Intimamente presuntuosi
Parabola che non funziona Trentesima domenica Tempo Ordinario C
(Alessandro Dehò)
Non serve a nulla. Questa parabola dico, non serve a nulla. È la prima reazione onesta che possiamo avere alla lettura del testo. I due protagonisti sono così grezzi e così monolitici da non essere credibili. Sono caricature, parodie del paradigma del santo, caricature dell’immaginario del peccatore, sono personaggi e non persone, sono maschere. Il primo è perfetto, così perfetto nella sua ricerca di religiosità senza sbavature che esagera e risulta essere non credibile. Anche il peccatore esagera, anche nella conversione, non ci sono sfumature. Sono due ruoli interpretati alla perfezione. E infatti la parabola non funziona, la trappola non scatta. Non riusciamo a identificarci in nessuno dei due personaggi e se non ti identifichi non puoi rimanere impigliato nella logica delle parabole e quindi, semplicemente, la parabola non funziona.
Non c’è stupore, risulta essere solo un racconto edificante. Puoi essere il più santo del mondo ma se odi gli altri e sei presuntuoso sei il peggiore di tutti. Puoi essere il peccatore incallito ma se ti penti puoi diventare meglio di un santo. Tutto qui? Possiamo tentare di interpretare i gesti dei due personaggi, possiamo giocare con le parole, possiamo fare tutto quello che vogliamo ma la morale rimane questa e non ci sconvolge più di tanto, lo sapevamo già. Vien voglia di girare pagina e continuare la lettura. A meno che.
A meno che si carichi di maggior significato l’introduzione alla parabola che specifica essere raccontata per “alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”. E qui non è ancora parabola, è dichiarazione di intenti. Il Vangelo non dice di andare ad indagare i due personaggi della parabola, che infatti non presentano alcun tipo di complessità interiore, dice invece di interrogarsi su se stessi e sulle intime presunzioni di giudizio. Insomma, sul nostro modo di leggere il mondo. Non è il fariseo ad essere intimamente presuntuoso, e nemmeno il peccatore che spera di estorcere il perdono, sono io che leggo il presuntuoso. E infatti mi pare che in questo caso la trappola sia già scattata, ed è scattata ancora prima dell’inizio della parabola stessa, il suo suono è stato secco e deciso: “sei sicuro di saper interpretare quello che vedi? Come lo interpreti? Come credi che Dio osservi queste due tipologie di uomini?”. Ecco la trappola, Gesù non sta raccontando una parabola, Gesù mi sta interrogando, mi affida un compito, un esercizio per misurare la mia attitudine all’umiltà. “Chi si umilia sarà esaltato”. Colpito! Non resta che provare a smascherare il nostro sguardo.
I due uomini salgono a pregare, il primo è un fariseo ipocrita, chiuso in se stesso, non vede altro che il suo tentativo di perfezionismo, e disprezza pure gli altri. Non serviva Gesù a dirci che questo non è esempio da seguire, e fin qui ci siamo, infatti il compito è altro: provare a cercare di scendere con sguardo intimamente umile, prendendo ad esempio lo sguardo del Padre che tende alla giustificazione e non alla condanna “(il pubblicano) tornò a casa sua giustificato”. Umiltà e desiderio di giustificazione. E mentre mi chiedo se sia esercizio legittimo ecco che ripenso a un’altra pagina di Luca, penso a due fratelli, a due modi di vivere il mondo e ad un padre misericordioso che umilmente giustifica. Mi torna un po’ di coraggio, forse la strada è percorribile. Esercizio diventa: “guarda con profonda umiltà i due uomini del vangelo, immagina di essere il Padre misericordioso”.
E al primo allora chiederei: “ma tu sei felice?”. Solo questo. Non essere ladro, ingiusto e adultero, digiunare e pagare le decime più del dovuto ti rende felice? Continua così. Cosa ti importa degli altri, cosa ti importa se hai fratelli che vivono in modo diverso da te? Non ti chiedo di essere per loro un esempio, non ti chiedo di convertirli, non ti chiedo nulla se non: tu sei felice nel tuo modo di vivere? “Ciò che è mio è tuo”, smetti di essere in gara con gli altri. Esercizio per me, che credo di essere intimamente giusto, è quello di non condannare questo fariseo e invece di provare ad accudire questa grandissima insicurezza, provare a guardarlo come una vittima del catechismo moralistico che ogni religione impone. L’esercizio è mio: provare a chiedermi se intimamente sento compassione per quest’uomo che non riesce a liberarsi dal confronto e dal dubbio atroce che Dio sia un padrone esigente. L’esercizio è mio, provare, davanti ai farisei di ogni tempo, davanti ai tanti tradizionalisti che fanno perdere la pazienza, davanti a chi prega e ragiona e vive la fede in un modo diverso dal mio, davanti a chi non mi capisce e mi accusa… davanti ai loro volti riesco ad essere umile? Questa è la posta in gioco. Riesco a vedere in chi mi sembra così lontano dalla verità (ma chi sono io per deciderlo?) un fratello con le mie stesse paure? Riesco a essere seriamente interessato alla sua felicità? Riesco a giustificare il più possibile gli atteggiamenti di paura e di chiusura? Giustificare non significa banalizzare, non significa che è tutto uguale, non è il primo gradino verso il relativismo ma è l’assunzione di uno sguardo paterno, il tentativo di intuire le ragioni, interrogare le fragilità, accompagnare alla maturità. E piangere per questo fariseo che probabilmente non riesce a vivere con la dovuta saggia leggerezza.
E così per il peccatore, guardarlo con umiltà. Guardarlo come si guarda un figlio. Evitare di usarlo come si usano gli esempi, non trasformarlo in “caso esemplare”, non trattarlo da convertito. Non esaltarlo in nome della sua scelta. Ma amarlo sinceramente e provare ad andargli incontro, provare a riempire con la compassione quella distanza che lui ha posto tra sé e il divino, tra sé e sé. Provare a correre incontro, come farebbe il padre misericordioso, provare ad abbracciare e a sollevargli lo sguardo.
Questa parabola non funziona, e si capisce il perché, manca un personaggio fondamentale, è come la parabola del figlio maggiore e del figlio minore ma senza il padre. In questa parabola manca colui che sorprende tutti, manca lo sguardo umile che esalta, manca chi si umilia per esaltare l’umanità altrui. Manca la sorpresa perché manca lo sguardo divino. Questa parabola è inutile fino a quando non comprendiamo che è un appello rivolto al lettore: diventa tu il terzo, fai irruzione nella parabola, fai funzionare la parabola, diventa tu lo sguardo che sorprende!
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