e sono già passati tre giorni da quando tutto questo è accaduto. È vero, ammette, che alcune delle loro donne, recatesi al sepolcro e non avendo trovato il corpo di Gesù, “sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo” (Lc 24,22-23), e qui il racconto del discepolo si fa reticente: omette di dire che le parole di quelle donne “parvero a loro come un vaneggiamento e non credevano ad esse” (Lc 24,11). La testimonianza di una donna non era credibile, figuriamoci se annuncia un fatto strabiliante come la risurrezione di un morto. Comunque alcuni dei discepoli sono andati alla tomba, “ma lui non l’hanno visto” (Lc 24,24). Non lo possono vedere. Non si può cercare chi è vivo nel luogo dei morti. 

A questo punto le informazioni raccolte dal forestiero sono sufficienti per farlo intervenire, e lo fa apostrofando i due con severità: “Stolti e lenti di cuore” (Lc 24,25). 

Per Gesù quella dei suoi discepoli è stupidità e testardaggine. 

Come non hanno potuto capire che la sua fine non era stato un fallimento, ma il compimento del disegno d’amore di Dio sull’umanità, un progetto d’amore che era stato rivelato nella Sacra scrittura, che Gesù ora ricorda ai discepoli (“E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,27). 

È Gesù la chiave di interpretazione della Scrittura. 

Questa si rivela nel suo più vero e profondo significato solo se letta nell’ottica dello Spirito, ovvero l’amore incondizionato di Dio verso l’uomo. Se non si pone come valore assoluto della propria vita il bene dell’uomo, la Scrittura non si rivela, è come se un velo fosse steso sulle parole, impedendo agli uomini di comprenderle .

Giunti verso la mèta dove i discepoli erano diretti, il forestiero “fece come se dovesse andare più lontano”(Lc 24,28). Gesù si dirige verso il nuovo, non verso il passato, ma lui è anche il pastore che non abbandona le pecore che rischiano di perdersi, e accetta di fermarsi con essi, accogliendo la loro richiesta: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto” (Lc 24,29).

È sera, il momento della cena, e il forestiero, a tavola con loro, “prese il pane, benedì, lo spezzò e lo diede loro…” (Lc 24,30). Sono gli stessi gesti compiuti da Gesù nell’ultima cena con i suoi discepoli , e finalmente “si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” (Lc 24,31). 

Torna loro la memoria . Riconoscono Gesù quando si fa pane, alimento di vita per i suoi. Ma nello stesso istante nel quale i discepoli si rendono conto della sua presenza, lui diventa invisibile . Non c’è più nulla da vedere, se non un pane spezzato da condividere.

Gesù non scompare, ma sarà sempre visibile ogni volta che il pane sarà spezzato per farne alimento di vita e di condivisione.

 

Edda CattaniI pranzi di Gesù
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Anno della Misericordia

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"Misericordias Domini"

 

Oggi 13 marzo 2015 a due anni del suo pontificato giunge questo annuncio:
 "Cari fratelli e sorelle – ha detto Bergoglio -, ho pensato spesso a come la Chiesa possa rendere più evidente la sua missione di essere testimone della Misericordia. È un cammino che inizia con una conversione spirituale. Per questo ho deciso di indire un Giubileo straordinario che abbia al suo centro la misericordia di Dio. Questo Anno Santo inizierà nella prossima solennità dell'Immacolata Concezione e si concluderà il 20 novembre del 2016, domenica di Nostro Signore Gesù Cristo, re dell'universo e volto vivo della misericordia del Padre. Affido l'organizzazione di questo Giubileo al Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, perché possa animarlo come una nuova tappa del cammino della Chiesa nella sua missione di portare a ogni persona il vangelo della Misericordia".




 

 

Era il 1961 ed io vivevo una delle più belle esperienze della mia vita: giovinetta con grandi ansie spirituali, mi beavo di quel conforto del cuore che mi faceva sentire completamente abbandonata nelle mani di Gesù e di Maria. Abitavo in un luogo capace di rispondere alle mie attese giacchè si trattava di un convento dove venivano accolte, per una seria riflessione, giovani desiderose di incontrarsi con Dio. La sera, dopo le intense giornate lavorative, ci si recava, in assoluto silenzio, in fila, con il cero in mano ed un velo bianco in testa, lungo l’immenso corridoio, fino a raggiungere una grande statua della Madonna, illuminata da una corona di stelle e circondata, come in un giardino, da tante piante e fiori di ogni genere. Fra quei fiori deponevo il mio cuore in adorante visione di una realtà “altra” piena di amore, di dolci profumi, di musica, di bontà e di speranza. Un canto che veniva intonato e che mi affascinava era un inno noto alla liturgia, derivante da un Salmo: “Misericordias Domini in aeternum cantabo (canterò in eterno le Misericordie del Signore). In quell’atmosfera surreale formulai le mie prime promesse, mai dimenticate ed un patto per la mia vita futura assunse la modalità dell’impegno che cercai di trasmettere sempre ai miei figli, quando diventai giovane madre.

 

 

E’ tempo di Quaresima. Questo momento di silenzio con l’invito che Dio ci rivolge è molto importante. Noi cammineremo verso la Pasqua per quaranta giorni. Quaranta giorni per trasformarci, per diventare capaci di comprendere il suo amore nell’assenza di rumore e del frastuono che ha riempito le giornate del pazzo “carnevale”.

Leggiamo il vangelo di Matteo (6,1-6.16-18) : “…quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. E quando digiunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.

Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”. 

Ecco dunque il percorso: il digiuno, come mortificazione per astenersi dalle cose futili; la preghiera, per chiedere a Dio di aiutarci a compiere il nostro dovere di ogni giorno; il silenzio per trovare nella nostra giornata un momento di riflessione e pensare alle cose che contano nella vita.

In uno dei tanti messaggi Andrea ci dice: “… fate tutto zitti, zitti…” La semplicità delle brevi frasi che ci giungono sono sempre un invito alla riservatezza, alla partecipazione del cuore, al silenzio interiore. Senza queste peculiari connotazioni non vi può essere comunicazione con i nostri Cari dell’Oltre; per questo noi dobbiamo anche dimenticarci del nostro dolore per non farne il solo scopo della nostra vita. L’evento tragico che ci ha colpito non può annullare la nostra vita al punto da ritenere che essa non meriti di essere vissuta nella pienezza e nella scoperta di cose sempre più belle che avremo modo di apprezzare.  Ricordo di avere assistito ad una conferenza di uno studioso di Padova nelle sue vestigia medioevali e di avere sentito dire: “… noi siamo abituati a passare per le strade e a guardare dove mettiamo i piedi…cosa più che mai giusta… ma se alzassimo lo sguardo ci assalirebbe una meravigliosa visione di splendidi cornicioni, di torricini, di balconi, di cupole che si stagliano nel cielo invitandoci a ringraziare l’Onnipotente per le grandezze che abbiamo saputo creare per glorificarlo.

Riscopriamo in questa quaresima la bellezza dell’amore che ci sembra di avere perduto e pensiamo che quel corpo che è scomparso sotto una pietra tombale è destinato a risorgere glorioso e più bello di prima.

I primi giorni del mio amaro peregrinare nella casa vuota dove, fino a qualche giorno prima, echeggiavano canti e risa dei miei figli,  ripensavo al corpo statuario di quel figlio, bello nella sua esuberante giovinezza e gli chiedevo fra le lacrime: “Come sei ora, figlio mio, eri tanto bello!” una voce esile, ma decisa mi rispose: “Di più, di più di prima, mamma!”

Ecco la completezza del messaggio cristiano: IO RISORGERO’  questo mio corpo vedrà il Salvatore! Certamente dovremo passare attraverso la quaresima che, anche nella sua spoglia contrizione assume il grande significato dell’attesa.  

 

 

Viviamo in un paese di oscurità

Ho attraversato la frontiera, Signore, e sono passato nel paese di oscurità!

nella regione dove mi sono stabilito sboccia il piacere di ostentare la disonestà di fronte agli altri;

 la bontà non ha posto; la menzogna è un costume e la maschera della falsità una pratica quotidiana.

si tratta di dominare e guardare dall'alto. Le parole di dolcezza non hanno corso.

Sono diffuse solo parole offensive. Qui ognuno trascorre il suo tempo a riempire soltanto la propria borsa

anche se per questo bisogna vuotare quella del vicino. qui non esiste prossimo:

non esiste che se stesso da accontentare prima di tutto. E quali mani, in questo paese,

si tendono per cogliere la limpidezza che tu, Signore, moltiplichi instancabilmente?

pietà di me, signore, sono smarrito: fammi tornare nel paese del vangelo!

 

È un richiamo alla verità, al voler essere veri, autentici dinanzi a Dio; è un richiamo molto opportuno e molto giusto. Non si vedrebbe come ci si possa convertire a Dio se non si comincia da un profondo atto di one­stà e di verità interiore. Gesù nel Vangelo pone così questo problema di verità: non cercare – ci dice – la tua dignità e la tua grandezza specchiandoti nel giudizio degli al­tri, nella loro lode, compiacendoti della loro ammirazione. Cerca la tua dignità e la tua grandezza specchiandoti nel giudizio di Dio, e lì troverai la tua verità, perché solo Dio ti giudica nel modo ve­ro, nel modo autentico e ti dà dunque la dignità della sua approvazione e della sua lode. E’ una scelta fondamentale da fare, anche perché i nostri atteggiamenti umani sono sempre sul filo del rasoio a questo proposito: cercare la nostra dignità negli altri, oppure cercare la nostra dignità profonda nell'incontro segreto e sconvolgente con Dio. Gesù rimproverò a questo proposito tutti coloro che facevano opere buone per essere lodati dagli uomini, e commentò: « Avete già ricevuto la vo­stra ricompensa ».

 

           E’ tempo di vivere

Da ora e per quaranta giorni, che vivere diventi la nostra urgenza quotidiana!

Prima di tutto andare alla sorgente del Vangelo e immergersi nella sua frescura,

rimanere in silenzio per cogliere la quiete e la calma che rendono capaci di afferrare

 le gioie tremule disposte sul nostro cammino, distribuite e condivise, perché ciò che siamo e che abbiamo ci è stato dato perché facciamo crescere la felicità dei nostri Cari.

Siamo consapevoli che il Padre ci porta sulle sue braccia,

e che comunica la sua divina potenza di trionfare sulla morte

che ha incrociato la luce dei nostri giorni.

 

"Tornate a me e vivrete, dice il Signore"

Signore, voglio tornare a Te, perché Tu solo puoi darmi gioia e conforto, perché tu sei la mia gioia e la mia vita ed io…

Misericordias Domini in aeternum cantabo!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Edda CattaniAnno della Misericordia
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Siate poveri e incorruttibili

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Siate poveri e incorruttibili

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Siate poveri e incorruttibili, non untuosi e presuntosi, rimanendo fedeli nonostante i peccati e obbedendo alla Chiesa gerarchica”. È il monito che Papa Francesco ha rivolto a tutto il clero di Roma nella Messa crismale celebrata nella Basilica Vaticana. È il primo rito del giovedì santo, giorno in cui i cristiani ricordano le istituzioni del sacerdozio e dell’Eucaristia durante l’ultima cena di Gesù. Bergoglio, che nella stessa occasione un anno fa aveva invitato i preti ad “avere l’odore delle pecore”, ha sottolineato che se un sacerdote “non esce da se stesso, l’olio diventa rancido e la sua unzione non può essere feconda”. Ma, ha chiarito il Papa, “uscire da se stessi richiede spogliarsi di sé, comporta povertà”. E qui il pensiero va a quanti vendono i sacramenti, peccato condannato più volte da Bergoglio nel suo primo anno di pontificato. “Il sudario non ha tasche”, ha ripetuto infatti più volte il Papa facendo sua la frase semplice ma significativa che la nonna piemontese, Rosa Margherita Vasallo, gli ripeteva sempre da bambino.

Per Francesco sono “tre le caratteristiche significative nella nostra gioia sacerdotale: è una gioia che ci unge (non che ci rende untuosi, sontuosi e presuntuosi), è una gioia incorruttibile ed è una gioia missionaria che si irradia a tutti e attira tutti, cominciando alla rovescia: dai più lontani”. Una gioia che, per il Papa, “può essere addormentata o soffocata dal peccato o dalle preoccupazioni della vita ma, nel profondo, rimane intatta come la brace di un ceppo bruciato sotto le ceneri, e sempre può essere rinnovata”. Quel peccato che in numerosi casi ha il nome della pedofilia che sarà oggetto del mea culpa della decima stazione della via crucis del venerdì santo al Colosseo che sarà presieduta, domani sera (18 aprile), da Papa Francesco.

Bergoglio ha sottolineato, inoltre, che la gioia sacerdotale è “custodita anche da tre sorelle che la circondano, la proteggono, la difendono: sorella povertà, sorella fedeltà e sorella obbedienza. Non tanto nel senso che saremmo tutti ‘immacolati’ (magari con la grazia di Dio lo fossimo!) perché siamo peccatori, ma piuttosto nel senso di una sempre nuova fedeltà all’unica sposa, la Chiesa”. E “obbedienza alla Chiesa nella gerarchia che ci dà, per così dire, non solo l’ambito più esterno dell’obbedienza: la parrocchia alla quale sono inviato, le facoltà del ministero, quell’incarico particolare, bensì anche l’unione con Dio Padre, dal quale deriva ogni paternità. Ma anche l’obbedienza alla Chiesa nel servizio: disponibilità e prontezza per servire tutti, sempre e nel modo migliore”.

Secondo atto del giovedì santo di Papa Francesco è la Messa dell’ultima cena con la lavanda dei piedi. Bergoglio ha deciso di celebrarla ancora una volta con gli ultimi, nella Fondazione Don Carlo Gnocchi-Centro Santa Maria della Provvidenza di Roma. Dodici i disabili a cui Bergoglio laverà i piedi: hanno tra i 16 e gli 86 anni, tre sono di origine straniera e uno è di fede musulmana. Il più giovane, Osvaldinho, 16 anni, originario di Capo Verde, nell’agosto del 2013, a causa di un banale tuffo in mare ha subito un trauma vertebro-midollare con tetraplegia immediata. Di altro genere la vicenda di Orietta, romana, 51 anni, a soli due anni è colpita dal vaiolo che le provoca un’encefalite. Da 43 anni vive nel Centro. Samuele, 66 anni, all’età di 3 anni si ammala di poliomielite, vera e propria piaga che falcidiava l’infanzia di quegli anni e a cui don Gnocchi si era dedicato una volta esaurita l’emergenza dei mutilatini.

Gli altri disabili a cui il Papa laverà i piedi sono: Marco, 19 anni, quinto anno al liceo scientifico tecnologico, animatore in parrocchia, nell’ottobre scorso gli è stata diagnosticata una neoplasia cerebrale; Angelica, 86 anni, contadina per tutta la vita, nell’agosto del 2013 la caduta con frattura scomposta dell’anca l’ha costretta alla sedia a rotelle; Daria, 39 anni, affetta da tetraparesi spastica neonatale; Pietro, 86 anni, ha un deficit dell’equilibrio e della deambulazione e ipotonotrofia muscolare; Gianluca, 36 anni, dall’età di 14 anni ha subito vari interventi per meningiomi; Stefano, 49 anni, affetto da oligofrenia grave e spasticità in esiti di cerebropatia neonatale; Hamed, 75 anni, originario della Libia, di religione musulmana, a seguito di un incidente stradale ha subito gravi danni neurologici; Giordana, 27 anni, originaria dell’Etiopia, è affetta da tetraparesi spastica in seguito a paralisi cerebrale infantile ed epilessia, scrive poesie e cura con altri disabili del centro l’emittente web Radio Don Gnocchi; infine Walter, 59 anni, affetto da sindrome di down.

twitter: @FrancescoGrana

 

 

Edda CattaniSiate poveri e incorruttibili
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Spontaneità e tenerezza

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Spontaneità e tenerezza

ANCHE QUI E' NATALE!

 

La visita di papa Francesco all'ospedale pediatrico Bambino Gesù – l'"ospedale del Papa" lo chiamano a Roma essendo dal 1924 di proprietà della Santa Sede – è stata un'immersione in una delle esperienze più toccanti, la… sofferenza dei bambini, per portare in vista del Natale un segno di speranza, di conforto, di incoraggiamento. Quasi tre ore nei reparti a contatto con i piccoli pazienti e i familiari, preferendo non avere nessun altro intorno a sé, dispensando ai bambini ricoverati, uno ad uno, baci, carezze, gesti di tenerezza.

 

 

 

Fin dalle sue prime espressioni, la cerimonia d’insediamento di papa Francesco conferma che i suoi gesti e le sue parole non erano casuali ma ben meditate: presentandosi come semplice vescovo di Roma e spogliandosi di ogni esteriorità regale, Jorge Mario Bergoglio persegue il disegno ecumenico della riunione con tutte le chiese che mal sopportano una pratica gerarchica del ministero petrino.

 

Ma anche questa mattina da un’intervista al responsabile a Roma della Chiesa ebraica, sono giunte malcelate critiche al rito cattolico in cui si prega per “redimere” coloro che non sono convinti della venuta messianica. Diceva pertanto il rabbino che nessuno di loro chiede di essere “redento” in quanto la loro convinzione non li porta all’accettazione che Gesù Cristo sia il Figlio di Jahvè perciò che qualcuno sia morto e risorto per noi dopo l’ignominia della croce.

 

Ciò nonostante il Papa argentino si presenta con l’umiltà del “servizio” e non potendo che avvalersi di quanto gliene viene come eredità da una Chiesa che è stata più separatista che conciliare chiama tutti, indistintamente “fratelli e sorelle” salutandoli con un familiare “buonasera”!

 

E’ partito dal giorno dell’investitura  con l’assumere il nome di Francesco, il beato della povertà e della vita praticata in “perfetta letizia” ed ha continuato richiamando la  figura di San Giuseppe con la missione che Dio gli ha affidato, quella di essere custos, custode. Custode di chi? Di Maria e di Gesù; una custodia che ha voluto definire come estesa alla Chiesa tutta.

 

Ha poi ripetuto: “Come esercita Giuseppe questa custodia? Con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende.”

 

“Giuseppe è “custode” perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge…”

 

 

Da queste parole in premessa,  ciò che più ha colpito di questo uomo venuto “dall’altra parte del mondo” è la semplicità con cui si pone nei riguardi dell’altro, di coloro che ci hanno insegnato a chiamare “prossimo” e che lui definisce “tutto il popolo di Dio” con il richiamo ad   accogliere  “con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli, quelli che Matteo descrive nei giudizio finale sulla carità: chi ha fame, sete, è straniero, nudo, malato, in carcere. Solo chi serve con amore sa custodire!”.

 

Solo chi “serve con amore” può custodire!

 

E noi serviamo con amore?… perché se “servizio” e “amore”  sono legate a doppia mandata come la buccia al frutto c’è da chiedersi quanto ne abbiamo capito noi.

 

E’ bello, addirittura commovente, vedere un uomo che scende dalla “papa mobile” e si avvicina al bambino, al tetraplegico per abbracciarlo. Noi stessi abbiamo imparato a salutarci con un abbraccio … La nuova cultura laica del “benessere” invita ad avere rapporti tangibili nelle manifestazioni affettive.

 

Io fui turbata anni fa, quando ad un convegno il relatore chiese ai presenti: “prima di iniziare  voglio dire a tutti “abbracciatevi”… Mi guardai intorno, pensando a chi avrei dovuto rivolgermi … ad una donna che mi stava vicina con il fazzoletto in mano, al ragazzo davanti a me, al signore attempato dal cipiglio severo … Eh sì, perché noi vorremmo sceglierci chi abbracciare.

 

Sembra facile dire “ti voglio bene” e poi girare le spalle perché “sono stanco e non mi torna comodo e poi mi hai spossato con tutte le tue lamentele …” Sembra facile scegliere chi amare …  come e quando e chi … amare.

 

In questo periodo della modernità sembra veramente che più che la civiltà ci sia spazio per l’inciviltà, in quanto spesso quando si ama si è possessivi, si tiene conto dell’oggetto, non della persona e poi quando non la si vuole più la si sopprime… Mai, come in questi giorni si era parlato di omicidi sulle donne e ne è stato coniato un termine: “femminicidio”, mentre i delitti della storia sulle donne (v. Edordo VIII e Anna Bolena) rimangono documenti attestanti l’orrore di una eliminazione non dovuta, di un amore malato.

 

Alla base di tutto (e ne abbiamo parlato varie volte) c’è un profondo egoismo, il tenere conto solo di quando l’amore ci fa stare bene: io ti prendo per quanto mi dai  e sta a me decidere per quanto tempo.

 

Si dice che l'amore vero è quello altruista, disinteressato, che desidera solo il bene dell'altro; ma esiste davvero un amore del genere?

 

Se siamo sinceri riguardo a noi stessi e ai nostri sentimenti e osserviamo il comportamento altrui, le cose di solito stanno diversamente. Certo che vogliamo il bene dell'altro, ma deve essere un bene condiviso con noi.

 

Quale complessità negli equilibri umani! E una volta che ci si è appropriati degli affetti, rimaniamo distrutti perdendoli…

 

 

Vivo quotidianamente l’esperienza delle Mamme di FB e rimango costernata nel riscontrare, a volte, che il dolore si muta in aspra disamina dell’abbandono, quasi che ciascuno di noi fosse padrone della vita e della morte.

“Perché mi hai lasciato? Sapevi in quale stato mi sarei trovata!” Il credere nella sopravvivenza non fa venire meno il teorema del possesso: io avevo diritto di averti per tutta la vita!

 

Il timore di essere abbandonati appartiene a ognuno di noi. La persona che sa convivere con questo timore riesce a gestirlo e a non farsi influenzare nell’ambito della sua vita relazionale. Ma per molti questa paura non è facile da condurre: alcune persone sono affette in modo patologico dalla sindrome dell’abbandono che condiziona gravemente  la loro vita affettiva.

 

L’uomo nasce solo, già quando si sviluppa in grembo alla madre, coltiva dentro a sé quel desiderio di espandersi, di venir fuori, e tende la mano al mondo per essere condotto… Cosa fa meglio allora se si nasce già con questa dipendenza dall’altro?

 

L’amore vero ritorna quello del Vangelo: “Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio. Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete, voi valete più di molti passeri”. (Luca 12,1-7)

 

“Amare non significa solo dedicarsi interamente, con una generosità completa, né consacrarsi corpo ed anima senza condizioni ad attività in favore del prossimo, ma, prima di tutto, fare opera di intelligenza, chiedendoci con amore e con un sentimento profondo di rispetto degli uomini nostri fratelli, qual è il miglior bene che noi possiamo offrire loro, non solo, certamente nella prospettiva temporale ma in quella del destino spirituale.” (René Voillaume)

 

A questo dà risposta l’abbraccio di Papa Francesco che richiama alla tenerezza fraterna, quella che fa dimenticare chi io sia, quanto ti abbia dato o ti stia dando ma si dona nell’assoluta dedizione incondizionata all’altro per dargli solo amore senza nulla chiedere.

 

Questa posizione richiede sacrificio, pone domande alla nostra coscienza e ci fa esprimere con semplicità ed umiltà nei riguardi degli altri, fa sentire pieno l’amore di un Padre che nulla chiede se non di essere amato.

 

Un cammino nuovo per l’uomo e per la Chiesa. Ammanicati ad orpelli ed apparati di ogni genere siamo più inclini ad andarcele a cercare le difficoltà che a vedere le cose con la semplicità dei fanciulli ma ce la si può fare.

 

 

Allora quando vediamo una persona sola, un ammalato, un “povero diavolo” che chiede l'elemosina ci viene da dire "abbandonato da Dio e dagli uomini". Niente di più sbagliato. Quanti di noi si sono sentiti abbandonati dalle persone, amici che non ci sono nel momento del bisogno, figli che escono di casa e non fanno più nemmeno una telefonata, mogli o mariti che si separano e fuggono dalle loro responsabilità.

Nessuno però è abbandonato da Dio, Egli, diceva Madre Teresa, ha il nostro nome scritto sul palmo della Sua mano e non si dimentica di nessuno.

 

Le madri, i padri provati da lutti gravi, i sofferenti per distacchi, i bambini dati in affidamento, i vecchi che nessuno vuole … sembrano abbandonati da tutti anche dalle istituzioni…, ma Dio non li dimentica, anche se l'uomo tende ad escluderli dalla propria vista, vorrebbe tenerli nascosti come si tiene la spazzatura rinchiusa in cucina quando viene un ospite.

 

Ma i fratelli non sono spazzatura, sono cibo per la nostra anima. Dobbiamo far sì che tutti noi, ma proprio tutti, con atteggiamento di estrema semplicità doniamo tenerezza all’altro facendo sentire che siamo lì, davanti a loro, pronti ad accoglierli, comprenderli, abbracciarli.

 

Nell´Omelia del 19 Marzo il Santo Padre ci ha invitati a non avere paura della tenerezza! Ma cosa significa il termine “Tenerezza”? Significa essere sempre vicino a chi ci sta accanto, guardarlo negli occhi con semplicità e lealtà, non significa pietà, significa amare l’altro con occhi puliti, con gli occhi dell´anima…!

 

Non si può essere teneri verso qualcuno se prima non siamo teneri con noi stessi! Solo se siamo puliti dentro allora la nostra tenerezza brillerà sugli altri come il raggio di sole che entra in una stanza buia. Tenerezza significa essere sempre pronti ad amare gli altri, significa essere fratelli, e Papa Francesco ce lo ha dimostrato!

Edda CattaniSpontaneità e tenerezza
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Il rapporto viventi di oggi e di ieri

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Il rapporto tra i viventi di oggi e di ieri

(Padre A.Gentili a Cattolica 2013)

 

Cari amici, care amiche,

 

Per dirla con papa Giovanni Paolo, il nostro Convegno può essere considerato come uno dei moderni “Areopaghi” (ricordate quello di Atene dove san Paolo “predicò”?), in cui convengono non soltanto “curiosi”, ma soprattutto sinceri ricercatori di senso, ed è chiaro che la più convincente risposta agli enigmi e ai misteri della vita viene dal di dentro di noi stessi, sia pure provocata o sollecitata da eventi esterni. Per questo mi auguro che i nostri convegni bilancino sempre meglio i due aspetti suddetti, e sempre per questo mi auguro sinceramente – ed è anche una proposta che mi permetto di avanzare – che durante simili convegni si inserisca per tutti, all’inizio o alla fine degli incontri plenari un esercizio di meditazione, poiché questa è la via che conduce direttamente a quelle profondità interiori di cui vi ho detto poco sopra. Chi di voi ha potuto partecipare all’esercizio che abbiamo compiuto la prima sera, ricorderà come la meditazione si inserisce a pieno titolo nel contesto di iniziative come quelle del MdS e di quanti vi appartengono o lo frequentano. Infatti – come si diceva – la meditazione

– è una pratica che ci ricentra e ci guarisce sotto ogni profilo;

– ci consente un massimo di comunicazione profonda con i viventi nei due mondi terreno e ultraterreno ed è di enorme vantaggio a entrambi gli abitatori;

– ci situa al di qua della morte, in quanto risanatrice e riequilibratrice (come il sonno!) della nostra persona sotto il triplice aspetto fisico, psichico e spirituale; e ci situa al di là della morte poiché anticipa la condizione del dopo-morte in quanto ci fa percepire simultaneamente l’eclissarsi del corpo, del quale in certo senso si perde la percezione, e l’emergere dell’anima o del nostro io profondo o della dimensione spirituale che dir si voglia.

 

Invocando su di voi e sui vostri cari la benedizione del Signore, vi porgo un affettuoso saluto,

 

p. Antonio Gentili

 

Campello sul Clitunno, 25 settembre 2013

 

 

Il rapporto tra i viventi di oggi e di ieri come “compresenza” degli uni con gli altri

 

 

Due mondi che sembrano escludersi, data la (apparente) incomunicabilità, quello dei viventi e quello dei cosiddetti morti. Le antiche visioni consideravano la morte l’altra faccia della vita, si direbbe il suo rovescio, e il regno dei morti alla stregua di un luogo di tenebra. L’inestirpabile anelito verso un oltre che infrangesse la barriera della morte, era pagato al prezzo o di una mutilazione dell’essere umano privato della sua dimensione corporea o di una liberazione dal corpo ritenuto un ospite temporaneo dell’anima in ordine alla sua evoluzione, oppure un gravame passeggero finalizzato alla sua purificazione.

 

In quest’ottica, i morti erano ritenuti una sorta di larve e il rapporto con essi più legato al ricordo che ne conservavano i viventi che a una vera comunione reciproca. A simile visione si è opposto, con illuminanti considerazioni, una singolare figura di intellettuale e nel contempo di militante della pace all’insegna della non-violenza gandhiana: Aldo Capitini, promotore fra l’altro delle celebri “Marce della pace” che annualmente si svolgono da Perugia ad Assisi, delle quali si è di recente celebrata la cinquantesima edizione. Nativo di Perugia e morto quasi settantenne quarantacinque anni or sono, Capitini fu il teorico della “religione aperta”, ossia di una visione religiosa disancorata da ogni riferimento istituzionale (arrivò a chiedere la cancellazione del suo battesimo!) e finalizzata a cogliere la ragione profonda che lega l’umano al divino.

 

 

Compresenza

 

Aldo Capitini ritiene che si possa sperimentare di fatto e concretamente un rapporto con i defunti – ben al di là di discutibili prassi divinatorie – che egli racchiude nel concetto di “compresenza”. Sulla scorta delle sue riflessioni ci chiediamo come si possa giungere a percepire tale compresenza, a farne la nostra stessa esperienza.

La risposta – egli sostiene – è possibile soltanto in una visione religiosa che abbraccia simultaneamente i due mondi di cui si diceva: quello terrestre e l’oltretomba. Capitini considera la morte come denuncia della finitudine umana e appello verso un aldilà “religioso” che ci trascende, per cui ritiene che la protesta di fronte all’ineluttabilità della morte sia più religiosa di una scontata accettazione.

E infatti la religione di sua natura è in stretto rapporto con il problema della morte in tutte le epoche e in tutti i luoghi, e nel contempo la religione si misura con la morte nella persuasione della sua fine, ossia del superamento di un simile evento. Con espressione quanto mai pregnante, Capitini afferma che la vita religiosa supera la morte perché la interpreta, l’anticipa e la risolve. Interpreta significa che ne sa cogliere il senso in una visione dell’uomo che abbraccia presente e futuro come due “tempi” non in contrasto ma in successione. La anticipa, in quanto ne ravvisa la presenza all’interno stesso della vita, come ci ricorda il poeta: “La morte si sconta vivendo” (Salvatore Quasimodo). Possiamo anzi dire di più, seguendo gli insegnamenti tradizionali che parlano di “grande morte” o di “morte mistica”, della quale il giusto muore prima di morire ([Battista da Crema], Detti notabili, IV,28). E infine la risolve, in quanto la morte è accesso alla vita; è, secondo un aforisma egizio, la scala per vedere gli dèi.

 

 

 

Verso una realtà liberata

 

La religione, sostiene sempre il nostro autore, è impazienza di vivere il sacro, impazienza dell’attendere il fine, e la visione che si dischiude all’uomo religioso proietta la realtà presente, che definisce “finiente”, vale a dire prigioniera della finitudine, in una realtà futura liberata dai lacci della morte. Si tratta di un processo di affrancamento non soltanto dalla finitudine, ma anche dalla concomitante fallibilità che accompagna gli esseri umani nel corso della loro esistenza quaggiù.

Una comprensione religiosa della realtà ci rivela il limite dell’orizzonte terreno e proietta l’esistenza presente verso una meta che la trascende e nel contempo la invera, conferendole pienezza eterna. Per questo Capitini afferma, per un certo aspetto, che ogni essere che muore è un “martire”, un testimone dei limiti della realtà umana ed è uno che ne ha sofferto, consapevole che, a ben vedere, abitiamo in un immenso cimitero. Per un altro aspetto Capitini sostiene che chi è aperto religiosamente è “custode di presenza”, consapevole dell’unità che lega i due mondi dei viventi e dei trapassati e quindi capace di cogliere la compresenza.

In questo conteso egli ravvisa l’importanza del cristianesimo, la cui “rivoluzione” consiste nel considerare “apparente” la morte, in forza della vittoria che ne ha riportato Cristo con la sua risurrezione.

La visione cui conduce una “religione aperta” abbraccia gli eventi umani nella loro globalità inclusiva di presente e futuro, consente di uscire da un’esistenza chiusa entro limitati orizzonti, meccanica nel suo svolgersi e presuntuosa nella sua illusoria autosufficienza. Questa stessa visione, proiettandosi verso l’oltre della trascendenza, annuncia una realtà liberata dalla prigionia della morte, realtà che sarà costituita da un nuovo “corpo” individuale, da un nuovo corpo sociale e da un nuovo cosmo: i nuovi cieli e la nuova terra di cui ci parlano le Scritture ebraico-cristiane.

 

 

Esperienza dell’oltre

 

Siamo quindi sollecitati a orientare la vita da uno stato attuale “finiente” verso una condizione futura liberata. Capitini riconosce che simile tensione verso l’oltre può essere in qualche modo figurata e anticipata in alcune esperienze umane alla portata di tutti. In primo luogo, il sonno – che già i poeti definivano “della fatal quiete l’immagine” (Ugo Foscolo) – può essere ritenuto apertura verso l’oltre cui ci proietta la morte, che Walter Chiari considerava alla stregua di un sonno arretrato. La preghiera liturgica di Compieta ci familiarizza con una simile visione, per cui l’addormentarci è l’equivalente quotidiano del morire, del consegnarci nelle mani che ci hanno plasmato e che ci accolgono nel loro abbraccio amoroso.

In secondo luogo Capitini, da convinto pacifista secondo la dottrina gandhiana della non-violenza, ravvisa nell’assunzione del cibo un’apertura alla realtà liberata da ogni forma di sopraffazione, se ne riconosciamo la dimensione sacra traducendola in un corretto rapporto con gli alimenti e nel rispetto della natura che ce li offre. Di qui la sua scelta rigorosamente vegetariana.

E infine la sessualità. Se è vero che il suo esercizio, finalizzato alla ricomposizione dell’essere umano bipolare e alla conseguente procreazione, può essere considerato una rivalsa sulla morte, il suo superamento annuncia la futura realtà del Regno in cui le creature terrestri saranno trasformate in creature celesti. Ne segue, al dire di Capitini, la simpatia della religione per la castità che ci proietta in una realtà diversa da quella del mondo presente e imperitura.

Chiave di volta, secondo il Nostro, della religione aperta e della conseguente realtà liberata, è l’amore, che ispira sentimenti di pace con la morte del proprio corpo e con la morte di chi ci è caro. Citiamo a conferma quanto ebbe ad affermare in un discorso funebre del 2008 don Andrea Gallo, un “prete contro” come è stato definito, di recente scomparso: «Non è facile imparare a morire, non è facile obbedire fino alla morte e quindi fare obbedienza alla morte, non è facile fare di essa un dono d’amore», si tratti della propria morte o di quella altrui.

 

Antonio Gentili, 2013

 

Edda CattaniIl rapporto viventi di oggi e di ieri
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Se Dio è amore!

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Se Dio è amore!

Chi desidera procurare il bene altrui ha già assicurato il proprio. (Confucio)

E abbiamo avuto la grazia di averlo fra noi…il nostro Padre Alberto…qui a Padova a spezzare il pane della misericordia!

Non pensavo di potere avere questa opportunità… due giorni di approfondimento sulla figura di Pietro, così discussa eppure così pregna di speranza per tutti noi, coì fragili nella nostra fedeltà al Padre!

E' stato il momento più bello: il PERDONO e la CONDIVISIONE!

Padre Alberto Maggi con Vito Mancuso

Padre Alberto Maggi è un Frate presbitero dell'Ordine dei Servi di Maria operante nel Centro Studi Biblici di Montefano (AN) che ho conosciuto qualche anno fa tramite un caro amico e che ancora mi segue con preziosi consigli.

Di lui ci siamo già accupati con l'articolo postato : "La perdita della madre".

Il suo pensiero viene esposto in questo intervento che tutti noi possiamo prendere a conforto per quanto accade nel nostro quotidiano andare.   

1 luglio 1993. Sono di comunità a Misano adriatico e ricevo la visita di Fabio e di Guenda, di S. Agostino (Fe). Fabio lo conosco da ragazzo ed è cresciuto agli incontri biblici di Ronzano (Bologna). La visita ha uno scopo: mi annunciano l'intenzione di sposarsi. Lui si è laureato, ha già trovato il lavoro , ha la casa. Mi colpisce la sua affermazione (che tutti i genitori vorrebbero e dovrebbero… sentirsi dire) "Perché io voglio fare un matrimonio bello come quello di mamma e papà".

23 luglio 1993. Il datore di lavoro di Guenda l'invita a fare un piccolo volo sull'aeroplano, e Guenda invita anche Fabio. L'aereo cade e muoiono tutti. E anziché un matrimonio mi ritrovo a celebrare il funerale di entrambi…

23 luglio 2012. Mia sorella sta sgomberando la casa di mamma e mi telefona dicendo che ha trovato uno striscione contenente delle espressioni augurali per l'anniversario della mia ordinazione presbiterale… Mi viene la pelle d'oca… quello striscione l'aveva fatto Fabio e l'aveva appeso nel salone degli incontri per farmi una sorpresa! Quando da Ronzano andai a Gerusalemme, per non smarrirlo lo lasciai ai miei, ma poi con i vari traslochi non mi ricordavo più dove poteva essere.

E' solo un caso, una coincidenza, che questo striscione sia ricomparso nel 19° anniversario di Fabio o di Guenda, o, come io fortemente credo, è un loro segnale che sono sempre presenti e partecipi nella nostra vita?

Sono sempre più convinto che la morte non allontana i nostri cari da noi, ma li avvicina, e che se solo riusciamo a non piangerli come morti permettiamo loro di manifestarsi vivi e vivificanti nella nostra esistenza. Grazie Fabio, grazie Guenda!

 

 

 

Se Dio è amore, e non potere, non può essere comunicato attraverso la Legge o la Dottrina, ma solo mediante gesti che trasmettono vita. L'amore incondizionato però scandalizza, perché la gratuità sovverte l'ordine del potere su cui si fonda ogni società, compresa la società particolare chiamata "Chiesa". I "versetti pericolosi" narrano l'episodio dell'adultera: ci vollero tre secoli prima che questi undici scandalosi versetti di Luca trovassero ospitalità nel Nuovo Testamento e altri due per essere inseriti nella liturgia. Ma parlando del passato, Maggi allude al presente e suscita un vento di profetica ribellione contro una fatua spiritualità dell'apparire e del potere. Bibbia alla mano, ecco un viaggio capace di stravolgere il comune modo di guardare alle cose. Una rivoluzione nell'alfabeto dei sentimenti e nella cultura dei valori, che sostituisce l'amore alla forza, la misericordia al castigo, la generosità all'interesse. In Italia, dai tempi di David Maria Turoldo, nessuno riusciva a leggere con tale forza i testi sacri del cristianesimo.

"Roba da preti" significa a volte qualcosa riservato ad una speciale categoria di persone e comunque al di fuori delle possibilità della gente normale. Altre volte è offensivo: "roba da preti" è uguale a roba da sottosviluppati, oppure qualcosa di complicato, di astruso… in tutti i casi non appartenente alla sfera degli interessi delle persone comuni. Più grave ancora è quando questa espressione viene riferita al messaggio di Gesù. Per molti il vangelo è "roba da preti", qualcosa riservata a specialisti, che non vale la pena conoscere. Anche parecchi credenti ritengono che tante parti del vangelo siano indirizzate a particolari categorie di persone e il poco rimasto che li riguarda contengono formule da credere e precetti da osservare. Ma la "Buona Notizia è per tutti". Tutto il vangelo è per tutti. Il messaggio d'amore incondizionato da parte di Dio è rivolto a tutti gli uomini. Non è una proposta per preti, ma anche per i laici, per i santi come per i peccatori, per i giusti come per gli immorali e i disprezzati. Nessuno è escluso dall'invito alla pienezza di vita che Gesù fa.

"Beati i poveri", "beati gli afflitti", "beati gli affamati"… Quelle che dall'uomo comune vengono considerate disgrazie, o almeno situazioni di sofferenza dalle quali si fa tutto per uscire, nella predicazione della Chiesa vennero indicate come condizioni di grande privilegio nelle quali che si trovava doveva permanere felice, per assicurarsi la futura celeste ricompensa: "perché di essi è il regno dei cieli". E questa veniva chiamata la "buona notizia". Tale predicazione era inevitabilmente destinata a fallire. Quanti vivevano fuori da situazioni di povertà e afflizione si guardavano bene dall'entrare in queste categorie di "beati", e chi invece si trovava in queste condizioni faceva di tutto per venirne fuori, abbandonando ben volentieri povertà e beatitudine. La responsabilità della distorsione del messaggio evangelico, ancora una volta, va attribuito in parte alla approssimativa traduzione di un testo tanto importante per la vita del credente. Le beatitudini proclamate dal vangelo non sono una consolante litania per confortare i tribolati del mondo, ma il fattivo invito ad eliminare le cause della loro sofferenza. Gesù non incoraggia gli uomini alla rassegnazione passiva, ma chiede ai credenti di adoperarsi affinché non esistano più situazioni di infelicità. Non proclama beati i poveri, gli afflitti e gli affamati in quanto tali, ma perché queste loro situazioni di sofferenza verranno eliminate da parte della comunità dei credenti.

Nel Padre Nostro Gesù non insegna una formula, per quanto nobile, di preghiera, ma invita i suoi discepoli ad un impegno esistenziale, ponendo l'alternativa tra una preghiera egocentrica, basata sulla categoria del merito e della santificazione di sé e la preghiera espressione di amore per l'altro. Non un'orazione in più, ma un modo diverso di essere e di vivere. Mentre la religione esige una preghiera che distingua dalle altre religioni e divida dai non credenti, la fede proposta da Gesù chiede uno stile di vita che elimini distinzioni e separazioni: formula di accettazione di questa fede è il Pater, i cui contenuti sono talmente universali da poter essere fatti propri da qualunque uomo viva per il bene degli altri indipendentemente dal suo credo religioso.

 

"La fede è un dono di Dio" è la formula preferita dalle persone che non hanno fede. Infatti, se la fede è un dono di Dio, è dal Signore che dipende la quantità e la qualità di fede degli uomini. Se uno ha fede, non è lui il responsabile, ma Dio stesso che non gli ha fatto quel dono. Un dono normalmente più compatito che invidiato in chi ce l'ha, giacché molti ritengono che avere fede significhi dover accettare rassegnati i capricci della volontà divina o ei suoi sedicenti portavoce. Per questo si sente frequentemente l'espressione "Beato te che hai (tanta) fede!", che tradotto significa "Io me la cavo meglio senza". Le incertezze e i dubbi della fede sono l'oggetto di questo libro nel quale sono presentati i personaggi evangelici, da Elisabetta e Zaccaria a Maria di Magdala e Tommaso, accomunati dalla difficoltà di credere nel Dio di Gesù (dall'Introduzione).

La sindrome dei buoni sta nel sentirsi dalla parte giusta. Secondo i luoghi comuni i cattivi dovrebbero convertirsi per diventare buoni: invece, secondo il vangelo, tutti dobbiamo convertirci per diventare figli. Ma i cattivi paradossalmente seguono vie più facili. Quale spazio avrà il cristianesimo nel futuro? Le verità garantite non interessano più, le deleghe di coscienza hanno fatto il loro tempo e l'autoritarismo ha le armi spuntate. Immerso nell'inquietudine del nostro tempo, chi vuole somigliare a Gesù cerca umilmente di gestire la perplessità. Orfano ormai d'ogni religiosa certezza, ma ben consapevole di esser parte della famiglia divina, lavora con perseveranza e senza affanno per creare armonia e pace. Il cristianesimo sarà finalmente maturo quando i cristiani sapranno mostrare concretamente, nei gesti, il volto di Cristo senza neppure bisogno di nominarlo.

 

 

 

 

 

 

 

   Arrivederci Padre Alberto! … alla prossima… perché verrò a Montefano!!!

Edda CattaniSe Dio è amore!
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Gli occhiali delle lacrime

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Gli occhiali delle lacrime

 

 

 

Ci siamo trovati ancora una volta, con il Gruppo dei Genitori di Udine, condotti dalla Mamma di Vera,  a San Leopoldo a Padova, nella celletta di Padre Roberto per una giornata di meditazione, di ascolto e di preghiera. E’ diventato ormai un appuntamento atteso, anche se ritagliare qualche tempo mi riesce sempre più difficile, visti gli impegni del sabato dei miei due nipotini.

 

Ma questa volta c’era anche la coincidenza con la Festa di Pentecoste e si è potuto parlare di amore di Dio e “frutti” dello Spirito Santo…  San Paolo enumerò i nove "frutti" dell'azione dello Spirito Santo, in chi lo invoca e accoglie: « Il frutto dello Spirito è: amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo. »   (Galati 5,22)

 

Questi ultimi che vanno oltre i doni già assegnati dal Paraclito, sono il gioiello che Dio ci garantisce per vivere in piena consapevolezza la nostra vita di comunione cristiana.

 

Siamo entrati nella celletta a piedi scalzi con in mano ciascuno un sasso, simbolo dell’indurimento del nostro cuore, per pregare Dio di donarci un cuore nuovo … puro e generoso…

 

 

 

Padre Roberto ha voluto farci “assaporare” e “gustare” in tutta la bellezza l’infinitudine dell’amore di Dio che vuole ancor più di qualsivoglia immagine garantire a noi la Sua bontà e il perdono di ogni nostra mancanza o ingratitudine.

 

La manifestazione più evidente dello Spirito Santo è riportata nel racconto della Pentecoste (Atti degli Apostoli 2,1-11). Gli apostoli e Maria erano riuniti, quando lo Spirito Santo, come lingue di fuoco che si dividevano, si posò su ciascuno di loro. Gli apostoli poterono quindi predicare il vangelo in lingue che non conoscevano.

 

Padre Roberto ha voluto imporre le mani sul capo di ciascuno di noi affinché potessimo, anche tangibilmente, sentire quello che, nel suo senso primario significa "soffio", "aria", "vento", "respiro".

 

 

Poi, è intervenuto a nostro conforto con le parole di Papa Francesco nel commento al Vangelo proposto dalla liturgia del Martedì dell’Ottava di Pasqua che ci parla dell’incontro di Cristo risorto con Maria di Magdala.

 

 

 

 

 

La scena è quella raccontata dal Vangelo secondo Giovanni: la Maddalena piange presso il sepolcro perché il corpo del Maestro non c’è più. Maria di Magdala – osserva il Papa – è quella “donna peccatrice” che “ha unto i piedi di Gesù e li ha asciugati con i suoi capelli”, una “donna sfruttata e anche disprezzata da quelli che si credevano giusti”. Ma è la donna “della quale Gesù ha detto che ha amato molto e per questo i suoi tanti peccati le sono stati perdonati”. Tuttavia, questa donna – ha spiegato il Pontefice – ha dovuto “affrontare il fallimento di tutte le sue speranze”. Gesù, “il suo amore non c’è più. E piange. E’ il momento del buio nella sua anima: del fallimento”. Eppure, osserva il Papa – non dice: “Ho fallito su questa strada”: “semplicemente, piange”. “A volte, nella nostra vita – ha proseguito – gli occhiali per vedere Gesù sono le lacrime”. Adesso, la Maddalena annuncia questo messaggio: “Ho visto il Signore”. L’aveva visto durante la sua vita e ora ne dà testimonianza: “un esempio per il cammino della nostra vita”, afferma il Papa che aggiunge: “Tutti noi, nella nostra vita, abbiamo sentito la gioia, la tristezza, il dolore” ma “nei momenti più oscuri, abbiamo pianto? Abbiamo avuto quella bontà delle lacrime che preparano gli occhi per guardare, per vedere il Signore?”. Di fronte alla Maddalena che piange – ha detto ancora Papa Francesco – “possiamo anche noi domandare al Signore la grazia delle lacrime. E’ una bella grazia … Piangere per tutto: per il bene, per i nostri peccati, per le grazie, per la gioia, anche”. “Il pianto ci prepara a vedere Gesù". E il Signore – ha concluso il Papa – ci dia la grazia, a tutti noi, di poter dire con la nostra vita: "Ho visto il Signore", non perché mi è apparso, ma perché “l’ho visto dentro al cuore”. E questa è la testimonianza della nostra vita: “Vivo così perché ho visto il Signore”.

 

 

 

I Genitori di Udine hanno accompagnato e concluso la giornata con il canto di una “villotta” friulana dedicata alla Santa Vergine.

 

La villotta è una forma polifonica a tre o quattro voci su testo di vario metro, nata nel XV secolo e di origine friulana, c’è da fare una precisazione il friulano non si può dire che sia un dialetto perché con una legge del 1999 è diventato una delle lingue parlate in Italia, non si conosce però con precisione la sua origine.

 

Suspir da l'anime ( dialetto )

Testo di Antonio Chiaruttini

Melodia di Don Oreste Rosso

 

Suspir da l’anime dôlce Marie,

per me ligrie ca jù no jè

che vinci il gjubilo che o sin e o brami

cuant che ti clami Marute me!

Marute me, Marute me.

Marute o tenere paraule a dîle

Cusì zintile s’ingrope il cûr e di

dolcissime pâs mi s’inonde l’anime

monde d’afièt impûr.

Marute me, Marute me,

cuant che ti clami Marute me!

 

 

Traduzione

 

Sospiro dell’anima dolce Maria,

per me sei l’allegria che qua giù non c’è

e il giubilo che sento che bramo vince

quando ti chiamo Mammina mia,

Mammina mia.

Mammina mia è una parola tenera e gentile

quando si dice, che fa annodare il cuore

e una dolcissima pace m’inonda l’anima

mondandola d’impurità.

Mammina mia,

quando ti chiamo Mammina mia.

 

 

 

Grazie Padre Roberto! Grazie Maria!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                 

Edda CattaniGli occhiali delle lacrime
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Ti prego non lasciarmi!

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Ti prego non lasciarmi!

 

"La storia dell'umanità non è quella di una penosa risalita dopo una rovinosa caduta, ma un cammino provvidenziale verso un futuro pieno di promesse"

(Ireneo, Adversus haereses, lib. IV, 38).

 

Sarò a Modena in questi giorni per gestire un Seminario su un argomento importante: “Lutto traumatico: l’aiuto ai sopravissuti”. Dovrò raccontarmi e raccontare mettendomi in gioco, ancora una volta e non sarà semplice il trovarmi davanti a tante persone colpite da gravi perdite che attendono una chiave di lettura, una via d’uscita per superare la terribile impasse dell’abbandono e dell’allontanamento.

 

 

Le mamme di FB mi hanno scritto ringraziandomi, aggiungendo che sono una fonte inesauribile … ma non sanno cosa possa esservi dietro a tanta disponibilità … E’ vero … possiedo una formazione culturale  che mi aiuta, e, da tempo ogni giorno elaboro contenuti finalizzati ad un mio processo di crescita … Non si può dare agli altri senza aver fatto un lavoro su se stessi.

 

Cosa vorranno da me i presenti … soprattutto sanno cosa li aspetta? Non credo, perché nemmeno io so cosa sarò in grado di proporre … Le situazioni debbono maturare nel contesto di cui dovrò prendere atto, assaporando gli stati emotivi e soprattutto le condizioni dell’abbandono che li hanno creati.

 

 

Quando si perde una persona cara, si vive una delle esperienze più dolorose che la vita ci può offrire. Riuscire ad affrontare questo difficile evento essendo capaci di mantenere un buon equilibrio interiore non è semplice. Nel vivere il lutto ci si scontra con la caducità della vita e col senso d’impotenza che si prova quando ci si rende conto che non si può far niente per mantenere in vita la persona a cui siamo legati.

 

La  sofferenza,   che  trova  nella  morte  la  sua  più alta espressione, fa parte dell'esistenza umana storica, in quanto non è solo  morale,  ma è anche fisica  o è l'uno e l'altro insieme; perciò il senso della sofferenza non è altro che  il senso stesso della vita.

                                                                                 

Ma è sofferenza anche la condizione che ne deriva e porta all'isolamento  e, a volte all’allontanamento delle persone vicine,  quando appare evidente che molti non ti comprendono o ti deludono,  perciò non ti senti più apprezzato …  né apprezzato né capito … quando gli altri ti  dicono di "fare come tutti" perché non c’è nulla da fare e ti ritrovi solo con il tuo bagaglio di lacerazioni che  nessuno può o vuole condividere.

 

Le  reazioni  esteriori sono  identiche in tutte le situazioni, in tutti i contesti, in tutte le varianti culturali: tutte legate  al dolore e al lamento che sono le espressioni dello  sconforto provato di  fronte all'assurda  ed inspiegabile presenza, nella nostra esistenza, del dolore e del male.

   

Questa riflessione deduce, come atto conclusivo, che l'uomo non si abitua alla sofferenza ed è contro la sua stessa natura il pensare che lo possa fare.

 

Allora si dice che il dolore è un evento “temprante” e di crescita. In realtà non è la perdita di qualcosa o qualcuno, né la sofferenza a far bene, anzi, fanno male. Quello che può costituire un momento di crescita è il percorso di elaborazione, la creazione di una nuova forza che sia strumento di gestione e tolleranza alla sofferenza che la vita spesso comporta.

 

La  capacità di venirne fuori è quella che può proiettarci nel futuro. Solo allora la cicatrice si trasformerà e sarà un segno incancellabile dell’affetto che ci lega a quella situazione.

 

Dal lutto traumatico un progetto di VITA.Dal lutto traumatico un progetto di VITA.Dal lutto traumatico un progetto di VITA.

 

 

Resta la malinconia  di  chi rimane  e  riguarda questo perenne dualismo:  morte e  vita,  principio e fine, che sembrano essere  antitetici,  ma che,  in verità appaiono inscindibili e procedere uniformi,  salvo che il concetto di morte porta  con sé qualcosa di più sacro e solenne.

 

E anche quando cerchi di reagire, cambia  comunque  il  modo  di  essere,   di  pensare,   di  vivere la quotidianità dell'esistenza  che mentre trascorre  e si perpetua, in tutte le sue forme e si rinnova,  viene a connotarsi  anche in quella parte di me che cerca, arrabattandosi in vario modo … di sopravvivere.

 

Allora volgi lo sguardo attorno a te e se qualcuno si propone per darti una mano e sembra comprenderti ti abbarbichi a questa nuova forma di vita e chiedi: “Ti prego… non lasciarmi!” Ma le creature si stancano di te e del tuo leit-motiv sul dolore vissuto e prima o poi ti lasciano…

 

Questa  dimensione  esistenziale  profonda, quando ti rendi conto che non hai più nulla in mano in quanto anche l'ultimo degli ultimi non è niente e non colma il tuo vuoto, rappresenta la più radicale e tremenda crisi dell'amore. Con l’abbandono di tutto e di tutti se  ne  vanno  gli interessi, le  illusioni, i desideri, le pianificazioni, i progetti della vita.

 

La  caduta  dell'amore è terribile comunque: senza amare non si ama nemmeno se stessi. Tutto l'universo appare circonfuso da  una nebbia  che non ci  attrae;  viviamo  nel suo interno barcollando, senza riuscire a venirne fuori.

 

 

 

Ma oggi è il sabato che precede la lettura del Vangelo della VI° Domenica di Pasqua e fin da questa mattina Fra Benito ha scritto sulla sua bacheca di FB:

 

“.. nei Vangeli, tutti e quattro, non c'è scritta la parola speranza, mai .. gli apostoli non hanno bisogno di sperare: Gesù è lì con loro .. la speranza inizia con il corpo assente di Gesù .. la carne della speranza allora è rendere conto dei suoi sogni .. che sono i sogni della nostra carne .. un pane cotto con le nostre mani è la speranza .. che chiede in segreto la grazia di esistere … verrà l'alba .. verrà a risvegliarci col profumo di pane …”

 

Mi sono rallegrata e gli ho risposto:

 

“… la speranza e' nostra … nel profumo di questo pane fresco… Mi sono svegliata così … come quando la mamma faceva il pane della domenica nel forno di casa … Grazie fra Benito!”

 

E lui, il “servita comunista”  ha poi continuato esaltando ancor più la mia ricerca d’amore oltre ogni esistenza:

 

“.. padre Alberto (altro sacerdote contro-corrente) ci aiuta sempre a trovare luce .. è bellissimo il Dio di Gesù che con lo Spirito sacralizza l'uomo .. e cancella ogni ambito sacro al di fuori dell'uomo .. il Dio di Gesù non chiede devoti salmeggianti, ma uomini temerari, inseparabili dal messaggio d'amore del Vangelo .. se si ama l'Amore e la Parola, Dio è nell'uomo e l'uomo è in Dio …”

 

 

Ecco allora che penso di avere trovato la forza che mi farà parlare ai presenti a Modena … perché non sono una fonte arida … ma ho ricevuto dall’abbandono la forza per procedere senza nulla aspettarmi perché:

 

"Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui" (Gv 14,23).

 

“Questa di Gesù non è una promessa per l'al di là, ma la risposta del Padre a un comportamento tenuto in… questa vita (osservare la parola).

 

L'uomo aveva sacralizzato Dio. Mediante la comunicazione dello Spirito, Dio ora sacralizza l'uomo.

Non esistono ambiti sacri al di fuori dell'uomo. La sacralizzazione dell'uomo desacralizza tutto quel che veniva prima concepito come sacro. Dio non è più una realtà esterna all'uomo, e lontana da lui, ma interiore e ha un nome: Padre.”(P.Alberto Maggi)

 

L’adesione a Gesù è inseparabile dal suo messaggio d’amore all’uomo… e tutto il resto … anche la mia ricerca … e la mia caduta di senso … sono senza senso!

 

 

 

 

Dio, misteriosa presenza nascosta in ogni creatura,

ragione ultima del nostro cercare e sperare,

Padre di Gesù Cristo, il nostro fratello più caro,

il Giusto, nel quale hai rivelato la via della vita,

donaci di saper accogliere la tua parola

e di fare di tutta la nostra esistenza un canto;

e di camminare senza soste lungo la strada

che conduce al tuo volto e al tuo abbraccio.

Amen.

 

Edda CattaniTi prego non lasciarmi!
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