La manifestazione dei Figli di Luce
Prof. Filippo Liverziani
Filippo Liverziani filosofo della religione, ha insegnato nella Pontificia Università Gregoriana e nella Pontificia Facoltà Teologica «Marianum». Parapsicologo di frontiera, ha condotto molte centinaia di sperimentazioni di medianità. Ha fondato in Roma il Convivio, centro dì studi e comunità dì ricerca, che promuove Seminari della Speranza in varie città d’Italia.
dal quaderno17
Chi pratica la medianità in maniera non volgare e spicciola, ma spirituale, religiosa, è
persona di sensibilità etica abbastanza viva. Nella mente e nel cuore di questo soggetto
sensibile viene a porsi abbastanza presto il problema se le comunicazioni siano lecite o
meno.
Decenni di studio e vari anni di esperienze dirette, metodiche, portate avanti con tutto
il possibile rigore, mi hanno convinto che noi possiamo veramente comunicare con delle
anime disincarnate.
Questo per quel che riguarda la possibilità materiale. Per quel che, poi, riguarda la
liceità, le repliche ottenute via via dalle entità stesse mi inducono a una risposta un po’
articolata: non si può, invero, concludere che le comunicazioni siano tutte lecite
indiscriminatamente in qualsiasi circostanza, o che siano tutte illecite e sconsigliabili in
blocco.
Ci sono momenti in cui le anime non vanno “disturbate”: soprattutto quando sono
impegnate in un cammino di elevazione spirituale che richiede una totale applicazione e
concentrazione di energie e, a tal fine, anche un certo oblio temporaneo della vita passata
sulla terra. L’anima si deve distaccare dalle antiche passioni, deve lasciar cadere da sé le
scorie dei risentimenti. Giova, allora, in quegli stadi di purificazione, che tanti ricordi
rimangano sospesi: “Avevo nemici. Ma chi erano? E chi se lo ricorda! Ero attaccato a
tante cose. Ma, precisamente, a che?” Questo temporaneo oblio (sottolineo: temporaneo)
rappresenta una tale scorciatoia, costituisce un tale aiuto all’ascesi dell’anima che, se non
fosse così largamente praticato (come risulta alle nostre ricerche medianiche),
bisognerebbe davvero inventarlo!
Ci sono altri momenti in cui un’anima viene a comunicare col pieno “permesso di
Dio”, com’ella stessa lo chiama. La nascita del Movimento della Speranza è legata alle
manifestazioni di quelli che vengono chiamati i “figli di luce” o “ragazzi di luce” o
“giovani di luce”, trattandosi il più spesso di anime trapassate in età assai giovane. Le
loro manifestazioni medianiche rappresentano un fenomeno esteso e profondamente
significativo di questi ultimi quindici anni.
In un altro mio saggio ho chiamato questi ragazzi i “nuovi angeli”. “Angelo” deriva
dal greco ánghelos che vuol dire “messaggero”. I figli di luce vengono ad annunziare ai
genitori, e per tramite loro a tutti gli uomini e donne viventi nella condizione incarnata su
questa terra, che esiste un aldilà, dove la vita continua dopo la morte fisica.
Un tale annuncio è di grande conforto per chi ha perduto, in apparenza almeno,
persone che gli erano carissime, la cui privazione gli ha reso l’esistenza quotidiana vuota
e triste.
In luogo di “consolazione” preferisco dire “conforto”. Poiché non si tratta più di un
mero fatto consolatorio di natura intima, personale e privata. Qui ci sono esperienze reali,
constatabili anche in maniera più oggettiva, e sono esperienze che indubbiamente danno
“forza” alla tesi della sopravvivenza.
I fatti non si limitano a suggerire con forza la sopravvivenza. La manifestazione dei
figli di luce ha per noi un valore ancora più alto: attraverso di essa si fa strada un
messaggio religioso. Questi “nuovi angeli” ci portano divine “parole di vita eterna”. E,
poiché Dio si esprime, più che con parole, con potenza, la manifestazione dei nuovi
angeli è ricca e potente di segni.
Qual è la sostanza di questo messaggio? Esso ci dice che il vero aldilà è Dio stesso:
l’altra dimensione è lo stesso Dio trascendente e creatore, che si incarna nella sua
creazione per redimerla e compierla, per renderla perfetta.
Il divino messaggio, di cui sono potenti latori i nuovi angeli, ci ribadisce che noi,
creature di Dio, non siamo creati a metà e poi abbandonati. È un messaggio che
conferma la prospettiva cristiana: Dio ci ama senza limiti e ci destina alla sopravvivenza,
non solo, ma alla vita eterna.
L’aldilà è la dimensione religiosa per eccellenza, dove ciascuno è destinato a
purificarsi da ogni scoria di male e di imperfezione per non appartenere più a se stesso,
ma a Dio. E Dio, dal canto suo, se è vero che si prende tutto l’uomo, è anche vero che gli
rende tutto al cento per uno.
Una volta che ha purificato l’uomo, Dio lo restituisce ai suoi affetti e a tutto quel che
gli è caro. Gli restituisce le persone care, da cui non ci saranno più separazioni. Gli rende
care tutte le persone, quelle sconosciute come quelle mal conosciute, odiate, o anche solo
fraintese, che un diaframma di imperfezioni umane gli impediva di apprezzare nel valore
infinito che hanno presso Dio e di amarle come Dio le ama.
Tutto questo è reso possibile dal fatto che Dio, creando ogni cosa con infinito amore,
donandosi ad ogni realtà, incarnandosi in ogni realtà, consacra questo stesso mondo.
Le anime dimenticano la terra per un certo periodo, al fine di poter decollare nel cielo
dello spirito. All’ultimo, però, la loro istanza di perfezione vuole che esse siano
reintegrate nella loro umanità piena, in tutta la loro creatività, in tutto quel che hanno
appreso e realizzato.
Dopo la morte fisica le anime sono morte a loro stesse in tutto, anche spiritualmente,
nel distacco da ogni cosa realizzato anche attraverso l’oblio. Ma ora alla morte segue la
resurrezione, cioè la reintegrazione piena di tutti quei fattori che ormai non possono più
rappresentare alcun pericolo per l’attuazione spirituale, ma possono solo completarla.
Resurrezione vuole anche dire che le anime dei defunti verranno, alla fine, a
ricongiungersi agli uomini che ancora vivranno su questa terra. Resurrezione vuol dire la
discesa finale della Gerusalemme celeste, che agli uomini della terra apporterà i frutti di
santità accumulati nel cielo mentre ne assumerà i progressi, le conquiste, le attuazioni
della civiltà, delle scienze, delle arti, dell’umanesimo, perché tutte concorrano a
completare il regno di Dio.
Alla fine ci incontreremo di nuovo tutti. Corre, al presente, il tempo di grazia della
riscoperta dell’altra dimensione. È il tempo, questo, in cui lo stesso aldilà invita e motiva
tanti di noi a portare avanti una serie di comunicazioni medianiche. È una necessità di
studio. Ed è, prima ancora, la necessità di prendere coscienza che “esiste l’aldilà”, come
suona il titolo di un libro di testimonianza: volume che ha ottenuto singolare fortuna, e
non a caso.
In una tale prospettiva non c’è alcun dubbio sulla liceità di un certo tipo di
comunicazioni medianiche, purché attuate in un ceno spirito, con una metodologia
corretta e, s’intende, nella giusta misura.
Tanti uomini chiusi in un’angusta visione materialistica scopriranno che, nei fenomeni
paranormali, la stessa materia obbedisce allo spirito. Scopriranno la realtà dello spirito, la
sua sussistenza autonoma. Il formarsi, nella loro mente, di una concezione diversa del
mondo dei fenomeni potrà agevolare a tanti la scoperta di quel che ci può essere oltre.
I credenti trarranno conferma della loro visione spiritualistica. Gli stessi cristiani sì
sentiranno confermati nella loro fede. Scopriranno che, sostanzialmente, il vero aldilà è
quello che il loro credo già adombrava.
Noi cristiani ci troviamo in una posizione molto favorita. La nostra fede ci predispone
a comprendere le nuove esperienze nel modo giusto; e le esperienze medianiche ottenute
valide vengono recepite.
La spinta a questo cambiamento di posizione è venuta dal basso: da quell’opinione
pubblica dove trova la sua espressione anche il sentimento della gran massa dei laici
della Chiesa cattolica.
E la prima iniziativa da chi mai è venuta, se non dai pochi? Se l’ispirazione che
muoveva quei pochi era buona, certamente veniva da Dio. E ben pochi sono stati anche i
pastori di anime che hanno riconosciuto l’ispirazione divina di quei nuovi germi di futuro
che andavano maturando, di quelle idee nuove che andavano prendendo forma, di quei
nuovi movimenti storici che stentavano i loro primi passi.
Sono convinto che, analogamente, noi della Speranza siamo dei pionieri, degli anticipatori.
Lo siamo quali membri del genere umano e parimenti lo siamo quali membri della
Chiesa. Dobbiamo accettare la nostra solitudine, facendo leva solo sul conforto che ci
viene da Dio e dai suoi angeli, oltre che dalla solidarietà che ci lega l’uno all’altro. Ci
dobbiamo assumere Le nostre responsabilità di laici anche di fronte al clero.
Dobbiamo ricordare, a questo punto, che, in virtù del battesimo, tutti i cristiani sono
sacerdoti. Quello dei diaconi, dei preti, dei vescovi è solo un sacerdozio in un senso più
stretto e pieno. Un sacerdozio “ministeriale” specializzato è, certo, assai funzionale alla
vita della Chiesa. Questa, nel suo insieme, ha certamente bisogno di uomini investiti
della missione di guidarla, di insegnarne la dottrina, di amministrarne i sacramenti.
Questi sacerdoti per eccellenza costituiscono un punto di riferimento particolare, che
però non è mal esclusivo, poiché, ripeto, la Chiesa stessa ci insegna che sacerdoti siamo
tutti in quanto cristiani.
Come laico investito del sacerdozio universale dei cristiani, ciascuno di noi è abilitato
a rappresentare la Chiesa e ad agire nel nome di essa. Così, almeno in qualche misura, è
abilitato a surrogare il sacerdote in senso stretto ove questi sia assente o mal funzionante.
In varie circostanze i laici hanno non solo battezzato, ma raccolto le confessioni
(soprattutto dei morenti in battaglia). Oggi di frequente distribuiscono l’ostia consacrata
agli altri fedeli, dove il sacerdote non arrivi.
Tutti sanno, poi, che nel matrimonio i ministri del sacramento sono gli sposi, non il
prete. Pur sempre in nome della comunità ecclesiale, il sacerdote si limita a prendere atto
che il sacramento, nella sua parte ufficiale e pubblica, ha avuto luogo.
I laici sono molto importanti nella Chiesa. Láos vuol dire, in greco, “popolo”. Ora, la
Rivelazione è verità donata da Dio al suo popolo. È il popolo stesso che ha recepito e
maturato quell’ispirazione divina, non il clero come casta a sé. Kléros, in greco, significa
“la parte”. Il popolo, láos, include il clero nel suo seno, e il clero recepisce e matura le
divine ispirazioni in una col popolo. I vescovi passeranno, poi, a definire meglio, a
meglio interpretare quel che Dio ha rivelato a tutti. Vescovi e preti non rappresentano
affatto una élite aristocratica, né sono per nulla il canale privilegiato di una verità
esoterica data ai pochi e trasmessa segretamente tra quei pochi a loro uso e consumo.
Con ogni reverenza e con tutto l’apprezzamento possibile per il clero e per la sua
missione altissima, bisogna che i laici prendano coscienza del fatto che ciascuno di essi
partecipa al sacerdozio, alla profezia e alla regalità del Cristo. I laici non sono dei preti
mancati, né dei cristiani dimezzati.
Di fatto, questa moltitudine di sacerdoti, profeti e re è stata posta e mantenuta sotto
una tutela eccessiva. Il clero non gli ha accordato mai tutta questa grande fiducia. Di
fatto, e proprio agli effetti pratici, il clero non ha mai considerato il laicato alla luce della
sua piena dignità teologica.
Noi confidiamo che l’autorità legittima della nostra Chiesa vorrà alfine riconoscere la
positività, almeno sostanziale, delle nostre ricerche e del nostro atteggiamento di fronte
all’altra dimensione. Ma intanto bisogna che noi ci assumiamo tutte le responsabilità che
ci competono.
L’autorità della Chiesa non ci smentisce, assume un atteggiamento di prudente
riserva. Dobbiamo riconoscere che è molto saggio fare così quando le idee non si sono
ancora ben chiarite, quando i frutti sono ancora in fase di maturazione e un giudizio
prematuro potrebbe dimostrarsi avventato.
Intanto, però, sta di fatto che noi siamo lasciati senza un numero adeguato di sacerdoti.
In tali circostanze il laico deve ricordare di essere anch’egli sacerdote della Chiesa
in qualche modo e deve sapere assumere questo ruolo per se stesso e per gli altri.
Riconoscere a se medesimo un ruolo sacerdotale significa pure, nei giusti limiti,
decidere da sé, proprio come membro attivo della Chiesa, come soggetto che può parlare
e agire in nome della Chiesa stessa.
Tra i sacramenti c’è quello della “riconciliazione”, o “penitenza”, come viene
chiamato più tradizionalmente. Ha conosciuto le forme più varie attraverso i secoli.
Sono da confessare i peccati: ma, poi, i peccati quali sono? La scelta che noi, in piena
coscienza, abbiamo compiuto e manteniamo ci impedisce di considerare in modo
negativo le comunicazioni medianiche, in quanto tali. Parlo del fatto in sé, come pura
ricerca, motivata che sia da ragioni esistenziali o anche scientifiche; non parlo delle
imprudenze, non degli abusi, che ci possono essere e vanno evitati.
Da sempre la Chiesa si attribuisce la competenza di determinare il lecito e l’illecito.
Lo fa attraverso i suoi pastori di anime. Questi, però, non sono in grado di anticipare le
decisioni che i loro successori assumeranno in futuro, sulla base di valutazioni che
possono cambiare col tempo e dar luogo a valutazioni meglio approfondite e perciò
diverse.
Ecco, allora, che tanti fedeli dovranno chiedersi, con tutta umiltà, se certe innovazioni
non anticipino cose che la gerarchia oggi contesta ma domani approverà pienamente.
Dovranno, ancora, chiedersi se non spetti a loro stessi decidere quelle innovazioni in
piena autonomia. È quel che, appunto, farebbero proprio in quanto membri della Chiesa,
investiti in qualche modo anch’essi di una funzione sacerdotale, oltre che profetica.
La presenza attiva dei sacerdoti nella Chiesa è e rimane elemento di importanza
fondamentale. San Francesco d’Assisi, che non era un prete, e che molti vedono in una
falsa luce di religioso del tutto libero da condizionamenti clericali, inizia il proprio
testamento con queste parole: “Il Signore diede a me, frate Francesco, la grazia di
cominciare a fare penitenza… E il Signore mi diede tale fede nelle chiese sue… E poi il
Signore mi diede, e mi dà ancora, tanta fede nei sacerdoti, che vivono secondo le norme
della santa Chiesa romana secondo il loro Ordine, che, anche se mi dovessero
perseguitare, io vorrei ricorrere a loro. E se avessi tanta saggezza quanta ne aveva
Salomone e trovassi sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle chiese in cui essi
dimorano non vorrei predicare contro la loro volontà. E questi e gli altri tutti voglio
temere, amare e onorare come miei padroni; e non voglio in loro considerare il peccato,
perché vedo il Figlio di Dio in loro, e sono miei padroni. Faccio così, perché nulla vedo
con gli occhi del corpo in questo mondo dell’altissimo Figlio di Dio, se non il santissimo
corpo e sangue suo, che fanno scendere dall’altare e amministrano soli agli altri”.
È il momento di concludere questo discorso, che mi sono permesso di rivolgere ai
miei correligionari, con ogni considerazione anche per gli altri e in modo particolare per i
cristiani di confessione diversa. Dirò allora: noi non siamo protestanti, ma cattolici; e, in
quanto cattolici, abbiamo un vivo senso dell’importanza fondamentale del clero per
l’esistenza stessa di questa Chiesa visibile e militante sulla terra.
Noi amiamo i nostri sacerdoti, abbiamo un grande bisogno di loro e ce li teniamo ben
stretti. Ne abbiamo alcuni, che ci sono vicini con affetto e carità, non solo, ma con vera
comprensione. E vorremmo averne molti di più.
Ma anche ci rendiamo conto che ci troviamo a operare in un campo assai delicato, da
autentici pionieri. Ci assumiamo, pertanto, le nostre responsabilità autonome, anche
proprio di membri della Chiesa.
Così noi crediamo che, se siamo nel giusto, Dio è con noi e la stessa Chiesa di Dio
finirà per accordarci il riconoscimento più aperto e pieno. Ci affidiamo intanto al
Signore, che misteriosamente guida gli eventi umani per il meglio, fino alla piena
attuazione del bene assoluto e totale.
(continua)