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Santi e Morti: tra storia e riti

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FESTIVITA’ DI OGNISSANTI – E – COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI.

E’ la festa cattolica di tutti i santi con la quale si sogliono onorare non solo i santi, iscritti nel Martirologio romano e nel calendario delle singole Chiese, ma tutti i trapassati che godono la gloria del Paradiso.

Di origine antica, la festività di Ognissanti, dapprima dedicata ai soli martiri, era celebrata, nelle varie Chiese, subito dopo la Pasqua; fu spostata, poi dopo la Pentecoste.

Il 13 maggio 609, con decorrenza 610, il Papa Bonifacio IV dedicò il Pantheon in onore

della Madre di Dio e di tutti i martiri e ogni anno se ne celebrava l’anniversario con grande solennità e largo concorso di pellegrini.

Da queste feste sembra derivare quella di Tutti i Santi, fissata al primo di novembre dell’anno 835 dal Papa Gregorio IV.

Più tardi, nel 998, Odilo abate di Cluny aggiungeva la celebrazione, nel giorno seguente, della festa di tutte le anime a soddisfare l ‘aspirazione generale per un giorno di commemorazione dei morti.

 

Nell’antico e colorito, ma realistico, mondo contadino esiste un proverbio legato al primo giorno del mese di novembre: Ognissanti, manicotti e guanti, la comparazione è chiara: comincia la stagione fredda.

 

 1 e 2 Novembre – Ognissanti e il giorno dei morti

Poesie di Vincenzo Cardarelli

Santi del mio paese

 

Ce ne sono di chiese e di chiesuole,
al mio paese, quante se ne vuole!
E santi che dai loro tabernacoli
son sempre fuori a compiere miracoli.
Santi alla buona, santi famigliari,
non stanno inoperosi sugli altari.
E chi ha cara la subbia, chi la pialla,
chi guarda il focolare e chi la stalla,
chi col maltempo, di prima mattina,
comanda ai venti, alla pioggia, alla brina,
chi, fra cotanti e così vari stati,
ha cura dei mariti disgraziati.
Io non so se di me qualcuno ha cura,
che nacqui all’ombra delle antiche mura.
Vien San Martino che piove e c’è il sole,
vedi le vecchie che fanno all’amore.
Rustico è San Martin, prospero, antico,
e dell’invidia natural nemico.
Caccia di dosso il malocchio al bambino,
dà salute e abbondanza San Martino.
Sol che lo nomini porta fortuna
e fa che abbiamo sempre buona luna.
Volgasi a lui , chi vuol vita beata,
in ogni istante della sua giornata.
Vien Sant’Antonio, ammazzano il maiale.
Col solicello è entrato carnevale.
L’uomo è nel sacco, il sorcio al pignattino,
corron gli asini il palio e brilla il vino.
Viene, dopo il gran porcaro,
San Giuseppe frittellaro,
San Pancrazio suppliziato,
San Giovanni Decollato.
E San Marco a venire non si sforza,
che fece nascer le ciliege a forza.
E San Francesco, giullare di Dio,
è pure un santo del paese mio.
Ce ne sono di santi al mio paese
per cui si fanno feste, onori e spese!
Hanno tutti un lumino e ognuno ha un giorno
di gloria, con il popolino intorno

 

Il giorno dei morti fu ufficialmente collocato alla data del 2 Novembre nel X sec. d.c. circa, praticamente fondendosi con il 1 Novembre, già festa di ognissanti dall’anno 853, per sovrapporsi alle più antiche celebrazioni di quei giorni.

Tra il popolo comunque, le vecchie abitudini furono adattate alla nuova festa e al suo mutato significato, mantenendo la credenza che in quei giorni i defunti potevano tornare tra i viventi, vagando per la terra o recandosi dai parenti ancora in vita.

In tutta italia si possono ancora oggi ritrovare gesti e pratiche tradizionali per la celebrazione di queste feste.

Riti popolari per i defunti – Cibo tradizionale

 

In quasi tutte le regioni possiamo trovare pratiche e abitudini legate a questa ricorrenza. Una delle più diffuse era l’approntare un banchetto, o anche un solo un piatto con delle vivande, dedicato ai morti.

 

Qualche esempio caratteristico.

 

In Abruzzo si decoravano le zucche, e i ragazzi di paese andavano a bussare di casa in casa domandando offerte per le anime dei morti, solitamente frutta di stagione, frutta secca e dolci. Questa tradizione è ancora viva in alcune località abruzzesi.

Diffusa è anche l’usanza della questua fatta da schiere di ragazzi o di contadini e artigiani che vanno di casa in casa cantando un’appropriata canzone.

A Pettorano sul Gizio (Abruzzo) essa suona così:


Ogge è lla feste de tutte li sande:
Facete bbene a st’aneme penande

Se vvu bbene de core me le facete,
nell’altre monne le retruverete.

 

In Calabria, nelle comunità italo-albanesi, ci si avviava praticamente in corteo verso i cimiteri: dopo benedizioni e preghiere per entrare in contatto con i defunti, si approntavano banchetti direttamente sulle tombe, invitando anche i visitatori a partecipare.

 

In Emilia Romagna nei tempi passati, i poveri andavano di casa in casa a chiedere la carita’ di murt, ricevendo cibo dalle persone da cui bussavano.

In Friuli – a quanto informa l’Osterimann – i contadini lasciano un lume acceso, un secchio d’acqua e un po’ di pane sul desco. E’ il motivo che ispira la già ricordata poesia del Pascoli La tovaglia, dove la sensazione della presenza dei morti nella casa, nel silenzio della notte, è resa in maniera oltremodo commovente e suggestiva:


Entrano, ansimano muti:
ognuno è tanto mai stanco!
e si fermano seduti
la notte, intorno a quel bianco.

Stanno li sino a domani
col capo tra le mani,
senza che nulla si senta
sotto la lampada spenta.

Sempre in Friuli, come del resto nelle vallate delle Alpi lombarde, si crede che i morti vadano in pellegrinaggio a certi santuari, a certe chiese lontane dall’abitato, e chi vi entrasse in quella notte le vedrebbe affollate da una moltitudine di gente che non vive più e che scomparirà al canto del gallo o al levar della bella stella.

A queste credenze s’ispira uno dei più significativi racconti di Caterina Percoto, la ben nota scrittrice friulana, che tanti motivi trasse dal folklore della sua terra.

Questa presenza dei morti, avvertita con un’intensità che raggiunge la potenza di una visione, è però sempre associata, nella mentalità popolare, all’azione benefica e alla speranza nella beatitudine eterna.

In Lombardia abbiamo invece gli oss de mord, o oss de mort, fatti con pasta e mandorle toste, cotti al forno, di forma bislunga, con vago sapore di cannella in particolare:

A Bormio, la notte del 2 novembre si era soliti mettere sul davanzale una zucca riempita di vino e, in alcune case, si imbandisce la cena.

Ma anche nel Vigevanasco (Vigevano) e in Lomellina si suole mettere in cucina un secchio (l’acqua fresca, una zucca di vino, piena, e sotto il camino il fuoco acceso e le sedie attorno al focolare

A Comacchio c’e’ invece il punghen cmàciàis, il Topino Comacchiese, dolce a forma di topo preparato in casa

  

In Piemonte, si soleva per cena lasciare un posto in più a tavola, riservato ai defunti che sarebbero tornati in visita.

In Val d’Ossola sembra esserci una particolarità in tal senso: dopo la cena, tutte le famiglie si recavano insieme al cimitero, lasciando le case vuote in modo che i morti potessero andare lì a ristorarsi in pace. Il ritorno alle case era poi annunciato dal suono delle campane, perchè i defunti potessero ritirarsi senza fastidio.

In Puglia la sera precedente il due novembre, si usa ancora imbandire la tavola per la cena, con tutti gli accessori, pane acqua e vino, apposta per i morti, che si crede tornino a visitare i parenti, approfittando del banchetto e fermandosi almeno sino a natale o alla befana.

Sempre in Puglia, ad Orsara in particolare, la festa veniva (e viene ancora chiamata) Fuuc acost e coinvolge tutto il paese. Si decorano le zucche chiamate Cocce priatorje, si accendono falò di rami di ginestre agli incroci e nelle piazze e si cucina sulle loro braci; anche qui comunque gli avanzi vengono riservati ai morti, lasciandoli disposti agli angoli delle strade.

Diffusa è anche l’usanza della questua fatta da schiere di ragazzi o di contadini e artigiani che vanno di casa in casa cantando un’appropriata canzone.

Questa costumanza in Puglia si chiama senz’altro cercare l’aneme de muerte e si apre con questa specie di breve serenata rivolta alla massaia:


Chemmare Tizie te venghe a cantà
L’aneme de le muerte mò m’a da dà.
Ah ueullà ali uellì
Mittete la cammise e vien ad aprì.


La persona a cui è rivolta la canzone di questua si alza, fa entrare in casa la brigata ed offre vino, castagne, taralli ed altro.

 

In Sardegna  dopo la visita al cimitero e la messa, si tornava a casa a cenare, con la famiglia riunita. A fine pasto però non si sparecchiava, lasciando tutto intatto per gli eventuali defunti e spiriti che avrebbero potuto visitare la casa durante la notte. Prima della cena, i bambini andavano in giro per il paese a bussare alle porte, dicendo: <<Morti, morti…>> e ricevendo in cambio dolcetti, frutta secca e in rari casi, denaro.

  

In Sicilia c’e’ l’usanza di preparare doni e dolci per i bambini, ai quali viene detto che sono regali portati dai parenti trapassati. I genitori infatti raccontano ai figli che se durante l’anno sono stati buoni e hanno recitato le preghiere per le anime dei defunti, i morti porteranno loro dei doni.

Dolci Tradizionali

In Sicilia troviamo la mani, un pane ad anello modellato a forma di unico braccio che unisce due mani, e il pane dei morti, un pane di forma antropomorfa che originariamente si suppone fosse un’offerta alimentare alle anime dei parenti morti

 

Le strenne.

In Sicilia, le anime dei morti, il 2 novembre, recano i doni ai bimbi, doni che vengono appunto chiamati cose dei morti.

 Per ottenerli, i bimbi recitano questa preghiera:



Armi santi, armi santi (= anime sante)
Io sugnu unu e vuatri siti tanti: (
= io sono uno e Voi siete tante)
Mentri sugnu ‘ntra stu munnu di guai
Cosi di morti mittiminni assai

cose dei morti, cioè regali, mettetemene assai; s’intende nella scarpetta o nel cestello che i bimbi lasciano la sera appesa alla finestra o a capo del letto.
E i morti scendono a schiere bianche e spettrali, entrano in chiesa, assistono alla prima messa, poi si dirigono alle loro case a ritrovare i loro cari. L’ingenua fantasia del popolo li vede.

A Palermo una antica tradizione, legata alla festa dei morti, voleva che i genitori regalavano ai bambini dolci e giocattoli, dicendo loro che erano stati portati in dono dalle anime dei parenti defunti. Di solito per i maschietti si usava donare armi giocattolo, alle bimbe: bambole, passeggini, assi da stiro, fornelli. I più facoltosi regalavano tricicli e biciclette fiammanti. Al mattino si trovava il regalo nascosto in un punto insolito della casa, nella notte tra l’1 e il 2 novembre. La sera prima si nascondeva la grattugia perché si pensava che i defunti, a chi si fosse comportato male, sarebbero andati  a grattare i piedi! 

  La festa ha un origine e un significato che si collegano al banchetto funebre, di cui si ha ancora un ricordo nel consulu siciliano , il pranzo che i vicini di casa offrivano ai parenti, dopo che il defunto era stato tumulato.

  Celebri tra questi dolci sono quelli a forma umana, quali i pupi ri zuccaru detta Pupaccena: una statuetta cava fatta di zucchero indurita e dipinta con colori leggeri con figure tradizionali (Paladini, ballerini ed altri personaggi del mondo infantile) o di pasta di miele o i biscotti detti ossa ri muortu o “u pupu cu l’ovu”.

 

Tipici sono la tradizionale muffulietta, un tipo particolare di pane (spugnoso e morbido) con poca mollica che si conza (si prepara) con OLIO, ACCIUGA, ORIGANO, SALE E PEPE con la variante del POMODORO fresco.  I frutti di martorana, fatti con pasta di mandorle e poi dipinti, sono spesso vere opere d’arte per la straordinaria somiglianza a quelli veri: nespole, castagne, pesche, fichidindia, arance e tanti altri che riempiono, associati al misto (u ruci mmiscu): il dolce misto fatto da rimasugli di biscotti impastati una seconda volta, bianco per la velatura di zucchero e marrone per la presenza di cacao; U CANNISTRU, con frutta secca, fichi secchi e datteri e che riempie la base , la martorana e i biscotti, ‘a MURTIDDA e il tutto sormontato dalla Pupaccena. Per renderlo più scintillante bastava aggiungere dei cioccolattini con carta stagnola e filamenti di carta di diversi colori. a Palermo si svolge La Fiera dei Morti: bancarelle offrono ai vari visitatori nonché ai genitori l’opportunità di potere acquistare giocattoli, vestiario, dolciumi di ogni genere per preparare il tradizionale Cannistru.

In Cianciana (Sicilia) escono dal Convento di S. Antonio de’ Riformati; attraversano la piazza e arrivano al Calvario: quivi, fatta una loro preghiera al Crocefisso, scendono per la via del Carmelo.

E’ nel passaggio appunto che lasciano i loro regali ai fanciulli buoni.
Nel viaggio seguono questo ordine: vanno prima coloro che morirono di morte naturale, poi i giustiziati, poi i disgraziati, cioè i morti per disgrazia loro incolta, i morti
di subito, cioè repentinamente, e via di questo passo.

In Casteltermini (Sicilia) il viaggio è ogni sette anni, e i morti lo fanno attorno al paese, lungo le vie che devono percorrere le processioni solenni

  

LE FAVE

 

Cibo di rito per la ricorrenza dei morti sono le fave.

Secondo gli antichi – dice il Pitrè – le fave contenevano le anime dei loro trapassati: erano sacre ai morti. Presso i Romani avevano il primo posto nei conviti funebri.

Anche quest’uso fu dalla pietà cristiana portato sopra un piano più alto e riempito di un nuovo significato: poiché le fave, o anche i ceci lessi, in capaci bigonci venivano posti agli angoli delle strade e ciascuno vi poteva attingere a volontà. S’intende che più vi attingevano i poveri. Ancora oggi in Capitanata (Puglia) molte famiglie cuociono in grosse caldaie notevoli quantità di ceci o di grano, che condiscono col succo degli acini di melograno, e ne offrono dei piatti ai poveri in suffragio delle anime dei defunti. Ora le fave dei morti sono, di regola, sostituite con dolci di egual nome, e di foggia più o meno simile.

 

In Veneto le zucche venivano svuotate, dipinte e trasformate in lanterne, chiamate lumere: la candela all’interno rappresentava cristianamente l’idea della resurrezione.

 

 

 

 Per i contenuti di questa pagina ringraziamo i siti ed i libri:

(Estratto da: Paolo Toschi, Invito al folklore italiano, Studium, Roma)

Da http://www.palermoweb.com/

www.correrenelverde.it

 da cui abbiamo preso molte notizie.

 Vedi anche:

http://www.grifasi-sicilia.com/festedeimorti.html

 

 

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LA MATRIARCA

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LA  MATRIARCA

(VALE LA PENA UNA RIVISITAZIONE DEL 2011)

Ovvero: Anche le Nonne hanno un Angelo di Luce. Auguri Nonna Lina!

L’avevano chiamata “Natalina”, forse in onore del nonno “Natale” o, forse, perché a quei tempi, i riferimenti alle grandi festività religiose sembravano portare bene. Così era cresciuta Natalina che tutti chiamarono, fin dall’inizio, Lina e che aveva conosciuto il suo intero nome solo quando fu iscritta alla prima elementare.  Crebbe intelligente, brava ed operosa e frequentò le scuole fino alla settima classe quando il padre  perse ogni avere, a seguito di un’alluvione e la famiglia, costretta a lesinare ogni spesa, mandò Lina ad imparare un mestiere. Fu indirizzata alle migliori sarte dove, allora, si pagava per imparare. “Quanto ho lavorato e quanto ho imparato!” era solita dire.

Così divenne maestra a sua volta, dopo essersi rimboccata le maniche per far fronte al bisogno. La sua mamma era morta giovanissima e Lina dovette pensare alla sorellina orfana, al padre ormai ammalato, alla casa, al fratello maggiore. Furono anni duri, ma lei, sempre a testa alta, trovava conforto nel lavoro e nell’opera preziosa delle sue mani che sapevano, da uno scampolo di stoffa, ricavare meravigliose creazioni che poi indossava. Erano abiti a balze, con leggere sfumature ed intarsi, che poi giunse ad esibire, quando, ormai giovane donna, cominciò a frequentare La Saca, il Circolo cittadino, dove si ballava. Fu lì che conobbe un bel giovane, povero quanto lei, dal nome Lino, un diminutivo come il suo.

E Lina continuò a lavorare sempre, senza sosta, per provvedere alla famiglia che si era costruita. Lavorava e guardava ancora avanti, dritta, altera, volonterosa ed orgogliosa di farsi ammirare per le sue doti non indifferenti di intelligenza, di caparbietà e di coraggio. Poi ci fu la guerra, la seconda grande guerra e tutti rimasero senza un tetto e Lino, con un carretto di suppellettili, condusse la giovane moglie e la loro bambina in campagna per essere protetti dalle terribili incursioni aeree.

Lina era giovane e bella e le piaceva vestire come la figlioletta, con vesti colorate e arricciate; allegra e fiduciosa, cantava le festose musiche dell’epoca: operette e lirica. Lei cantava e Lino ballava, per non pensare alla disoccupazione, alla miseria, alla fame. Poi nacque un altro bimbo, Pietro, che fu accolto da tutti con grandi aspettative, ma Lina fu costretta lungamente al riposo. Sembrava non doversi rialzare, ma come una quercia colpita e non abbattuta, seppe rinverdire, per amore dei suoi cari, incurante del passare dei venti impetuosi e, guardando sempre avanti, seppe  costruire, un poco alla volta, l’avvenire e la sicurezza della famigliola.

Non durò a lungo questo stato di grazia; ben presto Lino, il suo fedele, adorato compagno la lasciò e tutto sembrò crollare. Lina lo vide sfinirsi giorno dopo giorno. Come una belva ferita si chiuse in quel nuovo dolore più grande di lei e si avvitò intorno a quella spina dorsale troppo eretta per guardare anche a terra, più in giù, più in basso, finché non si rese conto di avere ancora dei doveri da compiere. Le era accanto il figlio, il suo adorato Pietro, che doveva ancor crescere e ne fece quello che fu il suo orgoglio: “il suo  ingegnere”.

La figlia era lontano ormai, in un’altra città ed aveva avuto delle splendide creature. Quella figlia ero io e Lina era mia madre, la nonna dei miei figli. Perché non dobbiamo parlare mai delle nonne? Perché dobbiamo pensare che le gioie ed i dolori siano patrimonio esclusivo delle madri?

Lina non era stata una nonna come le altre. Andrea la chiamava “la nonna sprint”, ma la ammirava e la ricordava spesso. Nonna Lina l’aveva portato a passeggio durante il soggiorno al mare, l’aveva cullato quando, dopo un’ennesima corsa ed una risata, si addormentava nelle sue braccia;  l’aveva ammirato nella sua figura statuaria, con la divisa da ufficiale, quando era cresciuto tanto da sovrastarla, tenendola sotto l’ascella. Lei lo guardava alzando lateralmente la testa e gli diceva: “Ma Andrea, non ti riconosco più! Ti ricordi quando ti portavo a passeggio e ti cantavo la ninna-nanna?”

Andrea le sorrideva, con quell’espressione serena che aveva sempre, con quella tenerezza che sapeva usare con le cose fragili… la sua nonna che sembrava essere una porcellana di bisquit. Lui l’avrebbe protetta, lui sarebbe andato da lei, ora che aveva la patente. Si erano visti poco negli ultimi tempi, ma Nonna Lina riscuoteva la sua ammirazione perché ancora accentrava l’attenzione di tutti; lei sapeva, all’occorrenza, guidare, con autorità e competenza, la barca di tutta la famiglia. La Matriarca era lei, capace di comandare a tutti, di pagare chi doveva accudirla, di farsi servire e rispettare.

La chiamavano Signora Lina ora, ed era persona nota e degna di stima. Aveva raggiunto, con il conquistato benessere economico, la soddisfazione di poter dire: “Queste sono le mie opere, il frutto del mio lavoro: la mia bella famiglia, la mia casa, le mie creature…!”. 

Ma un mattino il risveglio fu triste come mai era avvenuto. Qualcuno fu incaricato di dirle che Andrea se ne era andato, era andato via per sempre. Lina ruggì forte allora, impotente, questa volta, a far fronte all’ineluttabile. Non fu tanto il nipote che le venne a mancare, ma l’opera migliore della sua vita, il “figlio della figlia”. Questo no, questo non poteva, non doveva essere; questo era davvero troppo.

Lina non ebbe più nulla da dire, più niente da dimostrare. A  nulla erano valsi il suo operato, le sue sofferenze, i sacrifici, le lotte… tutto per i figli… i figli. Ed ora i figli dei figli. Si chiuse in casa, lasciò il lavoro, le chiacchiere a confronto delle ricchezze avute, l’ostentazione della bellezza e del benessere. Più giù, sempre più in basso; non fu più capace di levare lo sguardo da terra e cominciò ad incurvarsi tanto da non essere più in grado di alzare gli occhi.

Troppo in alto aveva guardato, troppo grandi gli spazi ove aveva mirato il suo ardire. “Signore, quando sarò di là, tu ne avrai da dire a me; ma io ne avrò da dirti…” e scuoteva la mano in aria, convinta di avere diritto di dire le sue ragioni anche al Padre Eterno. Ma Andrea era nell’aria, ormai, e Nonna Lina sapeva chiamarlo.

Chi ha detto mai che i giovani stabiliscono il contatto prima di tutto con le madri? Nonna Lina ne prese la foto della Prima Comunione e la mise su una mensola. Ogni sera lo salutava, prima di andare a letto ed ogni mattina la foto era girata nel verso opposto. Andò avanti giorno dopo giorno, rimettendola a posto, convinta più che mai che Andrea volesse, con quel segno esclusivo, noto a lei sola, salutarla. Imparò ad accorgersi di ogni particolare, ad avvertire ogni indizio, e, con la sensibilità che si accentuava,  a dare conforto a chi soffre, a sgranare il Rosario pregando la Madonna, ad invocare l’aiuto del Santo delle stimmate, Padre Pio.

Ora Nonna Lina è ancora più curva. Sembra toccare a terra, alcuni giorni. Lei, avvezza a guardare in alto e avanti, deve seguire i passi, sempre meno spediti, delle sue pantofole. E’ abbassato l’occhio, ma è vigile l’orecchio della Matriarca, pronto a cogliere i sospiri, gli affanni, le preoccupazioni dei figli. E’ lei ancora, piccolo fagotto di lana opalescente, dalle rosate sfumature, dallo voce tremula a volte e dalle mani carezzevoli, a seguire, trepida, i nostri passi.

Ora Nonna Lina legge l’Aurora e parla dei Figli di Luce e della loro dimensione di cui crede di avere una priorità per “diritto di nascita”. Lei dice che, ne è certa, quando verrà l’ora in cui dovrà lasciare questa terra, gli Angeli di Luce le andranno incontro, con tutti i suoi cari che l’hanno preceduta nella dimensione eterna.

E chi può dubitare che, fra tutti e prima degli altri, non ci siano proprio Loro, i Ragazzi di Luce, con il nipotino Franco, i giovani delle Mamme della Speranza e il mio Andrea che, davanti a Loro, sarà il primo a correre ad abbracciare e ad accogliere la sua Nonna Sprint?

E Lina, tornata giovinetta, nella sua veste rossa a fiori e balze, lo stringerà sul cuore, in quella dimensione in cui le distanze si annullano, gli anni non esistono e gli affetti della nostra vita terrena si ritrovano nel perenne amplesso dell’amore di Dio.

 

Edda CattaniLA MATRIARCA
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Spighe lasciate al sole

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Spighe lasciate al sole

 

 

Già dai primi anni ricordo il mio risveglio in una stanza fredda, con la sveglia vibrante in modo enorme per le mie piccole dimensioni e, sulla mensola, una mezza tazza di latte dove papà, prima di andare al lavoro, aveva messo un granellino di sale…”…vedrai Gagì che la sentirai dolce…”  ma per me sapeva sempre di sale. Poi scendevo dal lettone dove avevamo dormito tutti insieme, mi vestivo con il cappotto ormai stretto e sdrucito e mi caricavo sulle spalle la pesante cartella di cuoio. Chiudevo la porta dal cui soffitto scorgevo la luce (il tetto era bucato e c’era da augurarsi che non piovesse mai …. altrimenti ci si metteva la bacinella sotto… e si dormiva sentendo il gocciolare implacabile dell’acqua piovana).


 

Iniziavo il mio cammino scendendo quegli alti quaranta gradini…. (li avevo contati tante volte e per le mie piccole gambe non finivano mai), poi la lunga strada e l’affanno per il percorso interminabile che conduceva alla vecchia scuola allocata in un vecchio palazzo diroccato, dove mi aspettavano altre scale. Ciò che maggiormente mi creava ansia era la presenza di un “gendarme” ….un’anziana bidella che era implacabile con i ritardatari ed io, data la distanza, ero spesso fra quelli. Allora venivo accompagnata dalla direttrice che indossava un grembiule nero e che mi diceva di mostrare le mani… a quel punto un colpo secco non me lo risparmiava nessuno…. Ma poco dopo… almeno, il dolore era passato.


 

Il ritorno a casa non era allegro, specialmente d’inverno quando non mi aspettava un pasto caldo e una casa tiepida, ma dovevo arrangiarmi ad accendere la stufa a segatura (non senza qualche piccolo incidente), poi riordinavo la casa e preparavo qualcosa per i miei genitori che sarebbero tornati dal lavoro la sera tardi. La parte bella del pomeriggio era quando venivo raggiunta dalle mie amichette dei cortili vicini, meschine come me, alle quali davo ciascuna una bella fetta di pane… Eh sì…anche questa era il frutto sudato del mio babbo che andava la notte nei campi a “spigolare” raccogliendo le spighe rimaste a terra, poi con mamma le battevano sul tavolo della cucina e i chicchi venivano macinati con il macinino a manovella del caffè… mamma con la farina setacciata ne faceva una pagnotta che doveva durare tutta la settimana. In verità questo non avveniva perché io la distribuivo a tante creature, misere come me …. Ma quando mamma se ne accorgeva non mi risparmiava il famoso “tiro della ciabatta” mentre io scappavo a nascondermi.

 

Era solitudine la mia? No… la mia fantasia inventava, fate, principi e castelli e sapevo volare pensando ai tempi felici in cui avrei visto tante cose e goduto di tanta appagamento.

Questa condizione può viverla un bambino, ma per l’adulto la solitudine è una condizione, un sentimento umano nella quale l’individuo si isola per scelta propria, a volte per vicende personali e accidentali di vita, come è il caso di tante persone colpite da malattie o lutti gravi. Alle volte si viene isolati dagli altri esseri umani dando luogo ad un rapporto non tanto soddisfacente con se stessi.

Saudade (AM.G)

e guardare il mare
con lo sguardo perso in quella pozza di oro colato
guardare il mare
e sentire dentro, prepotente, 
la voglia di partire.

Saudade 
dolorosa e dolcissima, 
tristezza che non fa solo male, 
piacere che non fa solo bene
desiderio agrodolce, soave nostalgia
compagna della solitudine, 
amica dell’amore
uno squarcio di passione, 
una lieve tenerezza, 
un momento di affetto 
presenza dell’assenza.

Saudade 

e sentire il cuore cantare la melodia di un nome
vivere il SOGNO 
come una danza lenta alla quale vuoi solo abbandonarti
ad occhi chiusi
ad occhi aperti.

 

Ma ciascuno di noi viene al mondo per condividere, per spezzare il pane come facevo io da piccola e anche in condizione di solitudine è coinvolto sempre in un intimo dialogo con gli altri. Quindi, più che alla socialità, la solitudine si oppone alla socievolezza. Talvolta è il prodotto della timidezza e/o dell’apatia, talaltra di una scelta consapevole.

Il saggio conclude che l’uomo come essere sociale non può fare a meno degli altri per tempi molto lunghi, ma seguire un cammino di benessere psicofisico tendenzialmente condizionato da comportamenti etici collaborativi.

La mia solitudine attuale è creata dalla condizione dell’abbandono che mi è piovuto addosso a volte o per eventi imprevedibili, a volte per scelte di allontanamento da persone che ho creduto amiche. La mia casa è diventata una sorta di protezione ove posso camminare e parlare con i miei ricordi, ma se qualcuno suonerà il campanello troverà sempre quella fetta di pane fresco che saprò trovare nella madia del mio cuore.

Ed ora una “chicca” troppo ben scritta per non riportarla:

Sulle strade del mio vivere 
Non è stato sempre facile 
Ma dal dolore s’impara un po’ di più 

Quando il tempo no n è docile 
Quando tutto sembra immobile 
Io non mi fermo, io non mi butto giù 

Domani è un altro giorno 
E il mondo 
Avrà un respiro che si avvolgerà su me 
Poi mi chiedo, e credo 
Che il cambiamento sia la fonte della mia energia 

Il mio contrario mi aiuta a crescere 
A capire che si può perdere 
Ma l’importante è non darsi vinti mai

E così se cado mi rialzo sempre 
E rimango qui 
Contro le mie ombre 

Poi mi chiedo, e credo 
Che il cambiamento sia la fonte della mia energia 
Che il cambiamento dia un senso a questa vita mia

…e m’illudo che tutto possa ricominciare…così com’era ….prima….

Buena vida a tutti!!! 


Edda CattaniSpighe lasciate al sole
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Ricordi di guerra.

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Oggi 25 Aprile, fra i ricordi di guerra, riteniamo che il migliore saluto possa essere costituito dal seguente brano tratto da «Centomila gavette di ghiaccio» di G. Bedeschi – Ed. Mursia, 1963 – e che ricorda l’ingresso dell’Autore a far parte di una divisione alpina.

Erano soldati al pari di ogni altro, gli alpini della Julia; solamente, come tutti gli alpini, portavano uno strano cappello di feltro a larga tesa, all’indietro sollevata e in avanti ricadente, ornato di una penna nera appiccicata a punta in su sul lato sinistro del cocuzzolo.
Nelle intenzioni allusive di chi la prescrisse, la penna doveva essere d’aquila; ma in effetto gli alpini, ignari d’ogni complicazione e spregiatori d’ogni retorica, collocavano sopra l’ala penne di corvo, di gallina, di tacchino e di qualunque altro pennuto in cui il buon Dio. facesse imbattere lungo le vie della guerra, nere o d’altro colore purché fossero penne lunghe e diritte e stessero a indicare da lontano che s’avanzava un alpino.
In pratica, la penna sul capello resisteva rigida e lustra per poco tempo, ben presto si riduceva a un mozzicone malconcio, e qui cominciavano tutti i guai degli alpini che facevano la guerra: perché, a osservarli da vicino, si capiva subito che in pace e in guerra gli alpini potevano distaccarsi da tutto meno che dal loro cappello per sbilenco e stravolto che fosse: anzi!
E’ un tutt’uno con l’uomo, il cappello; tanto che finite le guerre e deposto il grigioverde, il cappello resta al posto d’onore nelle baite alpestri come nelle case, distaccato dal chiodo o levato dal cassetto con mano gelosa nelle circostanze speciali, ad esempio, per ritrovarsi tra alpini o per imporlo con ben mascherata commozione sul capo del figlioletto o addirittura dell’ultimo nipote per vedere quanto gli manca da crescere e se sarà un bell’alpino; bello poi, a questo punto, significa somigliante al padre o al nonno, che è il padrone del cappello.
C’è una ragione naturalmente, per tutto ciò; ce ne sono molte. La prima è che dal momento in cui il magazziniere lo sbatte in testa al bocia giunto dalla sua valle alla caserma, il cappello fa la vita dell’alpino: sembra una cosa da niente, a dirlo, ma mettetevi in coda a un mulo e andate in giro a fare la guerra, e poi saprete. Vi succede allora di vedere che col sole, sia anche quello del centro d’Africa, l’alpino non conosce caschi di sughero o altri arnesi del genere, ma tiene in testa il suo bravo cappello di feltro bollente, rivoltandolo tutt’al più all’indietro affinché l’ala ripari la nuca, e l’ampia tesa dinanzi agli occhi non dia l’impressione di soffocare; con la neve, da tetto unico e solo per l’alpino che va sui monti.
Posto in bilico fra naso e fronte quando l’alpino è sdraiato a dormire al sole e all’aria ed ha per letto le pietre o il fango, con la piccola striscia d’ombra che fa schermo sugli occhi è quanto resta dei ricordi di casa, è il cubicolo minimo che protegge soltanto le pupille, ma col raccolto tepore fa chiudere le palpebre sul sogno del morbido letto lontano, della stanza riparata e delle imposte serrate a far più fondo il sonno.
E se l’alpino ha sete, una sapiente manata sul cocuzzolo ne fa una coppa, buona per attingere acqua quando c’è ressa attorno al pozzo o balza un istante fuori dei ranghi, durante le marce, verso il vicino ruscello; eccellente perfino a raccogliere, dicano quel che vogliono il capitano e il medico, la pasta asciutta e addirittura la minestra in brodo nei casi in cui l’ultima latta finisce i suoi servigi sotto una raffica di mitraglia.
E’ tanto amico e compagno, il cappello, che gli si farebbe un torto a sostituirlo con l’elmetto, in trincea; nessuno dice che il feltro ripari dalle pallottole più che l’acciaio, siamo d’accordo, ma è proprio bello averlo in testa a quattro salti dai nemici, ci si sente più alpini, e pare che il fischio rabbioso debba passare sempre due dita in là, per non bucarlo; è così che dall’altra parte il nemico vede spuntare dalla trincea quel cappello curioso e quella penna mal ridotta che, a vederla riaffiorare sempre da capo per quanto si spari e si tempesti, sembra che venga a fare il solletico sotto il mento, e viene voglia di scaraventarle addosso l’inferno e farla finita una buona volta, ma fa anche pensare: accidenti, non mollano proprio mai, questi maledetti alpini!
E’ tutto così, insomma; di cappelli e di uomini ne esistono centomila tipi a questo mondo, ma di alpini e di cappelli come il loro ce n’è una specie sola, che nasce e resta unica intorno ai monti d’Italia. Ci vuole pazienza, bisogna venderli come sono, come il buon Dio li ha voluti, l’uno e l’altro; e se a volte sembra che tutti e due si diano un po’ troppe arie per via di quella penna, bisogna concludere che non è vero, prova ne sia che spesso quel cappello lo si fa usare perfino da paniere per metterci dentro le sei uova o magari le patate ancora sporche di terra, come se fosse la sporta della serva; bisogna pensare che tante volte sta a galla su un mucchio di bende e non calza più perchè la testa del padrone, sotto, s’è mezza sfasciata per fare il suo dovere.
Bisogna anche sapere che quel cappello, a guardarlo, dice giovinezza per tutto il tempo della vita, e a calcarselo di nuovo un po’ di traverso fra i due orecchi col vecchio gesto spavaldo, gli anni calano che è un piacere; e alla fine, quando non è proprio più il caso di piantarlo sulla testa, vuol dire che l’alpino ormai è morto, poveretto; e quasi sempre, mandriano o ministro che sia, se lo fa ancora mettere sopra la cassa e sta a dire che chi c’è dentro era, in fondo, un buon uomo, allegro, in gamba, con un fegato sano e un cuor così; sta a dire che, morto il padrone, vorrebbe andargli dietro ma invece resta in famiglia, per ricordo; e che ormai, se non riesce neppure lui a ridestare l’alpino disteso, non esiste più neppure un filo di speranza, fino alla fanfara del giudizio universale non lo risveglia e lo scuote più nessuno: c’è un alpino di meno sulla terra.
A non voler contare il figlio che polpacciuto e tracagnotto, brontolone e testardo com’è, vien su tal quale il suo padre buonanima; e già al passo si vede che sta crescendo giorno per giorno «penna nera» senza fallo.
Come ai loro tempi erano suo padre e suo nonno, e tutti i maschi di casa, in fin dei conti; tutti alpini spaccati, figli della montagna dura e selvosa che dà la vita e la toglie a piacimento, o la regala al piano per germinarne altra; inesauribile, essa che è pietra e vento, impasta quindi i suoi uomini di durezza e di sogno.
Nascono e crescono così dal suo grembo, come gli abeti, le «penne nere»; che per la loro terra e l’intero mondo sono poi gli alpini; gli alpini d’Italia.

GIULIO BEDESCHI

 

Edda CattaniRicordi di guerra.
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Vorrei un’ala di riserva

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VORREI UN’ALA DI RISERVA

 

Quando nel 2000 venimmo ad abitare ad Abano Terme per essere più vicini alla cappella di Andrea, curammo ogni particolare di questa casa acquistata con tanti sacrifici, dove avremmo dovuto vivere gli anni della nostra vecchiaia. Pensando ad un nome da mettere sulla porta, avrei voluto scrivere:  “I GABBIANI”. Erano i tempi in cui facevamo lunghe silenziose passeggiate, sul finire dell’estate, in riva al mare e guardavamo stormi dei maestosi volatili posarsi sulla riva, alla ricerca di briciole sparse dagli ultimi bagnanti. Mi colpivano quegli uccelli così  solenni nell’aria e faticosamente pesanti a terra, tanto da farmi pensare come non avessero una terza ala come timone che permettesse una manovra meno impacciata dei loro piccoli passi. Eppure, quando si libravano in cielo, aleggiavano come gli angeli, non denotavano alcun peso ed ostentavano un’armonia infinita. Pensavo allora al mio Andrea e dicevo: “Anche tu caro, ora non hai più peso e voli nell’universo, molto meglio dei gabbiani e come gli angeli del Paradiso!”.

Sono passati gli anni, veloci nella maturità, molto più che nella spensierata giovinezza, ed hanno portato con sé tutto il loro carico di dolore e qualche piccola gioia che ha addolcito l’amarezza di alcune giornate, ma contemporaneamente, il bagaglio si è fatto pesante sulle spalle sempre più in difficoltà nello sforzo dell’età. Ho ripensato ai gabbiani della nostra estate leggendo casualmente una poesia di Mons. Tonino Bello:

Voglio ringraziarti, Signore,

del dono della vita.

Ho letto che gli uomini sono angeli con un’ala

soltanto: possono volare solo rimanendo abbracciati.

Vivere è abbandonarsi come un gabbiano

all’ebbrezza del vento: vivere è assaporare

l’avventura della libertà,

vivere è stendere l’ala,

l’unica ala con la fiducia di chi sa di avere

nel volo un partner grande come te.

 

Eccomi rimasta sola, simile alla mia stagione della vita, ormai vecchia e stanca; il mio compagno non è più vicino a me… la sua anima vaga ormai in altre spiagge vicine al cielo ; il mio volo si è fatto ancor più pesante e solitario.

 

Ma non basta saper volare con te. Signore;

tu mi hai dato il compito di abbracciare
anche il fratello e aiutarlo a volare.

Ti chiedo perdono, perciò, per tutte le ali

che non ho aiutato a distendersi. Non farmi

più passare indifferente vicino al fratello,

che, rimasto con l’unica ala inesorabilmente

impigliata nella rete della miseria e della solitudine

si è ormai persuaso di non essere più degno di volare

con te. Soprattutto per questo fratello sfortunato

dammi. Signore, un’ala di riserva.        (Mons. Tonino Bello, vescovo)

 

Ora vorrei, Signore, anch’io un’ala di riserva perché non gliela faccio più a volare anche con Te, non riesco a raggiungerti, a parlarti, a godere dei tuoi spazi infiniti… come Madre Teresa, si è fatto buio intorno e arranco con la schiena curva.

Eppure è ormai Primavera… l’inverno sta terminando e presto verrà il mese dedicato  a Lei la Madre delle Madri che non manca di mostrare la Sua vicinanza con la Sua mistica presenza, fatta di silenzio e di fiduciosa speranza.

I miei bambini ormai hanno festeggiato la loro santa Cresima…soldati di Cristo… non ne conoscono appieno il significato ma si divertono con tutte le ricorrenze… anche quelle sacre diventano un fatto commerciale. Per noi è invece un fatto religioso, come lo è lo spuntare improvviso di una bellissima rosa purpurea proprio nel mio roseto incolto, devastato dalla pioggia: una rosa vermiglia come il sangue del mio cuore lacerato e gialla al centro come l’oro prezioso dei gioielli.

Grazie Andrea, ti sei ricordato di me anche in questa occasione; grazie, Madre di tutte le Madri, Rosa Mistica, Maria Immacolata.

 

“Mamma, ti ho messo in sintonia col diapason del Cielo”, dice Roland alla sua mamma.

 Il “diapason” è il punto più alto, la massima intensità del Cielo.

Fra poco sarà Natale e poi verrà l’Epifania come “manifestazione” dello Spirito.

 

A questo punto aggiungo un pensiero ed un ricordo particolare per i papà che proprio in quest’anno festeggeranno ancora 19 marzo questa ricorrenza … la festa del Papà!

 

 

                     

 

        

 

 

 

Edda CattaniVorrei un’ala di riserva
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Ho conosciuto il dolore

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Ho conosciuto il dolore

Ho conosciuto il dolore(di persona, s’intende)e lui mi ha conosciuto:siamo amici da sempre,io non l’ho mai perduto;lui tanto meno,che anzi si sente come finito se per un giorno solo,non mi vede o mi sente. Ho conosciuto il dolore e mi è sembrato ridicolo,quando gli dò di gomito,quando gli dico in faccia:”Ma a chi vuoi far paura?”Ho conosciuto il dolore:era il figlio malato,la ragazza perduta all’orizzonte,il sogno svanito,la miseria dopo l’avventura;era il brigante all’angolo che mi chiedeva la vita;era il presuntuoso tumore che mi porto dentro da una cellula impazzita;era Dio, che non c’era e giurava, ah se giurava, di esserci; la sconfitta patita,l’indifferenza del mondo alla fame,alla povertà, alla fatica; l’ho conosciuto e l’ho preso a colpi di canzoni e parole da farlo tremare,da farlo impallidire,da farlo tornare all’angolo,pieno di botte,che nemmeno il suo secondo sapeva più come farlo di nuovo salire sul ring,continuare a boxare.E, un giorno, l’ho fermato in un bar,che neanche lo conosceva la gente;l’ho fermato per dirgli:“Con me non puoi niente!”Ho conosciuto il dolore ed ho avuto pietà di lui,della sua solitudine,di questo cavolo di suo mestiere;l’ho guardato negli occhi,che sono voragini e strappi di sogni infranti:“Ti vuoi fermare un momento?”, gli ho chiesto,”Ti vuoi sedere?Vieni con me,andiamo insieme a bere. Hai fatto di tutto per disarmarmi la vita e non sai, non puoi sapere che mi passi come un’ombra sottile sfiorente,appena-appena toccante,e non hai vie d’uscita perché, nel cuore appreso,in questo attendere anche in un solo attimo,l’emozione di amici che partono,figli che nascono,sogni che corrono nel mio presente,io sono vivo e tu, mio dolore, non conti un cazzo di niente”

(Roberto Vecchioni)

 

Edda CattaniHo conosciuto il dolore
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Dalla terra dei “girasoli”

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BUONE VACANZE!!! 

Dalla prossima settimana inizia per tutti un periodo di necessario riposo e a volte, la ricerca di quel fresco che attenui la calura stagionale. Io riprenderò il percorso della “Romea” la strada dei pellegrini che si recavano alla città di Roma facendola a piedi… Non sarà più come gli anni quando, in piena estate, mi dividevo fra i piccoli al mare e Mentore nel suo avviarsi lentamente e per sempre… Pur con il cuore affaticato sentivo tutta l’armonia e la bellezza di questa terra in cui sono nata, ove immense distese di girasoli troneggiano nei campi coltivati. Li ho rimessi ogni anno nella cappella di Andrea che ancora mi veglierà durante i miei viaggi…ora che è insieme al suo Papà… Gli scorsi anni mi sentii protetta da questa pagina che ripropongo modificata… C’è stato intorno a me tanto affetto e conforto durante quell’estati assolate… vorrei ancora che la mia estate fosse così!

 

Portami il girasole ch’io lo trapianti

 

Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.


(
Eugenio Montale, Ossi di seppia, 1925)

Da questa poesia parte anche la mia invocazione; è un verso di quelli che si stampano nella memoria: portami il girasole ch’io lo trapianti. C’è tutta la forza di una preghiera e la debolezza di chi, sente la propria anima come un terreno bruciato dal salino, la ferita di una terra dolorosa. Il girasole, pianta magica e dalle foglie gialle, come quei limoni cantati da Montale in altre liriche, più che un uomo è un angelo, che tende verso il cielo azzurro per ansia e bramosia di infinito.

Per questo, in questa stagione porto ad Andrea “il girasole” quasi a volere, in forma poetica  proseguire la mia preghiera che va al di là del dissolvimento: trasparenze e verbi quali vapora fanno capire quanto ci si allontana dalla materialità per giungere all’essenza. Il girasole è  simbolo di un’ebbrezza quasi mistica, che rischiara la visione delle cose, estremo tentativo di una supplica che non è conoscenza, è qualcosa di più, è quello che ai poeti, e anche a me, piace chiamare Illuminazione.

 

 il profumo dei fiori che mi porti giunge fino a me 

…finalmente insieme…

 

Edda CattaniDalla terra dei “girasoli”
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Peccato e perdono

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Peccato e perdono

di Paolo Farinella

Don Paolo Farinella, parroco di S. Torpete a Genova, oltre ad essere un attento osservatore dell’attualità politica ed ecclesiale è anche (e soprattutto) un fine biblista, che ha trascorso, tra l’altro, cinque intensi anni di ricerca a Gerusalemme, presso lo Studium Biblicum Franciscanum, approfondendo in particolare la conoscenza della lingue bibliche, ebraico, aramaico e greco ellenistico (da anni sta lavorando ad una grammatica greca di tutta la Bibbia). Il suo ultimo libro, Peccato e perdono. Un capovolgimento di prospettiva (Gabrielli Editori, 2015, pp. 111, € 12; il libro può essere acquistato anche presso Adista, scrivendo ad abbonamenti@adista.it; telefonando allo 066868692; o attraverso il nostro sito internet, www.adista.it), se può forse stupire un po’ chi è abituato a leggere gli strali di Farinella contro l’establishment politico ed ecclesiastico, rappresenta in realtà una perfetta sintesi tra l’impegno dello studioso e del polemista, dell’esperto di Sacra Scrittura e del critico rigoroso della strutture farisaiche del potere contemporaneo. Nel libro, pubblicato nella nuova collana di Gabrielli editore “Esh” (cioè il fuoco nella Parola, testi di piccolo formato, che intendono ri-semantizzare parole e temi dell’esperienza religiosa), Farinella riflette sul rivoluzionario significato che nel messaggio di Gesù ha assunto la parola “perdono”. 

Lo fa, come in altri suoi lavori, utilizzando gli strumenti dell’esegeta per demistificare i luoghi comuni della religione, restituendo alla fede la sua autenticità, radicalità e fedeltà al testo sacro. In questo caso, Farinella si concentra sui concetti di peccato e perdono, partendo subito dal nodo del “peccato originale”. Il biblista sostiene che questa nozione si regge su una esegesi errata di alcuni passi biblici, che paradossalmente porta a ritenere che ci debba essere per necessità il peccato di Adam ed Eva e poi, solo successivamente, la venuta e la redenzione di Gesù, mandato dal Padre a chiamare l’umanità smarrita e a restaurare il danno compiuto dai progenitori. Però, eccepisce Farinella, se il peccato di Adam era necessario teologicamente alla redenzione, non ci sarebbe colpa o responsabilità nella scelta dei nostri due progenitori. La necessità teologica esclude quindi tassativamente la libertà, cioè la possibilità di scelta. Adam ed Eva, come anche Giuda, avrebbero solo realizzato ciò che era già scritto. Una visione piuttosto limitativa della fede e del progetto di redenzione che porta Farinella a rifiutare un tipo di interpretazione legata solamente alle logiche di un riduzionismo razionalistico e letterale delle Scritture. 

Meglio allora, rifacendosi a Dietrich Bonhoeffer ed a Etty Hillesum, pensare il peccato originale come la presunzione di poter conoscere il bene e il male in assoluta autonomia, senza nessun dialogo o rapporto con Dio. L’interpretazione tradizionale della Chiesa può quindi essere superata in forza di una lettura più attenta delle Scritture e della prassi di Gesù. Del resto, il concetto tradizionale di peccato ci riporta alla religione ed alla mentalità arcaica, contrattualistica, mercantile. Proprio quella che Gesù intendeva superare con la sua testimonianza e la sua predicazione. Farinella analizza inoltre a livello linguistico i significati che ha assunto la parola “peccato” nell’ebraico biblico e nel greco dei Vangeli, liberando il vocabolo da quelle riduzioni moralistiche tipiche della tradizione e della teologia cattolica. Il peccato diventa nell’ottica proposta dall’autore non tanto trasgressione a una serie di regole, quanto, piuttosto, la rottura della relazione con Dio e con gli altri.

Anche il senso che diamo al concetto di “conversione” deve – secondo Farinella – cambiare: il biblista ricorda che il verbo greco che rende la parola “conversione” è metanoèo, un termine che contiene la noûs, cioè il pensiero/la mentalità. Gesù, insomma, non chiede di modificare il comportamento, ma di «modificare i criteri di pensiero per mettere in movimento un processo di relazione». Per questo, una “bontà” astratta ed intimistica, che non sia generazione e nascita dell’altro e nell’altro, resta sterile, cioè incapace di generare nuova vita. Analogamente, l’ascesi individualista nel contesto cristiano non ha senso, perché la vittoria sul peccato e sul male non si ottiene se non nel cammino, nella relazione, nel confronto con gli altri. Allo stesso modo pregare non significa riunirsi per gratificare se stessi, ma farsi carico della fragilità, propria ed altrui, affinché lo Spirito di Dio sappia, a modo suo, illuminarci. Pregare implica quindi una condizione di assoluta contemporaneità e presenza nella storia, non certo una astratta ascesi: significa farsi compagno di viaggio di tutti, a partire dai lontani.

All’interno della ekklesìa cristiana, spiega poi Farinella a partire dall’analisi del capitolo 18 del Vangelo di Matteo, il perdono costituisce l’elemento fondativo del senso stesso dell’essere comunità; quasi un metodo permanente dell’essere cristiani. 

Perdonare è guarire, suggerisce Farinella, operare cioè un «taglio netto tra ciò che precede e ciò che segue, tra passato e futuro», «togliere gli ostacoli che si frappongono alla pienezza dell’esistenza, perché solo in un’umanità degna di questo nome ognuno può incontrare gli altri e l’Altro». E non è possibile perdonare se non si ribalta la logica dominante e non si mette al centro del percorso comunitario i “piccoli”, ossia le esistenze che non hanno alcun valore agli occhi della società. Sono proprio i “piccoli” e i “peccatori”, divenuti «l’unità di misura della comunità nata dal Vangelo», a fondare veramente l’ekklesìa, dove il perdono e l’apertura all’altro divengono il «programma del nostro cammino verso il compimento del Regno». (V.G.)

 

 

Edda CattaniPeccato e perdono
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Ad un passo da te…

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Ad un passo da te…in attesa dell’incontro.

In questi giorni particolari di festività e dopo l’uscita del nuovo libro, mi è gradito riproporre questa bella relazione .

Relazione per Convegno di Padova “ Fede e Scienza” 3 dicembre 2011

Maria Pizzolitto Lui – Mamma di Vera

 

Sono contenta di essere nuovamente qui, in un ambiente amico e caloroso, dove due anni fa mi sono trovata a presentare il mio primo libro intitolato “ Io Volo Libera” , dopo l’esperienza dolorosa , della perdita terrena di nostra figlia Vera.

E’ infatti in questa sala che ho avuto l’opportunità di dare la mia prima testimonianza, dopo che nel 2006, ad Abano Terme,  ad uno dei  convegni della vostra associazione,  mi si sono aperte le porte della speranza, avendo potuto toccare con mano, tematiche di cui avevo sentito parlare, ma che non avevo mai approfondito , se non dopo la dipartita di Vera,  avvenuta nel 2004.

Mentre alimentavo le mie ricerche e mi accostavo alla medianità spirituale , è stato con  uno dei primi messaggi, che Vera mi ha invitato a scrivere il primo libro, con  queste parole: “… Mamma ti aiuterò, ma la fatica maggiore sarà tua e di papà. Inizia a scrivere memorie tue, mie e dei nostri affetti più cari. Poi farai libro semplice ma forte di esperienza: è così che riscatterai la mia vita. Io sono stata segno ed impegno per voi, sono traccia per chi mi ha amata, sarò traccia per chi mi leggerà” …

E’ stato sconvolgente per me questo messaggio, ci ho messo parecchi mesi prima di aderire alla sua richiesta. Poi pian piano ho iniziato. Da persona riservata, quale mi ritenevo, mai  avrei immaginato che avrei raccontato la sua vita, la nostra storia ed il nostro  percorso. Devo ammettere che i  risultati e le soddisfazioni, dopo la pubblicazione, sono arrivati, …e scrivere aveva fatto bene a me prima che alle altre mamme,  come preannunciatomi da Vera. In quel libro ci ho messo tutto il mio amore di madre, il mio rimpianto, la mia sofferenza,  il mio percorso, ma anche  la mia  speranza. Con quel libro la mia famiglia ed io abbiamo elaborato il lutto.

Vera non ha tardato a farsi viva, dicendomi che aveva gradito ciò che avevo fatto e ha continuato a seguire la nostra vita, le nostre tappe, i passi avanti e qualche volta i passi indietro, arrivando puntuale con i suoi messaggi pieni di amore  ed i suoi segni particolari.

L’abbiamo ritrovata nelle sue comunicazioni  piene  di ricordi condivisi, di riscontri oggettivi, a volte con  battute simpatiche, a volte  con qualche rimprovero, con manifestazioni di tenerezza  e soprattutto con parole stimolanti per la nostra crescita interiore.

Abbiamo potuto constatare anche  la sua evoluzione spirituale. E’ aumentata in noi  la consapevolezza che lei, come tutti i nostri cari ci sono sempre accanto. Sappiamo che nulla muore, ma tutto si trasforma e  i nostri cari  hanno solo  cambiato stato, hanno cambiato piano di esistenza. Sappiamo che sono loro i veri vivi, poiché sono nella Luce ed è per questo che possono diventare i nostri fari, i nostri maestri spirituali. ..E’  anche a loro che possiamo  chiedere  aiuto con la preghiera.  Mio padre, in un messaggio , dice proprio così: “ Occorre sempre una preghiera che noi usiamo per aiutare voi”.

 Ma la mancanza della  fisicità, è uno scoglio difficile da superare, in quanto i nostri sensi umani la reclamano. Per cui la mancanza di Vera,  unitamente a quella dei miei genitori,  che tanto hanno significato per me e per  tutta la mia famiglia, partiti a breve distanza da lei,  hanno generato   un grande  vuoto,  che ho cercato di colmare scrivendo un altro libro.  Questa volta non richiesto,…è stato un desiderio che si è piano piano  manifestato in me. L’ho vissuto come una forma di compagnia , di vicinanza ai miei cari…un modo per sentirli presenti,… un appuntamento quasi quotidiano per tanti mesi…

Ho iniziato a  Natale del 2010, circa un anno fa.  Vera mancava da quasi sette anni. Ero abbastanza giù di corda, anche se ci scherzavo su:” E’  la crisi del settimo anno, mi dicevo”, per allontanare la tristezza. In quella circostanza natalizia  mi  ero ritrovata a rivivere  i  nostri  bei momenti, le festività  a cui lei  teneva tanto, tutti noi insieme amorosamente, con   le nostre famiglie, con tutti i nostri bambini…

Ho buttato giù  alcuni pensieri… ed è nato  :” Ad un passo da te…in attesa dell’incontro”. Credo, …con questo  nuovo  lavoro,  di aver completato la mia testimonianza, di aver aperto totalmente il mio cuore, parlando delle mie  sensazioni, delle mie intuizioni  e dei miei  pensieri più intimi,  delle mie piccole conquiste , delle nuove certezze,  raccontando ciò che aveva prodotto in me e nella mia famiglia,  il dolore.  Quindi le nuove consapevolezze,  il nuovo modo di stare nella vita,… la nuova visione della vita… i nuovi traguardi, le nuove aperture, i nuovi obbiettivi ( “ Ora tu ne hai molti” ,mi ha detto mia  madre in un messaggio). Tanti doni ti può portare il dolore se capisci la sua funzione.  E’ stato detto, infatti, :  “ La sofferenza è l’ unico mezzo valido per rompere il sonno dello spirito, ed è un cammino , poichè ci mostra quanto bene abbiamo ancora da fare “.Questo è quello che ho compreso e  che ho analizzato in profondità,  in quello che  è  diventato  poi  questo mio nuovo  modo di esistere.

 Ho imparato ad ascoltare il cuore e la mia coscienza,  ad ampliare il mio sentire .  So che tutto fa parte del percorso evolutivo, importante è rendersene conto, farsene una ragione ed accettare che tutto quello che ci  capita,  fa parte del programma di vita scelto dalla nostra anima. E poi ho capito che bisogna imparare a  conoscere se stessi per arrivare a  conoscere gli altri , cercando di essere più comprensivi e caritatevoli.  Accettare il dolore come una grazia, consapevoli che niente succede a caso, che  tutto ha un senso e un fine. Questo ho fatto mio.

 Ma tutto ciò non mi esonera da un certo tipo di nostalgia ,… perchè non vedere,  ciò che sai che comunque c’è sotto diverse spoglie, è pur sempre una sofferenza. Ecco che allora il contatto con Dio si è fatto più intenso, poiché a Lui puoi chiedere  di aiutarti a portare il tuo   fardello, diventando  il centro della tua vita. Con Lui sai  che  puoi sempre colloquiare, su di Lui puoi sempre contare, perché  non ti fa mai sentire sola.

Se poi  cerchiamo   una  finestra nell’eternità,… l’Habitat” dei nostri  cari può diventare palpabile… proprio  a un passo da noi,… nell’attesa di quel giorno che non vedrà tramonto….Possiamo, infatti,  ancora ricevere  il loro aiuto e percepire il loro amore. Quell’amore che mai si estinguerà , che io ho identificato con il loro DNA spirituale. Infatti ci hanno trasmesso  qualcosa di loro, hanno portato via qualcosa di noi..  Ci hanno lasciato la commozione del ricordo. ..Ci rimane la memoria che non si è disintegrata il giorno del commiato e rimane presente a ricordare che quella vita c’è stata davvero  e non è stata un’illusione. E  la memoria ne rende incancellabile i volti,… i timbri della voce,… perfino gli odori ed il tatto…  Penso, infatti,  che ciò che abbiamo amato non può essere cancellato né dal ricordo, né dal libro della vita.

Questi pensieri, mi hanno  portata  a riflettere sulle  mie radici, a rivivere il  mio passato, guardando in alto,…guardando il Cielo, dove i miei cari abitano… Ho alimentato il  desiderio che  il  ricordo del  tempo trascorso con loro  sulla terra, dopo aver ricevuto e donato amore,  non andasse  disperso, ma che  servisse  piuttosto ad alimentare il bene, il tentativo  di fare  del mio meglio,… del nostro meglio,  per il tempo che mi  resta, che ci  resta  ancora da vivere.

In questo nuovo lavoro, quindi, pur permanendo Vera  il tema centrale , ricordo  anche  i  miei genitori,  che sono le mie radici… Sono state figure importanti,… ne ho tracciato  un breve profilo. Poi,  anche i loro  messaggi hanno fatto  il resto. Ci  hanno reso partecipe di  memorie condivise, ci sono riferimenti oggettivi che riconosco. Non mancano cenni alla tragica vicenda di Vera. Sembra che anche loro abbiano voluto  venirci  incontro  parlandoci di lei, per alleviare il vuoto della sua  mancanza. Ci raccomandano di  andare avanti con fiducia,  favorendo stati d’animo più sereni , ci invitano  ad abbandonare sentimenti di rancore e di non perdono,  ci parlano della meraviglia dell’altra vita… Pensieri che ci hanno commosso e fatto un gran bene.

Mentre  producevo questo nuovo  scritto,  Vera non si era fatta attendere e  mi era venuta  incontro  con  questo messaggio: “Stesura di libro sarà guidata…questo sarà un libro con le ali di farfalla”…quindi vai avanti e non arrenderti…metti in quelle pagine l’amore del tuo cuore. Ti voglio bene…sono con te…le ali volano  libere nel cielo” …Ebbene,…posso confermare che ho percepito  quella   guida,  quell’aiuto che avevo già sentito nella stesura del mio primo libro,  in quanto mi sorprendevo ad ascoltare,  annotare e a leggere pensieri mirati che,  mi  hanno aiutato  ad elaborare e a mettere assieme ciò che era  diventato il  mio nuovo sentire,  oserei dire il mio nuovo cuore. E tante citazioni ho riportato che rafforzano e avallano questo mio momento.  Anche questa volta tanta commozione ho sentito,… anche questa volta ho ringraziato…

Una certa crescita , credo,  che  sia avvenuta in me e nell’ambito della mia famiglia, anche se tanto resta da fare. Sappiamo che il cammino è lungo e faticoso, ma con i nostri angeli, con le nostre guide spirituali , tanto possiamo raggiungere…

Con i messaggi, poi,  Vera è stata prolifica. Ci ha  sorretti, ha avuto sempre una parola per tutti, dimostrando la capacità di leggere nei nostri cuori. Non mancano riflessioni  e tiratine d’orecchie. Al suo papà  che afferma  di  parlare sempre con lei, risponde: “ Fermati, fermati caro papà…ricordati che quello non è parlare, quello è rimurginare. Per parlare con me devi fermarti, ascoltare le mie parole. Poi tu chiedi ed io rispondo. Poi io parlo  e se tu non hai capito, richiedi! Capito papà? Così è vivere con Vera,…vivere con Vera! Io vivo con voi, nella mia casa.”  E ancora: “ A te mio caro papà metto spesso le mani sulle spalle, un bacio e un sussurro…sopporta la mamma,…lei guarisce se parla, se scrive su di me…lasciala fare , ma non permetterle di escludersi dalla famiglia, dalle cose e normali frequentazioni di vita…”

 Poi a Stefano conferma:: “ Esisto, carissimo fratello! Tu sai che io sono vicina a te e mi muovo con lieve brezza che ti si posa intorno,  ti da un brivido e poi ti accalora. ..Ti riparerò dalle intemperie, perché le emozioni sono come i temporali. In certi momenti sono pericolose,…io ti riparerò. Fai conto che io sia il tuo ombrello cosmico. Fai conto che io sia il tuo cuscino, che sia il tuo micio, che sia…che sia chi vuoi tu…io ci sono.

A me così  parla: “ Oggi voglio dirti che ho molto riflettuto sul nostro rapporto solido, affettuoso, profondo, ma che quando ero in vita ha anche conosciuto piccole frizioni, pause di silenzio, momenti di non comprensione. Normali, perché una madre e una figlia non sempre riescono ad aprirsi fino in fondo. Ebbene, io ti dico, mamma cara, oggi abbiamo recuperato e ci tocchiamo l’anima l’un l’altra e … non c’è nulla che possa più separarci. La separazione è solo apparente, ma io ti sono dentro,  come quando mi attendevi nei nove mesi di gravidanza….Credimi mamma, il percorso evolutivo tu lo stati facendo in terra ed io in cielo,… ma ci porterà entrambe nella stessa direzione.”

Ogni tanto, constatando la fatica  di questo procedere,  mi sorprendo a riflettere: “Sarà contenta di me la mia ragazza,  dell’impegno  che ci metto, nonostante le continue cadute?“ Devo dire che puntuale è arrivato il suo pensiero, che riporto: ” Mamma, mamma, mamma…benedetta mamma dubbiosa. Con tanti perché messi in linea,…uno dietro l’altro…non finiscono mai!  Mamma, dai…oggi ti assicuro, …sei cambiata, sei migliorata. Ma certo che sei migliorata! Sicuramente,… anche se tanti cambiamenti dovrai ancora fare. Ma tutti gli esseri che vivono sulla terra, nel loro percorso, devono fare cambiamenti. Quindi,…dai, non scoraggiarti, sei la mia mamma speciale, la mia mamma adorata e se anche un tempo ho discusso con te, ora ti parlo con l’amore grande di una figlia che è amata, si… ma che ama tanto. Io ti amo mamma. Non so se tu credi veramente in queste parole. Io ti amo mamma e ti ho tanto amata sulla terra.

Qualche volta ti ho invidiata e qualche volta mi sono arrabbiata così tanto dei tuoi pensieri, delle tue comunicazioni frettolose. Ma ora capisco,…tutto capisco, perché tutto conosco, perché leggo nel tuo cuore. Mamma, mamma,… ma non ti sembra di essere diventata una grande mamma? Eh dimmelo? Non ti sembra di essere diventata una mamma speciale?

Pensa che anche tu hai aiutato tante persone con il tuo libro, col tuo scrivere, col tuo parlare….Mamma, a te che sei qui giunta, voglio riservare il mio abbraccio speciale, perchè ti voglio bene, perché ti amo e  perché voglio darti tanta,… tanta forza. Sii cortese, amabile, fiduciosa, amante della vita,…amante della vita…della vita! Amante della tua famiglia. Amala mamma e ama te stessa!”

Devo ammettere che nonostante mi reputi fortunata per tutto ciò che ho avuto, una velata tristezza mi accompagna spesso,… forse fa parte del mio carattere, è una debolezza che non riesco a togliermi, per cui puntuale, alcuni giorni fa è arrivata Vera con queste parole: “Mamma, Mamma,…mamma…devo ancora risollevare il tuo spirito. Ma perché, mi puoi spiegare il perché?  Vorrei conoscere più bene la tua anima. Vuoi aprirla finalmente del tutto, completamente, perché possa entrare  e scoprire quale è il tuo sentimento mamma? Nulla ti manca…io ci sono mamma, io ci sono! Non puoi dirmi, mi manchi tu…tu non ci sei! Io ci sono…altrimenti la tua fede dov’è? Quale è la tua fede, benedetta mamma? Vorrei tanto vederti felice. Vorrei tanto, soprattutto vedere i tuoi occhi sorridere. Non la tua bocca, ma i tuoi occhi, mamma! L’ occhio rispecchia la porta della tua anima . Quanto bene ti voglio! Se sapessi quanto bene ti voglio i tuoi occhi si illuminerebbero di una luce speciale. E io voglio che sia così. Sorridi, mamma. Sorridi alla vita, … che io ci sono e sempre ci sarò.”

Queste  parole sono state di  grande aiuto, di grande conforto. Di indicibile commozione. Non si può non credere che li abbiamo vicini. Gli alti e bassi poi, ci saranno  sempre, il combattimento è giornaliero…. Ed  essere consapevoli del traguardo che ci aspetta … e di chi troveremo ad attenderci,  è ciò che ci porta ad avere  e a cercare nuovi stimoli, nuovi slanci , per andare avanti,  anche nel quotidiano,   perché come mi dico sempre…,  con rinnovata fiducia: “ E’ solo questione di tempo, … li ritroveremo,  ed il tempo poi  non esisterà più,…  perché saremo assieme  in quell’eternità che tutto abbraccia… e che abbracceremo.

 A ragione, Don Messina, nella prefazione di questo , rammenta che la sofferenza del lutto è da superare con la speranza che la morte è solo la fine di un capitolo e non del libro…

San Francesco di Sales, così si esprime : “Non desiderate di essere diversi da quello che siete, ma desiderate di essere al meglio ciò che siete. Godete nel pensiero di perfezionarvi  in questo e di portare le croci, piccole o grandi che incontrerete.

Ma voglio chiudere con ciò che disse in una intervista,  Padre David Maria Turoldo,   ( che ho trovato proprio nel sito della Signora Cattani e mi è parso tanto significativo), pochi giorni prima del trapasso: …”Ogni giorno è un giorno nuovo, ogni giorno è un giorno mai vissuto sulla terra da nessuno. Nessuno  sa cosa ci riserva il giorno, non sappiamo neanche cosa penseremo  questa sera.  Io pertanto,  invito  a tenere sempre  aperta , anche questa finestra sull’imprevisto  e sull’imprevedibile, che potrebbe essere più positivo di quanto non crediamo. Anche per il più disperato, perciò, vorrei essere di aiuto in questo momento , in modo particolare, per dire:  “Aiutiamoci a sperare…” Ed è un augurio che faccio a tutti noi….qui presenti.

Ricordo  che il ricavato della vendita di questo libro andrà a sostenere  un progetto a favore dei bambini poveri di Mbanza Congo (Angola) del Centro missionario dei frati cappuccini del Veneto e Friuli V.G.

 

Edda CattaniAd un passo da te…
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Sali sulla mia barca

4 comments

 

 Sali sulla mia barca, Signore! 

… oggi non chiedo altro…

                   

 

Sali sulla mia barca, Signore!

Tante volte ho avuto l’impressione

che la mia vita

sia come una notte trascorsa

in una pesca fallita.

Allora mi assale la delusione,

mi prende il senso dell’inutilità.

Sali sulla mia barca Signore,

per dirmi da che parte

devo gettare le reti,

per dare fiducia ai miei gesti,

per capire che non devo

lavorare da solo,

per convincermi che il mio lavoro

vale niente senza di Te,

senza la Tua presenza.

Sali sulla mia barca Signore,

per donare calma e serenità.

Prendi Tu il timone:

accetto di essere tuo pescatore.

Insieme pescheremo, Signore,

e giungeremo sicuri

al porto della vita

 

  

 

CONOSCO DELLE BARCHE


 

Conosco delle barche

che restano nel porto per paura

che le correnti le trascinino via con troppa violenza.

Conosco delle barche che arrugginiscono in porto

per non aver mai rischiato una vela fuori.

Conosco delle barche che si dimenticano di partire

hanno paura del mare a furia di invecchiare

e le onde non le hanno mai portate altrove,

il loro viaggio è finito ancora prima di iniziare.

Conosco delle barche talmente incatenate

che hanno disimparato come liberarsi.

Conosco delle barche che restano ad ondeggiare

per essere veramente sicure di non capovolgersi.

Conosco delle barche che vanno in gruppo

ad affrontare il vento forte al di là della paura.

Conosco delle barche che si graffiano un po’

sulle rotte dell’oceano ove le porta il loro gioco.

Conosco delle barche

che non hanno mai smesso di uscire una volta ancora,

ogni giorno della loro vita

e che non hanno paura a volte di lanciarsi

fianco a fianco in avanti a rischio di affondare.

Conosco delle barche

che tornano in porto lacerate dappertutto,

ma più coraggiose e più forti.

Conosco delle barche straboccanti di sole

perché hanno condiviso anni meravigliosi.

Conosco delle barche

che tornano sempre quando hanno navigato.

Fino al loro ultimo giorno,

e sono pronte a spiegare le loro ali di giganti

perché hanno un cuore a misura di oceano.

(Jacques Brel)

 

 

 

Edda CattaniSali sulla mia barca
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