GESU’ E IL TEMPIO
IL FLAGELLO DEL MESSIA
(Padre Alberto Maggi)
(Gv 2,13-22)
Secondo il Libro dell’Esodo, la prima opera alla quale Mosè si accinse, dopo la stipulazione dell’alleanza con il Signore, fu la costruzione del santuario, la tenda della presenza di Dio (“Essi mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro”, Es 25,8).
Nel vangelo di Giovanni, la prima opera alla quale si appresta Gesù, dopo il cambio dell’alleanza a Cana, è l’eliminazione del tempio (Gv 2,13-22).
La nuova relazione proposta da Gesù con il Signore è quella di un figlio con un Padre. Un figlio non ha bisogno di un luogo particolare per incontrare il padre, né di giorni stabiliti. Il figlio può sempre rivolgersi al padre direttamente, senza bisogno di alcun mediatore o di seguire alcun cerimoniale.
Con Gesù i sacri pilastri dell’antica istituzione sono ormai diventati inutili, e il Cristo inizia il suo esodo liberando il popolo dal tempio, dalla Legge e dal culto.
Inutili offerte
Con il gruppo di discepoli che si è formato attorno a lui, il Messia lascia la Galilea e si dirige al cuore dell’istituzione religiosa, Gerusalemme, la città santa, sede del tempio, la casa di Dio.
L’occasione della salita di Gesù a Gerusalemme è dovuta alla “Pasqua dei Giudei”, espressione inusuale, in quanto nell’Antico Testamento si parlava sempre di “Pasqua del Signore” (Es 12,11.48; Lv 23,5; Nm 9,10.14).
La Pasqua, in mano al clero, non è più la festa della liberazione dalla schiavitù, ma è una Pasqua a beneficio dei “Giudei”, i capi religiosi che, per mantenere il loro potere, tenteranno in tutti i modi di impedire l’esodo di Gesù.
In occasione della Pasqua, Gerusalemme si accingeva ad accogliere i circa centoventicinquemila pellegrini che vi giungevano per sacrificare l’agnello pasquale nel tempio (Es 23,14-17).
Gli agnelli, che dovevano avere determinate caratteristiche ed essere senza difetti (Es 12,5), venivano acquistati nel mercato situato sulle pendici del monte degli Ulivi (B.M. 88a), di proprietà della famiglia del sommo sacerdote, il potente Anania, che deteneva anche l’appalto delle macellerie di Gerusalemme: più che l’agnello, la vera vittima sacrificale era il povero pellegrino.
La festa di Pasqua era un’occasione di arricchimento da parte del clero e di sfruttamento del popolo, vittima e complice di un sistema di potere che riteneva procedesse da Dio e pertanto immutabile e indiscutibile.
Vanamente i profeti avevano denunciato l’ingannevole culto del tempio: “Che m’importa dei vostri numerosi sacrifici? – dice Yahvé – Io sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli. Il sangue dei tori, degli agnelli e dei capri, io non lo gradisco… Smettete di presentare offerte inutili…” (Is 1,11.13; Am 5,21-23).
In questo ambiente compare Gesù, vero santuario di Dio (Gv 1,14) e vero agnello pasquale (Gv 2,29), e subito si genera il conflitto. Infatti il Messia, entrato nel tempio, non trova gente in preghiera, ma commercio e interessi: “Venditori di buoi e pecore e colombe e i cambiavalute installati” (Gv 2,14).
La reazione di Gesù è inaspettata e violenta: “fatto come un flagello di cordicelle scacciò tutti dal tempio, e le pecore e i buoi e sparse le monete dei cambiavalute e rovesciò i tavoli” (Gv 2,15).
Il “flagello” era un simbolo dei dolori che avrebbero accompagnato i tempi del Messia, rappresentato con una frusta in mano per scudisciare i peccatori (Is 10,26; Sanh., 98b).
Gesù si presenta con il flagello in mano, ma non fustiga i peccatori, gli esclusi dal tempio, bensì quelli che sono l’anima stessa del santuario.
L’azione di Gesù è infatti rivolta al sistema economico del tempio, considerato a quel tempo la più grande banca di tutto il medio oriente (“Il tesoro di Gerusalemme era colmo di ricchezze immense, tanto che l’ammontare delle somme era incalcolabile”, 2 Mac 3,6).
Gesù scaccia “tutti” dal tempio, non solo i mercanti, ma anche quelli che comprano (gli altri evangelisti scriveranno esplicitamente che il gesto di Gesù è rivolto anche contro i compratori: “Gesù entrò nel tempio e scacciò tutti quelli che nel tempio vendevano e compravano”, Mt 21,12; Mc 11,15).
L’azione di Gesù non è volta alla purificazione del luogo di culto, ma alla sua eliminazione.
Le parole e i gesti di Gesù ricordano quelli di Geremia, il profeta che ha osato definire il santuario una “spelonca di banditi” e ne aveva annunciato la distruzione (Ger 7,11.14).
La proverbiale avidità dei sacerdoti, insaziabili sanguisughe che sanno solo dire “Dammi! Dammi!” (Pr 30,15) e che “insegnano per denaro” (Mi 3,11), aveva trasformato il tempio di Gerusalemme nella cloaca di ogni prostituzione: “Come mai la città fedele è diventata una prostituta?” (Is 1,21).
I profeti, pur denunciando il culto ipocrita del tempio, non ne mettevano però in dubbio la legittimità dell’esistenza. Le loro invettive erano tutte tese a una purificazione del tempio, per restituirgli l’antico splendore e santità.
Gesù va al di là.
Per Gesù, il culto stesso è una forma d’ingiustizia, un mezzo di sfruttamento del popolo.
Nella nuova alleanza inaugurata da Gesù, non è più l’uomo che deve offrire al suo Signore, ma il Padre che offre al figlio.
Dio non chiede sacrifici, ma l’accoglienza del suo amore (Os 6,6; Ger 7,22).
Nel regno di Dio, che Gesù è venuto a realizzare, non c’è posto per “alcun tempio, perché il Signore, Dio onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio” (Ap 21,22), e neanche per il culto, perché “Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo, né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa: è lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa” (At 17,24-25).
Conflitto di interessi
Gesù scaccia tutti dal tempio, ma, inaspettatamente, rivolge il suo rimprovero solo ai venditori di colombe, che considera responsabili della corruzione del luogo santo: “E ai venditori di colombe disse: «Togliete queste cose di qui e non fate della casa del Padre mio una casa di mercato»” (Gv 2,16).
La colomba, animale usato per i sacrifici di purificazione dei poveri (Lv 5,7; 14,22.30), era anche figura dello Spirito di Dio, dell’amore gratuito del Padre (Gv 1,32).
I venditori di colombe, quelli che offrono per denaro la riconciliazione con il Signore, sono immagine della classe sacerdotale che commercia in nome di Dio.
Il fiuto infallibile del clero nel trarre interesse da ogni occasione, l’abilità nell’aggirare il conflitto di interessi riuscendo nello stesso tempo a “servire Dio e mammona” (Mt 6,24), avevano prostituito l’immagine di Dio, degradato a una divinità avida e rapace che concede il suo amore dietro compenso, come una meretrice.
Il clero, in cui era assente ogni scrupolo nello sfruttare i deboli e i poveri in nome del Signore (Mc 7,11; 12,40), aveva trasformato il Dio liberatore e salvatore del popolo in un Dio esigente e sfruttatore, di fronte al quale nessuno doveva presentarsi senza offerte: “Nessuno venga davanti a me a mani vuote” (Es 34,20; Dt 16,16).
I responsabili del tempio, che comprendono bene come l’azione e le parole di Gesù siano rivolte contro di loro, reagiscono chiedendo con quale autorità si comporti così. Pretendono un segno, cioè un avallo divino che giustifichi il suo comportamento: “Che segno ci mostri per queste cose che fai?” (Gv 2,18).
Non sanno quel che chiedono.
I segni che Gesù compirà saranno le opere con le quali comunicherà e restituirà la pienezza della vita a un popolo ormai infermo (Gv 5), affamato (Gv 6), cieco (Gv 9) e morto (Gv 11). Ma ridare vita agli oppressi significa nuocere agli interessi degli oppressori.
Restituire la vita al popolo significa liberarlo dal dominio delle autorità religiose, che se ne renderanno ben conto nella drammatica sessione del sinedrio convocata dopo la risurrezione di Lazzaro: “Allora i sommi sacerdoti e i farisei convocarono il sinedrio e dicevano: «Che cosa facciamo? Quest’uomo compie molti segni! Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui»” (Gv 11,47-48).
Alla richiesta del segno, “Gesù rispose e disse loro: «Disfate questo santuario e in tre giorni lo rialzerò»” (Gv 2,19).
Di fronte all’incomprensione dei capi, che pensano al tempio costruito da Erode, l’evangelista specifica che Gesù “parlava del santuario del suo corpo” (Gv 2,21).
Con il Cristo ogni altro tempio o santuario è inutile e inefficace: è solo nella profonda umanità di Gesù che s’incontra il divino. Anche coloro che accoglieranno Gesù possiederanno il suo stesso Spirito (Gv 7,38-39; 19,34) e saranno con lui, e come lui, il santuario di Dio nel mondo: “Non sapete che siete santuario di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?” (1 Cor 3,17). Un santuario che non esclude nessuno, ma che a tutti offre pienezza di vita.
Ma come si fa a adorare Dio senza il tempio?
I discepoli non lo capiscono e comprenderanno queste cose solo alla risurrezione del Cristo (Gv 2,22).
La samaritana ci arriverà molto prima (Gv 4,21-26).
Per ora Gesù non è capito da nessuno.
Non sono solo i “Giudei” che fraintendono le sue parole, ma i suoi stessi discepoli interpretano in maniera erronea i gesti del loro maestro. Valutano l’azione compiuta da Gesù secondo le speranze religioso-nazionaliste del popolo: “Si ricordarono i suoi discepoli che è scritto: Lo zelo della tua casa mi divora” (Gv 2,17; Sal 69,10).
Per essi Gesù è animato dallo zelo, termine che richiama gli zeloti, i nazionalisti che combattevano i dominatori romani, ma soprattutto quel sacro furore che animava il bellicoso Elia, il profeta “pieno di zelo per il Signore” (1 Re 19,14), uno zelo col quale il santuomo sterminava tutti quelli che riteneva nemici del suo Dio: “e con zelo li ridusse a pochi” (Sir 48,2).
Questo è il Messia atteso da Israele, un uomo di Dio come Elia, uno che con la violenza appaghi la grande frustrazione del popolo sottomesso e umiliato.
Un Messia del genere sarebbe accolto e appoggiato anche dalla potente e influente organizzazione dei farisei, che invierà di nascosto uno dei loro più importanti emissari a trattare con Gesù.
Se ne pentiranno.