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Eternità: un mistero

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Eternità : un mistero

                                                                          

Un’eterna altalena fatta di ricordi

 

 

 

Una deformazione professionale mi porta sovente a parlare con gli esempi che, da giovane mamma ed insegnante, sapevo trovare con i miei bambini. Ricordo che quando morì tragicamente un papà di una mia piccola alunna, dovendo parlare della “morte” raccontai un aneddoto che mi fece avvicinare a loro, senza sconvolgere quelle piccole menti. Si trattava in verità di un articolo scritto da Luca Goldoni che rispondeva ad una madre che aveva perso il suo bambino: “Facciamo conto di trovarci in cima ad un monte e di vedere, giù nella valle, snodarsi una linea ferroviaria. Lontano a sinistra c’è un treno che avanza e che, poi si ferma improvvisamente perché una frana è caduta sui binari ed ha ostruito la linea. A destra, sempre lontano, c’è la gente che aspetta il treno. Noi che siamo in cima al monte, nell’attimo stesso che il treno si ferma davanti alla frana, sappiamo già quello che ignorano i viaggiatori della stazione di arrivo e che, sapranno solo tempo dopo. Perché tutto questo? Perché noi abbiamo la visione delle alte sfere, perchè guardiamo dall’alto e perché in alto siamo più vicini a Dio” . 

 

Oggi vorrei aggiungere che chi sta in alto non ha il limite della concezione spazio-tempo e del prima-dopo. Per quelli giù a valle la causa e l’effetto sono staccati nel tempo e solo più tardi i viaggiatori in attesa conosceranno la causa (la frana che ha fermato il treno) e risentiranno dell’effetto (il ritardo del treno). Ma noi dobbiamo imparare a guardare dall’alto e a considerare le cose nella dimensione dell’eternità.

 

Ricordo ancora, quando ero bambina, che mi fermavo a pensare a questa parola: eternità… e venivo colta dal panico. Nella mia piccola esperienza tutto era circoscritto ed io sapevo misurare le cose solo con il mio “..e poi? … e poi? … e poi?”  Oggi cerco di pensare all’eternità come coloro che, sulla cima del monte, guardano gli uomini nella vallata, che aspettano il treno e… mi metto nelle mani di Dio.

 

 

 

Edda CattaniEternità: un mistero
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Eternità

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Eternità

(Luca 20,27-38)
Per i nostri Cari che sono entrati nella Gerusalemme Celeste

(Alessandro Dehò) 

20121012-aereo-in-partenza

Una bellissima storia di sterilità. Satira pungente quella dei sadducei: una moglie che accompagna alla morte sette mariti senza lasciare figli. Una donna che muore, alla fine, sterile. Storia geniale che diventa occasione per deridere l’idea di una vita futura ed eterna, quella che Gesù stava cercando di narrare: con quale marito risorgerà la moglie? Satira. Ma quando la satira è pungente svela la verità. E vanno ringraziati i sadducei che, inconsapevolmente, svelano la sterilità che abita ognuno di noi. La sterilità dei nostri tentativi di opporci alla morte imponendo discendenze: ma mettiamo al mondo sempre e solo vite a termine, storie che iniziano a morire nel momento stesso in cui emettono il primo vagito, l’eternità non passa dall’imposizione della discendenza, alla fine possiamo tramandare solo un nome, ma cosa è un nome se non l’involucro vuoto di una storia che non sopravvivrà nemmeno alla memoria?

L’eternità non passa dalla discendenza imposta nemmeno se nascessero figli, l’eternità passa invece da una sterilità custodita e ad accolta. La sterilità di chi vive la vita come Segno, come rimando a una pienezza che sarà. La sterilità di chi sente di non possederla fino in fondo la vita, di chi vive il tempo come un dono e accoglie ogni respiro con gratitudine. Sterilità di chi vive la precarietà del viandante, cammino lieve, soffio sapienziale. Essere un segno, dell’Infinito, ma sempre e solo un segno. Perché tutta la realtà non è altro che un Segno dell’Eterno. Quando amiamo e siamo amati sussurra in noi l’Eterno: la nascita di un bambino, un gesto di perdono, una lacrima, la ruga di un vecchio, l’ultimo respiro, ogni nostalgia, la bellezza della poesia: tutto l’Amore è Segno dell’Eternità. Quando i nostri gesti non narrano l’Eterno Amore siamo già morti, qui, adesso, è già inferno.

Gesù ci chiede di liberarci dall’ossessione di imporci sulla vita, dalla pretesa di lasciare il segno del nostro passaggio per imparare a diventare noi segno dell’Amore, segno dell’Eterno che chiede di raccontarsi in noi, segno del Suo Passaggio: Pasqua. Vivere precari e leggeri facendo esperienza dell’Amore che qui e ora parla già la grammatica dell’Eterno, la resurrezione si impara amando. Entrare nella logica del segno, fragile eppure così luminoso, ci permette di non pretendere più nulla, passare dalla pretesa, che è atteggiamento violento di chi prende (“prendono moglie e prendono marito”), alla logica dell’accoglienza (“…degni della vita futura e della resurrezione non prendono né moglie né marito”). Accoglienza delle mie e altrui debolezze, siamo solo segno dell’amore non siamo l’Amore. Ma anche accoglienza senza pretesa della realtà: la mia famiglia, la mia comunità, la mia chiesa… non può essere perfetta. Chiedere alla storia di essere segno di Altro, che non si appiattisca sul presente, che mi regali, anche solo per brevi spazi, il Suo volto, il resto è imperfezione da accogliere con misericordia.

Vivere precari e leggeri, sapendo che siamo solo segni imperfetti dell’Amore, ci permette anche di riconciliarci con i nostri padri. Con chi ci ha consegnato al mondo. Non sono stati perfetti, non potevano, fortunatamente. La storia dei sadducei ci aiuta a deporre la pretesa di essere accuditi, custoditi, accompagnati. Deporre la pretesa. Se accade, quando accade, è grato stupore. Mi pare sia la mancanza di prospettiva eterna a renderci così spietati con la storia passata. Uno dei momenti che preferisco quando celebriamo i battesimi in comunità è quando i padri salgono all’altare ad accendere la candela battesimale al cero pasquale. Sono impacciati e intimoriti, a volte non riescono ad accendere la candela, spesso si spegne appena dopo. Sono belli nella loro fragilità questi giovani padri, belli quando rallentano per non far spegnere una luce che non possiedono, belli quando proteggono quella fiamma con delicatezza non abituale. Solo quando sapremo guardare con tenerezza i nostri padri diventeremo a nostra volta goffi e bellissimi segni dell’unico Padre.

Bella la storia dei sadducei ma anche terribilmente triste perché non è altro che la narrazione di una diabolica ripetitività di gesti sempre uguali: prendono moglie e non hanno figli, per sette volte, pienezza dell’assenza. Poi arriva la morte, ed è una fortuna, un respiro di sollievo. Finisce questa farsa. Terribile la storia dei sadducei proprio per questa sua ripetitività ossessiva. Ecco perché Gesù inserisce un elemento di novità: “non possono più morire perché sono uguali agli angeli”. E a me vengono in mente i biblici angeli che hanno incontrato Abramo all’ingresso della tenda, niente ali ma piedi impolverati e occhi profondi da tuareg, occhi che hanno visto Dio. Gesù inserisce, per comprendere la bellezza di questa vita, l’elemento della “trasformazione”, diventeremo come angeli, tuareg con negli occhi la luce di Dio.

“Non possono più morire” perché la morte è già avvenuta, avviene sempre, il seme per dare frutto ha accettato di trasformarsi. La vita che viviamo, proprio perché segno, vive nell’attesa di fiorire a vita eterna. La vita è un lungo e lento cammino di trasformazione: “ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore, e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco […]. Si semina corruttibile e risorge incorruttibile” (1 Cor). Vivere sotto il segno della trasformazione è elemento fondamentale per capire il meccanismo segreto della vita. Siamo in trasformazione, siamo seme che forza le pareti in attesa di mettere radici, cambiamo continuamente e questo cambiamento è elemento necessario per non morire. Il seme è pura speranza, non sa bene come diventerà, come sarà, è solo un elemento di promessa che si affida al tempo. Ma il seme sa bene che se non cambia rimane definitivamente vuoto. Il seme ha solo un compito: continuare a trasformarsi, non impedire il processo di cambiamento. Cambiare significa far morire la parte vecchia per restare fedeli alla promessa. È uno sporgersi con fede sul futuro, fa paura, perché ci si abitua a ciò che si è. Riesce a cambiare solo chi è attratto da una forte Speranza.

Eternità è questa forza che ci chiama a cambiare trovando di giorno in giorno le forme più idonee per essere fedeli all’amore. L’amore di due fidanzati è chiamato a trasformarsi per reggere gli urti della vita, ma che bello se quell’amore muore e risorge continuamente e prende casa negli occhi e nelle rughe della vecchiaia. Ma anche, che segno potente trovare ancora amore negli occhi di chi ha vissuto delusioni o legami andati in frantumi: la persistenza dell’amore che si trasforma in dialogo con gli eventi della vita.

Accogliere il bisogno della trasformazione ci permette di sentire chi siamo noi veramente, non figli dell’eterna ripetizione sempre uguale ma uomini in costante processo di morte e resurrezione, trasformazione che ci porta a risorgere continuamente qui, di segno in segno, fino a quando metteremo gli occhi negli occhi di Dio. Di quel Dio a cui apparteniamo. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Il Dio è il Dio di ognuno di noi. Passare dall’imposizione del nostro desiderio di onnipotenza all’umile e grata scoperta di appartenere al Dio della vita che ci chiama continuamente dall’Eternità.

Edda CattaniEternità
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