Una bella “rivisitazione”Ho ricevuto tempo fa, da un gentile amico “navigatore” questa splendida pagina che desidero condividere con tutti voi: si tratta di due storie ugualmente avvincentiMadre per sempreNon c’è gloria sotto terra
Madre per sempre, nella stagione che stagioni non sente. Nostro figlio Lorenzo.
Francesca e Riccardo Pesaresi “Femmina un giorno e poi madre per sempre, nella stagione che stagioni non sente”. Ho ancora nelle orecchie quel canto di De Andrè per Maria, perché è in quegli anni che Lorenzo venne al mondo, figlio, come tanti allora, di Ogino-Knaus, ossia di uno dei pochissimi incontri felici sfuggiti alla rigida disciplina del controllo naturale delle nascite. Insomma, teoricamente potevamo far l’amore quel giorno senz’altro pensiero che la vicendevole gratitudine, e invece rimasi incinta, con qualche domanda in più rispetto alle altre volte. Di figli ne avevamo già tre e ci eravamo appena trasferiti da lontano: ero davvero una vittima del potere fallocratico, come mi definì sbrigativamente una femminista incontrata per caso? Oppure quella prova avrebbe più compiutamente dato alla mia femminilità il caro nome di madre? Ora soltanto posso rispondere, alla maniera dolorosa però del “mio” santo Francesco che disse: “Ora sono certo di avere dei frati” quando alcuni gliene morirono martiri. Ecco, ora anch’io sono certa di essere madre, perché Lorenzo, dopo vent’anni di vita sempre più precaria e difficile, già da tre riposa al riparo da ogni male e da ogni pericolo, ha varcato prima di noi il confine dell’umana conoscenza. E’ nella gloria, come afferma risolutamente la Chiesa? Io vedo solo quel fazzoletto di terra che mi ingegno di tenere decoroso e fiorito; il babbo sente quasi un po’ di fastidio anche per questa incombenza. Il corpo morto è per lui qualcosa di inutile da buttare, per me è invece l’ultima domanda, la più radicale di tutte, che questo figlio ci ha ben posto fin dal principio. Forse un figlio è per un padre il naturale prolungamento del suo vigore ed è difficile doverlo accudire quando ormai è adulto e cominciano a mancare le forze. Per la madre invece un figlio è l’altro che nello stesso tempo è te, qualcuno che ti lega al mistero della vita e dell’amore al di là di ogni ragionamento ed istinto, di ogni parola che possa essere detta. Non è possibile dimenticarsi di lui, cercare dei propri spazi per non vederlo soffrire, allontanarsi dalla croce se lui ci è sopra. E’ questa la stagione che stagioni non sente. Né ragioni, forse. Mi rendo conto di aver privilegiato nel tempo il figlio rispetto al padre, ma non ho saputo fare di meglio e in fondo siamo fieri di ricordare Lorenzo capace di autoironia e perfino curioso di esplorare gli aridi spazi della solitudine e degli impedimenti in cui si trovava, una persona compiuta insomma, nonostante tutto. E poi c’è il discorso della fede. Proprio nei giorni del parto, mentre ancora in ospedale tentavo di decifrare lo sconcertante sguardo interrogativo del mio piccolo nuovo, intercettai pure lo sguardo altrettanto misterioso e sconosciuto di chi semplicemente portava la comunione a una vicina di letto. Invidiai senza ritegno quella semplice fede in un gesto che mi era sì familiare da tempo, ma come dovere domenicale, non certo come felice gioia in cui tuffare liberamente ogni preoccupazione, opportunità offerta con amore e discrezione infinita, senza condizioni. Un campanellino suonato appena in una corsia di ospedale rimise in moto la mia tiepida fede, di quelle da vomitare per intenderci, anche se già allenata in qualche modo a resistere agli assalti del nulla. Improvvisamente mi divenne desiderabile e necessario ciò che avevo scartato come vecchio e bigotto. Dio solo sa quanto sia cresciuto da allora il mio bisogno di essere amata e perdonata nella mia singolarità ma insieme a tutti gli altri, resa così capace, a mia volta, di amare specialmente quella creatura segnata dalla sofferenza innocente che io stessa avevo messo al mondo. Da Lorenzo ho imparato perfino la necessità di farmi perdonare la sollecitudine con cui l’ho accudito, mentre il babbo non conosce sollievo di preghiera. Forse è anche colpa mia che non ho saputo capirlo e consolarlo fino in fondo e poi da troppo tempo non so ridere come Sara perché mi sento così vuota e consumata che mi sembra di avere mille anni. Però ho l’inestimabile dono di guardare il mondo con occhi ormai trasparenti e puliti dal pianto, amo teneramente tutto ciò che è piccolo e buono, ed anche ciò che è grande e cattivo, spaventoso. E so segretamente che la fonte di questo amore benedetto e sempre nuovo è in quel piccolo boccone di pane bianco e insipido che raccoglie sull’altare tutta la pena del mondo per ridonarla trasfigurata in speranza rigogliosa a chiunque ne voglia. Lorenzo mi ha fatto un ultimo dono prezioso morendo all’alba del santo giorno della Trasfigurazione, una festa così nascosta nel cuore dell’estate eppure a me già da tempo carissima. Mi è sembrata come una carezza di perdono, un ultimo grazie per averlo accompagnato fin lì lasciandolo in pace. Nei tre giorni (il segno di Giona!) dell’agonia, ci avevano proposto di avviare su di lui le procedure di espianto. Inizialmente mi era sembrato di dover acconsentire, ma poi ho pensato che non avevamo il diritto di disporre del suo corpo senza potergliene chiedere permesso. O forse non ho avuto il coraggio di soffrire anche l’allontanamento tecnologico da lui proprio nel momento più sacro della vita dopo averne condiviso ogni minuto. Mi è rimasta un’ombra di rimorso su quell’ultima notte che passai sola con lui, come se l’avessi rubata ad altre vite, ma a questo prezzo ho potuto vederlo morire, silenzioso e sottomesso come la mia preghiera che continua ad essere piena di lui anche se non so cosa sia la risurrezione e la gloria. Forse lui lo sa ormai, e questo mi basta per tentare di nuovo ogni giorno di rendere degna di essere vissuta la povera vita che ci resta nella nostra vecchia casa in cui rischiamo di stare soli in due. E poi ci sono i bambini, i figli degli altri figli che sempre ricordano lo zio Lorenzo con una fiducia così semplice e sicura che non può andare delusa. E i “miei” bambini del catechismo che quest’anno faranno la prima comunione. Quale onore partecipare così da vicino alla maternità della chiesa, quale consolazione condividere con altre madri la fatica di credere anche quando i figli sono fonte di dolore! Gioia e dolore hanno il confine incerto nella stagione che illumina il viso: è sempre De Andrè. Vorrei tanto che tutti i predicatori del Vangelo sapessero tradurre per noi, povere pecore vecchie e stanche, la buona notizia del regno che viene con la leggerezza pensosa e poetica di una bella canzone. Forse così anche le vite nascoste e sempre in pericolo come quella di Lorenzo troverebbero il loro giusto posto nella comunità parrocchiale, darebbero sale alla preghiera di tutti ricevendone dolce consolazione. in: “Servitium”, III 157 (2005). Ed ora vorrei condividere con chi passerà … una pagina di Enrico Peyretti…. così come si condivide un po’ di pane…Non c’è gloria sotto terra. Mio fratello Pier Giorgio.
Il cimitero dei miei vecchi, e ora anche di mio fratello Pier Giorgio, più giovane di me di quattro anni, è alla periferia del nostro paese d’origine, nella piana a occidente della città. Vicino c’è il vecchio aeroporto, ora campo di volo turistico, dove doveva atterrare il Grande Torino, quando si schiantò a Superga, la notte del 4 maggio 1949, durante un nubifragio. Nel largo cielo ora volteggiano silenziosi gli alianti, dal grande corpo leggero, tutto ali. Il campo del sonno dei morti è incoronato dal perfetto semicerchio delle Alpi, 180 gradi dal Monviso al Gran Paradiso. Lo guardi con rispetto. Ti senti osservato, come al centro di un’aula ad anfiteatro. Dai primi di novembre è una corona bianca, quasi la chioma rispettabile di una nonna che sei sicuro di trovare sempre in casa. Una corona merlata, regale nobiltà degli umili – e chi più umile dei morti, anche quelli dalle ricche tombe? Come se fosse costruita, la magnifica corona, attorno a questi poveri fuorusciti dalla vita, privati e liberati da ogni onore regale, se mai l’hanno avuto. Il Viso si erge a sinistra, come un’idea. Il Gran Paradiso è una lontana calma altezza, che ha meritato il suo nome. Il tema che mi avete suggerito, “corpi gloriosi”, mi evoca questa gloria sopra il mio cimitero: tanta luce; un’immensa cupola azzurro aperta, senza fine; il volo dolce degli alianti in braccio al vento-spirito; la corona alpina che è un abbraccio, non un’insegna di potere. E qui la distesa dei corpi, nel seno della terra, seminati continuamente dalla vita, come il grano gettato dai contadini nei solchi aperti, in questo novembre, per quando sarà il tempo. Nessuna gloria nei poveri corpi, tutta una bellezza attorno a loro, sopra di loro, come per consolarli, curarli, rallegrarli. So come si lava e si riveste di un bell’abito un corpo morto. “Corpi gloriosi” non è un’espressione che mi piaccia. Non mi piace la parola gloria. Lo so che è importante nella Bibbia, ma non mi piace. Preferisco credere a Dio in intima vicinanza più che in sfolgorante gloria. Un Dio gran vincitore non mi fa simpatia. La parola è troppo inquinata – anche nella Bibbia – di vittoria e di trionfo, di una luce che fa troppa ombra attorno, di una forza che umilia qualcuno. Parola umana, troppo umana. Ma stiamo pure al tema. I corpi – compreso il mio, e il vostro – per i quali spero una più grande vita, dopo questa precaria, non li penso “gloriosi”. Li penso trasformati, trasfigurati, liberati dalle mille condizioni che ora li stringono. Leggo volentieri Paolo, in Prima Corinzi 15, ma come capirlo e dirlo nel nostro linguaggio? Oggi sappiamo che il corpo è un flusso di materia viva, in ricambio continuo. Non abbiamo un solo corpo, dunque. Ma è sempre il nostro, è noi stessi, quando gode e quando soffre, quando fiorisce e quando si ripiega e muore. Non potremo riavere questo corpo, ovviamente. Non sarà questo mirabile e mortale complesso di organi vivi, più geniali di qualsiasi tecnologia, destinati a morire e marcire, che possiamo sperare di veder risorgere, quando diciamo “aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”; “credo … la resurrezione della carne”. Non sarà questo corpo, caduco come le foglie che calpestiamo ogni autunno, ma sarà, sì, questo qualcosa che si modella nella forma fisica unica e nell’espressione del nostro volto personale, il tuo e il mio, volto che è vertice e luce di tutto il corpo, che ha l’infinito linguaggio degli occhi, volto che è la cosa di noi a cui più teniamo, che di più siamo; sarà questo qualcosa che vivrà in modo nuovo. Saranno i volti cari che non vediamo più, se non in fotografia e nella faticosa memoria, che avranno nuova vita. E come? Paolo fa le sue legittime ispirate immaginazioni,che sono metafore dell’indicibile. Anche noi possiamo osare le nostre immaginazioni. Immaginare è necessario per dire in qualche modo questa speranza, anzitutto a noi stessi. Come potrà essere il corpo risorto? Potrà avere della materia? Sarebbe di nuovo un luogo limitato nello spazio-tempo, sarebbe di nuovo questa vita. Permettetemi di riprendere un discorso già osato in “Dall’albero dei giorni” (Servitium editrice, 1998). Forse risorgere potrebbe essere avere la materia come corpo (perché senza corpo non potremo stare), essere in tutto l’universo materiale, non come puri spiriti (non saremmo noi) ma viventi nella materia intera. I nostri corpi, ora, sono tremendamente localizzati, distanti tra loro. Gran parte del nostro tempo e delle nostre energie va nel cercare di superare queste distanze: guardarci, parlare, viaggiare, scrivere, radunarci. Ogni nostra espressione cerca di essere un ponte su tali distanze, cerca di comunicare. L’amore è contrastato dalla distanza. Ma anche vicini, i corpi ci separano. Questo corpo è una solitudine tesa. La distanza dei nostri corpi è superata, per qualche momento, nell’amore sessuale, che è un simbolo di compenetrazione, profezia di qualcosa di più, una breve estasi (uscita da sé), dalla quale ricadiamo però presto nel perimetro concluso dei corpi separati. Più dell’unione sessuale è compenetrazione dei corpi la gestazione materna; dal lato attivo privilegio delle donne, per questo più inclini alla solidarietà concreta, dal lato passivo esperienza originaria di tutti. Quella condizione di essere corpo in un corpo, ma sempre meno confusi, è nella prima memoria di noi tutti. Da quella unità beata siamo precipitati fuori in questa vita e forse ci parve di morire, mentre invece andavamo a vivere di più, ma con uno strappo di cui portiamo nell’anima, e persino nel corpo, la ferita. Forse, dopo la profezia della vita intrauterina, dell’amore sessuale, delle aggregazioni sociali e geografiche, delle somiglianze somatiche, delle comunicazioni umane fisiche e spirituali, cioè dopo la fragile ma tenace profezia della pace, arriveremo attraverso la morte ad essere così liberi e universali da essere insieme dappertutto, sempre “compresenti” (il termine tipico di Aldo Capitini) e pienamente comunicanti, con la memoria cara dei tentativi che ora facciamo di anticipare quella comunione piena dei volti e dei cuori. Forse avremo per corpo l’universo rinnovato, corpo vivo di ciascuno e di tutti, e le nostre identità non avranno più bisogno di separarsi per distinguersi, ma anzi, in quella grande unità, il volto di ciascuno sarà conservato e realizzato in tutta bellezza. Essere un solo corpo senza perdere l’identità può essere la speranza cristiana di somigliare chiaramente all’uni-trinità di Dio, persone non confuse ma perfettamente unite. Realizzare in modo universale, con tutti, l’amore e l’amicizia che ora riusciamo ad anticipare solo su piccolo raggio, sarà possibile ai nostri corpi diventati senza limiti né distanze. Mi piace pensare che così sono già i nostri morti (è difficile porre la resurrezione lontana nel tempo, là dove il tempo non c’è più): i nostri sensi non sanno vederli né udirli, ma sono qui con noi, attorno a noi, nelle cose tutte, e ci accompagnano nei nostri tentativi di vivere. Così è, in grado massimo, di Gesù, nella fede cristiana. Così è anche, in modo iniziale, di noi se desideriamo e crediamo nel più grande orizzonte della vita. In questa metafora mi pare di vedere la verità del linguaggio antico “andare in cielo”, e anche dell’idea tanto diffusa della reincarnazione. Il nostro corpo attuale sarebbe un tentativo, un esperimento, ma anche un vero inizio, un embrione, che non va perduto. Chi ha fatto la vita e l’ha riempita di desiderio sa custodirla e portarla a compimento. Risorgere sarebbe come nascere, dopo il travaglio del morire, crescendo da questo corpo limitato al corpo-di-corpi, universale e comune. L’aldilà, allora, sarebbe veramente qua, dietro lo schermo che ferma l’occhio, ma non la fede e il pensiero. Il mondo acquisterebbe, starebbe acquistando, tutte le sue componenti, il suo valore compiuto come corpo vivo dello spirito che lo pervade. Un corpo da custodire e proteggere, da non lasciar violare e uccidere. E’ solo una metafora, tra molte possibili, che dice e non dice ciò che tuttavia non possiamo non pensare. Ma dunque, il corpo che avremo sarà “glorioso”? Chiamatelo così, se vi piace. Io esito. Immaginare è lecito, ma subito è necessario tenere a freno l’immaginazione. Si tratta di sperare la vita nonostante la morte, senza sapere come, senza vedere. Ma, se mi dite glorioso, io rischio di guardare indietro, dove vedo, più che in avanti, dove non vedo. Corpo glorioso è il corpo giovane, sano, forte. Pier Giorgio era il più grande e forte di tutti noi. Gloriosa, se ha senso la parola, era la sua prestanza in montagna, il portare a spalla in discesa l’amico con due caviglie rotte, il reggere a due bivacchi nella bufera sulle Grandes Jorasses, il gettarsi per primo in ogni fatica come nelle discussioni politiche e nell’abbraccio. Vivens homo gloria Dei. Non da morto, ma da vivo, l’uomo è una gloria di Dio. Quel suo corpo forte e generoso, io l’ho visto lungo tutto un anno roso inarrestabilmente dal tumore cerebrale, grande come un orecchio, incurabile. L’ho visto massacrato dal male, sconquassato come barca sfasciata dai marosi. Ma quale gloria!…Nel cimitero luminoso, la gloria non è sotto terra, dove c’è solo buio. Per sperare e attendere una vita più piena, di là dal buio, devo saper vedere la “gloria”, non la potenza, ma la forza e la bellezza di questa vita, che pure è un soffio. Devo difendere questo filo d’erba, assolutamente, perché chi uccide, noi tutti quando uccidiamo, uccidiamo l’universo – materia e spirito – presente nella più piccola delle sue vite. Dio è il solo che non uccide, ma crea, cioè cura. (in Servitium, III 157 (2005), 115-119).
Stamani ho incontrato queste parole del profeta Isaia: “Io che apro il seno materno, non farò nascere?” dice il Signore; “Oppure, chiuderò il seno io, che faccio nascere?” dice il tuo Dio. Rallegratevi con Gerusalemme ed esultate con lei, voi tutti che l’amate; gioite con lei di vera gioia, voi tutti che portate il suo lutto, affinché succhiate, fino alla sazietà al seno delle sue consolazioni; affinché beviate e vi dilettiate alle mammelle della sua gloria. Poiché così dice il Signore: “Verserò su di lei, come un fiume, la pace e, come un torrente in piena, la gloria delle nazioni. I suoi piccoli saranno portati in braccio ed accarezzati sulle ginocchia. Come una madre consola suo figlio, così io consolerò voi, e sarete lieti in Gerusalemme. Quando vedrete queste cose, i vostri cuori saranno nelle gioia e le vostre ossa, come erba, riprenderanno vigore”. Ave Maria (testo – F.De Andrè)
E te ne vai, Maria, fra l’altra gente Sai che fra un’ora forse piangerai Ave Maria, adesso che sei donna, Femmine un giorno e poi madri per sempre
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