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Ti parlo da una vita

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TI PARLO DA UNA VITA

 

Da GRAZIA MAGAZINE interviste

STEFANIA ROSSOTTI: «DA QUANDO NON CI SEI PIÙ»

VERA MONTANARI

 

 

Due amiche che non smettono di parlarsi, neanche dopo la morte. Nove mamme che hanno perso un figlio e non si rassegnano al silenzio. È il tema doloroso, eppure attraversato dalla speranza, del libro del nostro inviato Stefania Rossotti . Un viaggio al confine della vita. Ne parla con un’intervistatrice speciale…

Come si fa a intervistare l’intervistatrice per eccellenza? Stefania Rossotti è famosa, da noi in redazione, ma anche presso le nostre lettrici, per essere la giornalista capace di far commuovere e piangere anche il più refrattario e cinico degli intervistati.

O di far dire cose profonde, sensibili, intelligenti anche al più superficiale. Intervistarla è un’impresa anche per me, che sono il suo direttore. Ma mi ci sottopongo volentieri, perché il suo libro Ti parlo da una vita. Donne che non hanno creduto al silenzio di chi non c’è più mi ha colpito nel profondo.

Ci vuole coraggio ad avvicinarsi al limite che separa i vivi dai morti per cercare di rispondere a quelle domande che tutti ci siamo fatti: esiste qualcosa dopo? E com’è, come funziona, ha dei punti di contatto con noi? Per di più, Stefania sostiene che tutto è nato da un’inchiesta che le ho commissionato io.

Sul serio il progetto di questo libro è nato da un’inchiesta di «Grazia»?
«Sì, è partito tutto da lì. Tu mi hai chiesto un’intervista con Gemma Cometti (pubblicata su Grazia n.16/2011), che aveva perso suo figlio in un incidente e “comunicava” con lui. Qualcuno ha letto il pezzo che raccontava l’esperienza e mi ha chiesto di trovare altre storie per farne un libro. La prima risposta è stata no. Poi ho cominciato a pensare che forse questo contatto con il dolore degli altri avrebbe potuto aiutarmi a raccontare un mio dolore: la morte di una mia amica. Anzi della mia amica».

Ed è stato così? 
«Sì. Ho deciso di scrivere, ma a una condizione: avere il coraggio di raccontare anche il mio lutto. Ho utilizzato la mia storia come un filo per cucire le altre. Dalla morte di Claudia non ero riuscita a dire niente, nemmeno a piangere. Ero nel gelo. Poi si è sciolto tutto».

Quindi hai scoperto che con i morti si può davvero comunicare?
«Secondo me, sì. Ma resta un “secondo me”».

Non ti sto chiedendo una verità scientifica, dimmi cosa ne pensi tu.
«La verità? Io lo davo già per scontato. In qualche modo, lo sapevo. Con mio padre ho sempre parlato: non che lui mi rispondesse, ma io continuavo a parlargli. E mi sono sempre sentita molto protetta dai morti».

Quindi loro sono qui con noi? E l’aldilà esiste, ne hai, dopo tutti questi incontri, una certezza assoluta?
«Non è assoluta, è la mia certezza, molto relativa. Le persone che ho intervistato sono a vari stadi del dolore e del lutto: vicinissimi o lontani nel tempo. Ma tutte hanno trovato pace nei segni di questo contatto con i loro cari. Che avvenga attraverso un registratore, una medium o dei fogli scritti come sotto dettatura».

Trovano pace nei segni e nella fede.
«Vero, anche se la Chiesa continua, nonostante tutte le prove, a essere contraria a queste pratiche».

Immagino ci sia molta cautela perché è tanto facile approfittare del dolore e del bisogno delle persone.
«Infatti, a conquistarmi, nel mio primo incontro con Gemma, è stata proprio la durezza della mia interlocutrice: non voleva tirarmi dentro. Non voleva affatto convincermi. E invece ci è riuscita. Sai qual è l’elemento più toccante? Tutte le mamme che hanno perso un figlio erano spinte nella loro ricerca da un disperato bisogno, da una necessità quasi fisica. Una mi ha detto: “Non mi interessa rincontrare mio figlio in spirito. Voglio sapere che stringerò di nuovo il suo corpo”».

Come mai hai intervistato solo donne?
«Perché sono più disponibili, più disperate, più credenti e più ostinate. Come quella che si è consumata letteralmente le gambe affondandoci, giorno dopo giorno, i gomiti, con la testa fra le mani, in attesa della voce di suo figlio…».

E quella voce poi è arrivata. C’è speranza nel tuo libro. E qualche volta si ride anche. Come nell’episodio della donna che ogni sera dice buonanotte al figlio perso e decine di voci, dal registratore, rispondono: “Buonanotte, buonanotte…”. I mariti invece non partecipano, ma lasciano fare con l’aria di dire: sta male, è pazza di dolore…
«Una donna mi ha raccontato: “Tutti dicono di me: sta bene nella sua dolce follia”. Ma nessuna è pazza. Sono donne normali. Tranquille. Perfettamente integrate. Donne-mamme che mi hanno accolto con l’arrosto nel forno. Vite normali: piene. E dolorosissime».

Una delle intervistate dice: “È un’illusione? Pazienza, voglio tenermela per tutta la vita”.
«Sì, è così: è la loro strategia di sopravvivenza. Che ha qualcosa di mistico. Niente a che spartire con il paranormale».

Queste madri, però, non dicono: perché è morto mio figlio? Ma, dov’è? 
«E infatti, tutte vanno a cercarlo, finché non lo trovano. Nessuna molla mai».

Uno dei morti dice: “Sono vivo, vivo, vivo”.
«È vero, parlano di una vita che continua: le cose succedono ancora, le persone evolvono, addirittura crescono. Come se esistesse una vita parallela alla nostra».

E tu, alla fine sei riuscita a parlare con la tua amica Claudia?
«Non so, da che lei è morta sono circondata di farfalle. E una volta ho sentito il suo profumo, che peraltro non mi piaceva affatto, e subito dopo, nel mettermi il cappotto, qualcuno mi ha aiutato a infilare la manica. Ma dietro di me non c’era nessuno».

Non hai paura che adesso arrivino le critiche? Di essere trattata da credulona, ingenua, donnetta?
«Io ho raccontato delle storie. È il mio mestiere, lo faccio tutte le settimane. E quello che scrivo non so se è la “verità”; ma è quello che capisco e sento delle persone che incontro».

 

Edda CattaniTi parlo da una vita
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