Dal diario di un malato
Tutto me stesso prima di morire.
Ringrazio P.V. per questo prezioso inserto che pubblico con emozione e gradimento, in quanto tanti sono stati gli spunti per meditare sul mio percorso, sulla realtà della vita e della morte, e come dalla sofferenza possa nascere il grande bisogno di “amare”.
La malattia e la sofferenza sono sempre state tra i problemi più gravi che mettono alla prova la vita umana. Nella malattia l’uomo fa l’esperienza della propria impotenza, dei propri limiti e della propria finitezza. Ogni malattia può farci intravedere la morte. Essa può condurre all’angoscia, al ripiegamento su di sè, talvolta persino alla disperazione e alla ribellione contro Dio. Ma può anche rendere la persona più matura, aiutarla a discernere nella propria vita ciò che è essenziale e far tornare la persona a Dio, il solo che può guarirla da tutto.
8 Ho paura, sono felice. Sono felice, ho paura. L’una cosa marcia di pari passo con l’altra. È anche in qualche modo visibile fisicamente. Da una parte la Bestia avanza, silenziosa e sotterranea – in buona parte sottocute come una talpa maligna che scava notte e giorno, colpisce improvvisa, provoca danni più o meno rovinosi. Ho perso l’occhio e l’orecchio sinistri e sento che fra non molto, se non cambia qualcosa, toccherà al braccio. Dall’altra parte, l’appetito da tempo è tornato, mangio, provo un piacere infantile nel buon cibo, ho ripreso a passeggiare, godo dell’aria, degli alberi, del verso degli uccelli, della terra dei parchi che calpesto, dell’odore della pioggia. Godo degli altri, specie di quelli che, standomi più vicini, mostrano attenzioni che mi riscaldano e che provocano anche in loro dei cambiamenti. Sono loro grato perché non c’è pietismo, non c’è retorica, non c’è nessuna gara di buoni sentimenti. Tant’è che la vita continua anche con i fastidi quotidiani, con le piccole incomprensioni, con gli scontri attorno ai vecchi motivi del contendere che, in qualche modo, mi danno la rassicurante conferma di non essere stato isolato sotto una campana di vetro. Godo di tutto questo come di una scoperta, come di un nuovo inizio, pur sapendo che è una fine. Com’è possibile che ciò avvenga? Non lo so e mi limito a constatarlo. Mi limito a rimanere aderente alla mia esperienza, senza tentare di razionalizzare né dì teorizzare niente. Sento semplicemente che il mio corpo e la mia mente sono campo di battaglia di due opposte forze che, poi, opposte forse non sono ma, semplicemente le facce della stessa medaglia. Difficile da accettare ma è così. Mi viene spesso in niente l’immagine dì un film che ho già precedentemente citato e che, più passa il tempo, più mi appare come una metafora perfetta della mia condizione: la partita a scacchi che il cavaliere al ritorno dalle crociate ingaggia con la morte, nel Settimo sigillo di Bergman. L’uomo sa che perderà, ma tenta ugualmente, chiedendo al suo avversario, in caso di vittoria, una semplice dilazione per avere il tempo di rivedere la donna amata. In realtà è il tempo stesso della partita – il gioco degli scacchi, si sa, può anche durare molto a lungo per legittime pause – a concedere al cavaliere ciò che vuole. In una notte di orrore e di magia riscoprirà che l’unico senso che offre la vita è l’amore. L’amore tra esseri umani e per la natura, con il mistero che sottende. Questa scoperta o ri-scoperta fa in realtà di lui il vincitore della partita. Anch’io sono impegnato in una lunga partita a scacchi, anch’io so di perdere, ma, avendo accettato di giocarla, sto scoprendo l’amore così come non mi era mai capitato prima. Un amore di cui mi viene continuamente di parlare perché mi sembra che rivesta caratteristiche nuove e per me sconosciute. Un amore che, giorno dopo giorno, cresce attorno a me, suscitato anche da una mia attenzione per gli altri che non è mai stata così forte. Un amore che genera amore, al di là della paura e della morte o forse proprio perché tutte le persone che mi amano tifano per me in questa partita, iniziando a comprendere che la vera posta in gioco non è la mia sopravvivenza fisica. Da qui e solo da qui scaturisce la forza che mi aiuta a combattere la paura, una paura che non si può mai sconfiggere una volta per sempre e che, quando meno me l’aspetto, mi afferra alla gola. E questa forza che cresce anch’essa parallela, sempre più produce gioia perché mi allontana dall’incubo nel quale sarei immerso se non avessi trovato queste risorse. L’incubo che vedo vivere ad altri compagni di strada più sfortunati. Mi lascio andare alla corrente, per così dire, alla corrente nella quale confluisce il mio istinto vitale e che mi suggerisce di non oppormi a qualcosa che appare ineluttabile, perché il dolore nasce essenzialmente dalla non accettazione, dalla recriminazione, dalla rabbiosa rivolta dell’io che tende a non vedere limiti all’appagamento dei propri desideri e bisogni. Quante volte nel corso della vita ho remato contro, facendomi del male e adesso mi appare improvvisamente liberatoria questa mia nuova visione delle cose. Il fiume che va verso il mare ed io con esso. Non voglio sottraimi ad un inevitabile ciclo in cui i binomi si incontrano e si fondono, dolore e gioia, vita e morte. Tutto qua. Suggestioni poetiche di una mente che “vuole”, che “deve” trovare pace, per non farsi travolgere dall’angoscia e dall’orrore? Tutto è possibile, naturalmente, per chi si esercita come me da tanto tempo a stare in guardia contro le suggestioni, le mistificazioni e i deliri della mente. Tutto è possibile quando, in qualche modo, c’è “convenienza” a pensare una cosa piuttosto che un’altra. Quando, principalmente, non c’è autorità esterna a fornire appoggio o conferma. Eppure una sorta di istinto vitale, una voce che parte dal profondo, una voce che rispecchia una “sua” verità mi suggerisce dì andare avanti così, di seguire con calma e con serenità ciò che il cuore, prima della mente, mi suggerisce. Confido nel fatto, tutto umano, di essere stato riconosciuto sino ad oggi come intellettualmente onesto. È sufficiente, non è sufficiente? Me Io farò bastare. Riflettevo in questi giorni sul fatto che il cortisone che mi stanno somministrando e che è alla base della mia “rinascita” fisica ha, come tutti Ì medicinali, delle pesanti controindicazioni. Si può fare finché i vantaggi superano gli svantaggi, mi ha spiegato il mio buon medico. Ma non è così per ogni cosa della vita? Non hanno tutte le cose belle sempre delle “controindicazioni”? Che forse l’amore stesso di una madre – per dire il massimo della bellezza e della dedizione – non ne ha? E, se così accade per tutto ciò che ci circonda, non ci sarà in questo un significato profondo da cogliere e sul quale riflettere? Questa mia lotta quotidiana contro il dolore e le menomazioni che avanzano, contro la paura che tutto ciò provoca, contro la morte, in definitiva, che diventa un’immagine sempre più concreta, rafforza in me la capacità e la voglia di resistere. L’amore che vedo negli occhi, prima ancora che nelle parole, di chi mi sta vicino, si trasforma lentamente in gioia e, a tratti, inspiegabilmente, in allegria. In paradossale voglia di giocare, di lasciarmi andare, di far emergere quell’io-bambino soffocato da anni di “maturità” e che adesso, timidamente e con imbarazzo, bussa alla porta. Qualche sera fa, mentre ero già a letto e mia figlia mi consolava per un improvviso attacco di dolore, ho visto nei suoi occhi un sorriso diverso dal solito. Un sorriso sereno e tranquillo di chi ha intuito che ce la facevo a vincere quel momento e che, per questo, era felice. Vivo, insomma. Essendomi adattato anche stavolta alle nuove botte, ai nuovi colpi di catapulta – per continuare nella metafora della fortezza assediata –che mi stanno smantellando pezzo a pezzo. Vivo anche e sempre con la curiosità delle frontiere che continuamente sono costretto ad attraversare in una geografia del dolore e della paura che non avrei creduto possibile affrontare. La prua di una nave che scompare sotto ondate di schiuma in un mare affollato di giganteschi iceberg, un gruppo di inuit siberiani che si intravedono dietro a una montagna di aringhe, cavalli ai galoppo in una nuvola di polvere, un raggio di sole carico di pulviscolo che fende l’ombra di un vicolo della vecchia Istanbul, un bambino che mi osserva dietro un vetro rigato dalla pioggia, immagini, frammenti di immagini che si mescolano a una fitta di dolore, a un momento di paura. La malattia è per me anche questo, un frequente contrappunto tra ciò che il mio vissuto mi offre di bello e di vitale e la negatività che mi si rovescia contro, in un assalto sempre più serrato. È come se, nel momento in cui il mio essere rischia di essere travolto dalla sua fragilità, gli venisse in soccorso con queste immagini la sua parte onirica. Quella parte di sogno-avventura che, in un periodo della mia vita, sono riuscito a realizzare. Quel sogno che ha risvegliato ogni volta il mio io-bambino: la molla principale per rispondere all’insorgere della malattia con la scrittura. Scrittura terapeutica senz’altro, perché senza di essa non sarei riuscito a vivere bene questi ultimi anni e a fare il percorso che credo di aver fatto. Ed è così che mi viene da pensare, con emozione, che dal sogno di un bambino ormai alle soglie della morte si è dipanato un filo lungo una vita che ha prodotto realtà capaci di contrastarla. Avevo lasciato da qualche giorno queste pagine per tornarci ancora sopra, quando la situazione è ulteriormente peggiorata. Tanto da rendere consigliabile un breve ricovero all ‘hospìce dove mi curano amorevolmente. Oltre ad essermi indebolito tanto da fare molta fatica nel sollevarmi da solo, oggi la bocca mi si è ulteriormente chiusa. Faccio sempre più fatica a mangiare e, quindi, anche a parlare. Ma la voglia di scrivere non mi abbandona e vorrei testimoniarla finché è possibile. Perché è in questo scrivere il mio conforto e la mia forza, la sicurezza di sapere che non resterò veramente solo finché sarò in grado di comunicare. Il peggio è tutto avanti a me e allora ho bisogno di pensare alle persone a me care che mi stanno intorno perché è da loro che nasce in definitiva il nutrimento della mia scrittura. Da mio figlio che a giorni si laurea, da mia figlia che ha finito oggi la sua sessione estiva di esami, dalla mia ex-compagna che mi sta vicino e mi legge con amore un libro, dalla mia ex- moglie che mi ha riempito il freezer con i suoi buoni piatti. Dai miei amici tutti che telefonano e mi vengono a trovare e mi raccontano storie. Da tutte queste persone care insomma che mi danno il senso prezioso di una vita che continua, così grande e generosa da accogliere come sua “logica” componente anche la mia morte.
13 luglio 2007
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